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domenica 25 novembre 2012

Perché tanta attenzione attorno al cibo e alla cucina?


Roberto, una delle persone che più hanno influenzato la mia predisposizione al cibo fatto e mangiato, mi ha chiesto “Ma, secondo te, perché oggi c’è questa attenzione spasmodica alla cucina e al cibo?”. Roberto ama la dialettica, le domande retoriche e anche quelle a trabocchetto ma stavolta era onestamente interessato.
“Lo chiedi tu, a me?” avrei voluto rispondere, “tu che mi hai fatto capire 30 anni fa che per un uomo il cucinare non è affatto disdicevole ma addirittura opportuno?”
“Non rispondermi subito”, ha aggiunto, “poi ne parliamo”. E di questa utile non-fretta lo ringrazio. La domanda è rimasta lì, appesa nel fresco di quest’autunno soleggiato, e ora le parole cominciano a scendere, vogliose di essere fissate su carta.
Nella Società dell’Incertezza (cfr. Z. Baumann) sono ormai poche le dimensioni dell’essere che possiamo illuderci di poter controllare completamente. Non lo sono il nostro lavoro, né le aspettative per il futuro, non lo è il progetto di vita dei nostri figli, né quello che respiriamo. È perfino diventato difficile essere conformisti perché il modello del ‘gregge di pecore’ è stato sostituito con quello dello ‘sciame di storni’  in cui non è chiaro chi guida e in un attimo puoi ritrovarti ai margini del gruppo.
Il cibo dunque rimane una delle poche aree in ci si ha la sensazione di poter esercitare il libero arbitrio, e che è dunque espressione di quello che siamo, dei valori che propugnamo, del mondo che desideriamo. Detto così sembra quasi un tema politico, e infatti per molti lo è. Mangiare bio, a km 0, vegano, acquistare al GAS o al Farmer’s Market diventano anche scelte di fede.
Di conseguenza, questa attenzione collettiva a uno dei pochi temi in cui possono sussistere reali innovazioni di prodotto, processo, relazioni, l tema lo rende appetibile J per il mercato, i guru, le mode, i media, generando un’offerta di esperienze senza precedenti.
Elementi-chiave per la comprensione del fenomeno, a mio avviso sono:
  • La paura: il mondo è inquinato nel merito e nella morale e il cibo è un prodotto di quel mondo. Mangia pulito, sicuro e giusto!
  • L’amore: per il territorio, per gli animaletti che prima di finire in padella devono aver avuto una esistenza felice e razzolante, per i nostri pupi che tra un ovetto con sorpresa e un compleanno al fast food devono mangiare più biologico dello sciamano amazzonico
  • La passione: facili sono i paralleli tra cibo e socialità/sensualità. Il cibo è talvolta un sostituto, un rivale, ma anche un fantastico companatico dell’affetto. Precede, include e completa la seduzione, è un preliminare che può dare maggiore soddisfazione e qualità del sesso stesso.
Quello che mi colpisce è che, come per il sesso, il mercato ha scientemente depurato il cibo da ogni romanticismo per mercificarlo, specializzarlo, personalizzarlo, frustrarlo.
Cosa c'è nei reality sul cibo e la cucina se non altari su cui viene santificata l’ansia da prestazione davanti a giudici la cui durezza e insensibilità recitate non hanno da invidiare al rapporto popolar-sado-masochista del celebrato ‘Cinquanta sfumature…’? 
Ecco poi le cucine a vista dei ristoranti di grido, il Teatro della Cucina del Gambero Rosso, gli show dal vivo di Eataly, vere e proprie evoluzioni degne di porno-show d'alto lignaggio.
Molta enfasi e attenzione attorno al cibo è equivalente nell’immaginario del pubblico a vera pornografia, accessibile questa però anche coi bambini che giocano in soggiorno; e i superchef sono al pari di star superdotate.
Come accade nella pornografia, nessuno degli spettatori si ritiene però poi all’altezza di quello che vede e il piacere finisce e si completa nell’immedesimazione e nel sogno.
Infatti la conseguenza è a vincere è il mercato delle prestazioni a pagamento e pochi, pochissimi, cucinano davvero, per il piacere di farlo, per sentire nelle mani il profumo del timo o dell’aglio, per misurare l’attenzione delle papille altrui alle stranezze, così come alle certezze. Perché il timore del confronto e della novità blocca l’ego troppo conformista, come quello troppo spaventato per utilizzare il proprio libero arbitrio.. 

