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lunedì 25 novembre 2013

Ad Ada, una donna di quattro anni.

Nasci donna.
Una fortuna, dico io. Una sfortuna, dirai tu almeno 1000 volte nella vita; spero credendoci di meno ogni volta che lo ripeti.
Vi trovo sempre più interessanti degli uomini. Non è perchè mi piacciono le donne, no, è perché in un uomo cerco conferme e in una donna trovo la ricchezza del confronto.
Avete la determinazione, l’intelligenza, la curiosità che vi rendono capaci di guardare al Presente con senso di realtà e al Futuro con speranza, come se fosse uno scrigno di opportunità da scoprire.
Vi ho sempre considerato superiori anche quando voi per prime non ci credete. Se avessi visto tua madre serrare le mascelle per darti lo slancio per venire alla luce, mi capiresti meglio. I sacrifici fatti da tua nonna e dalla tua bisnonna per far quadrare il bilancio familiare, educare i figli, tenere assieme la famiglia, valgono dieci quelli di un uomo amministratore delegato di una multinazionale.
Siete superiori nelle professioni perché la vostra intelligenza si alimenta di soggettività e non solo di fatti. Per voi l’evoluzione è un’opportunità, per noi un ostacolo. Non avete paura dei sentimenti. Sarete sempre indispensabili; noi uomini molto meno. 
Nell’immaginare la ragnatela dei possibili percorsi nel tuo futuro non posso fare a meno di pensare alle donne che conosco, al loro presente e ai loro passati. Tua madre, mia sorella, zie, nonne, amiche, professoresse, colleghe, educatrici, ex fidanzate. Frequentandole ho ammirato il loro slancio nell’affrontare la vita, la sensibilità che le rende partecipi ai drammi come alle gioie, la sicurezza che hanno quando serve davvero, e la loro guerra quotidiana contro gli ostacoli che una società governata dagli uomini gli impone.
Sai, siamo nel 2013 ma capita ancora che su di voi vengano calati a forza ruoli umilianti. Non parlo dei fondamentalismi religiosi in qualche angolo di terzo mondo ma del qui e ora. C’è chi prova a imporvi se, come e quando vestire, lavorare, educare, riprodurvi, pensare, persino amare. C’è a chi fa comodo che l’uomo comandi e la donna obbedisca. È un gioco di ruolo datato, superato dalla Storia, che ha fatto danni epocali provocandolo dolore e infelicità sia tra le donne che tra gli uomini. È che alcuni fanno finta di non averlo capito.
Sai, l’uomo, abituato da sempre a occupare tutti gli spazi che contavano e a amministrare i diritti della donna (con bizzose concessioni soggette a regole e umori da lui solo definiti), ha visto sgretolarsi le proprie possibilità di controllo e ha reagito con violenza. Certo, per alcuni è stato difficile essere degradati da monarca assoluto a membro di un consesso democratico il ché, se non si capisce il valore della democrazia, può sembrare un’umiliazione.
Ciò ha dato vita a scontri cruenti. Sono stati covati in quei piccoli reami che erano le famiglie, isolate nei condomini poi, fuori dalle cucine e dai letti coniugali, sono sfociati nelle piazze in lotte per consentire a tutte di godere di diritti naturali politici e civili.
Oggi di quella netta contrapposizione tra mondi rimane poco. Almeno sulla carta, sono stati fatti molti passi avanti resta però aperta la guerra tra i singoli individui e la società. I diritti “delle donne” sono diventati quelli “della donna”, al singolare. A poche interessa il destino delle altre e la competizione tra persone vince sulla solidarietà tra simili (intesi come donne ma anche come esseri umani) con ogni difficoltà affrontata in inevitabile solitudine.
La stessa solitudine è compagna del genere maschile. 
L’uomo della mia generazione non  ha nessun modello di riferimento che lo guidi nel vivere con donne che non assomigliano (fortunatamente) alla propria madre e con le quali non funziona nessuna eredità biologica importata dai padri.
Chi vuole dunque provarci davvero deve prima riporre tra i cimeli di famiglia l’immagine del padre che ha specchiata dentro di sé e inventare il proprio essere uomo, amico, amante, marito. Io devo perciò essere diverso da mio papà anche perchè tua mamma e tua nonna hanno in comune solo il fatto di essere entrambe mammiferi.