sabato 3 novembre 2012

I videogiochi: Complementi di educazione per genitori (caso 3):.

Quando il pupo passa i sei anni per molti genitori è ormai adulto e responsabile, può decidere del suo tempo, del tuo portafoglio, non va contraddetto e nella sostanza va trattato come un idiota (esattamente come si farebbe con gli adulti).
Argomento principe tra i gentori nelle attese alle feste di compleanno (argomento di cui tratterò presto) è l’utilizzo che viene consentio dei videogiochi. Normalmente le considerazioni partono dall’osservazione di quei bambini che, alla suddetta festa, sono attaccati al giochino portatile incuranti dell’animatrice che prova a ammaliarli.
“Dai, su, metti via e va’ a giocare con gli altri”, accenna un padre del bimbo ipnotizzato.
“Dopo, ma’”, è la risposta quando viene.
Il genitore rimbalzato abbozza incassando le spalle. Gli altri solidarizzano con lui: “Già… sono come una droga”. “Sì, ma non esageriamo...”. “Poi quando c’è un cugino più grande non si riesce a toglierli”. "Li hanno tutti". “Sono anche una tassa. Hai presente quanto costano gli Skylanders?”.
Io attacco il cordone ombelicale al tavolo delle pizzette di gomma e do le spalle finché non mi arriva la domanda diretta: “Il tuo gioca molto con i videogiochi?”
“No. Non ne ha”, rispondo masticando per rimanere anonimo e un po’ sgradevole.
“Eh?”
Deglutisco, “Secondo me è troppo piccolo. Per ora abbiamo deciso di no”.
“Piccolo? Ha nove anni. Dimmi come fate?”
“Non glieli compriamo e diciamo ai nonni di non regalarglieli a Natalee neppure alla Comunione”.
“Sì, ma non va a casa degli amichetti?”
“Sì, e lì se vuole ci gioca. Ma a casa proviamo a fare altro”.
Le mie risposte non bastano mai, insistono “Quindi lui non ha videogiochi?”. “No”. Allora mi vogliono cogliere in contraddizione: “Non gli fai neanche vedere la tv?”. “La tv la guarda, quello che decidiamo noi, ovviamente”. “E tu non hai il computer?”. “Sì”. “E lui non vuole giocarci?”. “Non lo so. Il computer serve a me”.
Pare tutto così strano che non mi chiedono se siamo anche vegani ma poco ci manca. “E come fai a non farlo giocare col tuo computer?”. “Gli dico di no”. “E lui cosa vuole in cambio?”. “Gli dico di no e basta, poi dopo un po' se lo dimentica e facciamo altro”.
Qui la discussione si interrompe.
Dire di no non è contemplato.
Ma quello che spesso non è contemplato è immaginare altro da fare con loro.
Fortunatamente la domanda che non mi fanno mai è “Perché non vuoi che usino i videogiochi?”
Comunque non risponderei perché ogni famiglia è diversa e la mia risposta vale solo nella mia realtà.
Mio figlio la domanda me l’ha fatta, ovviamente. Ha capito, ha sorriso e se ne è fatto una ragione.
Tra 9 anni farà come preferisce.

Puntate precedenti:
Il manager e i sui rimpianti (caso 2)
Le colpe dei figli ricadono sulle nonne (caso 1)