Questa mancanza di riferimenti non è però un alibi e neanche una colpa. Credo che l’ascolto e la tolleranza rimangano gli elementi chiave per avvicinarsi, capirsi, amarsi e costruire assieme. Non sempre ci sono. Vedo donne costrette a tenere un incongruo basso profilo sempre e comunque, con un timore esasperato per le conseguenze delle proprie azioni e delle proprie intenzioni, con sogni e desideri costretti ai minimi termini.
Sono tutti fardelli che faremo il possibile tu riconosca e tenga lontano. So che tua madre sarà fondamentale in questo. Lei, austriaca, piuttosto estranea a schemi che prevedono subalternità e dipendenza, libera e a testa alta. È un modello anche per me, per te sarà di certo un faro.
Che uomini incontrerai? E che donne?
(In effetti qui potresti mettere un bel: “Ma papà, cosa ti interessa?”)
Molti tuoi incontri avverranno con persone insicure e in cerca di continue conferme, di una guida, di un’idea, bisognose di spalle su cui piangere o un braccio a cui reggersi ma restie allergiche alle lacrime altrui. Oggi non è che la sicurezza di sé, dei propri limiti, delle proprie capacità, siano merci diffuse. E non vedo segnali di possibili inversioni di tendenza.
Io e tua mamma ci siamo riconosciuti come diversi e poi ci siamo scelti. Avremmo probabilmente avuto vite complete e degne anche non cogliendo l’opportunità che il caso ci ha dato e su cui con volontà abbiamo costruito. Ma quale spreco sarebbe stato! Invece ecco che ci scegliamo ogni giorno, trovando sempre il modo di confermare le ragioni del nostro amore. La nostra è una famiglia fondata sulla scelta e non sul bisogno: c’è una tensione positiva che porta i passi verso un futuro in cui occorre continuare a meritarsi la scelta dell’altro.
Preparati, più cresci e più proveranno a sottometterti, non in quanto donna ma come essere pensante. La tua femminilità costituirà al più un'aggravante al reato di Libertà di Coscienza. Molti dei tuoi aguzzini saranno uomini, altri saranno donne, avrai a che fare con professori esasperati dalla solitudine, preti impauriti dalla modernità, falsi amici, falsi adulti, veri dittatori. Ti faranno male. Per quanto ottusi nel ragionare saranno esperti nel colpirti perché sarà una delle poche cose che nella vita darà loro soddisfazione. Col tempo imparerai a prevederne i colpi. Nel dolore e nella rabbia troverai gli anticorpi per reagire. La necessità di sopravvivere ti insegnerà a scovarne i punti deboli.
Il non dargliela vinta sarà l’unica via d’uscita per conservare la tua dignità. Nell’amore per te stessa e per gli altri troverai la motivazione per farlo.
Fa che “Essere te stessa” non suoni come una formula buona per i consigli tra amiche germogliati nella retorica alcolica di uno Spritz. Sia piuttosto quella che si potrebbe chiamare una Scelta dalla quale non prescindere ogni volta che sono in gioco il tuo futuro e la tua dignità.
Per riuscire devi crederci, devi sviluppare una qualità rara che noi proveremo a seminare in te col nostro esempio, ma che solo tu potrai far crescere e irrobustire: l’Autostima.
Vuol dire sapersi capaci di volare in alto e cadere sempre in piedi, e credere anche di meritarselo. Non è amica della superbia ma si fonda al contrario nell’umiltà e nella fiducia illimitata in un futuro migliore. Costa fatica costruirla ma una volta sperimentata viene naturale e la si protegge come il gioiello più raro. È nemica della furbizia e amica della giustizia.
Io l’ho imparata da tuo nonno, ne ho vista un po’ nella sua generazione, per la quale costituiva il requisito essenziale per uscire dalla povertà, anche intellettuale. L’ho frequentata molto all’estero e poco in Italia, l’ho sposata in tua mamma. Per il resto, in giro ne vedo proprio poca.
La mia generazione ne ha rimosso l’urgenza, direi quasi l’esistenza. Arrivando al paradosso che quando c’è in qualcuno, agli occhi dagli altri è vissuta come un difetto. Per chi non ne ha (la maggioranza) diventa subito “eccesso di autostima”, eccesso per coloro che non sopportano l’esistenza di chi affronta la vita a testa alta perché questo gli dimostra quanto sia comunque possibile essere se stessi.
Per riuscirci, occorre mantenere una consapevole coerenza tra ciò che si è e come si appare, sapere che nessuno ha il diritto o la facoltà di comprarci, conoscere allo stesso tempo il proprio valore, esigere rispetto e sempre riconoscerlo agli altri senza esserne invidiosi.
Facile? No, affatto, anche se mi auguro tu sia già sulla buona strada.

sabato 16 novembre 2013

Classifica e somme dopo il Festival del Cinema di Roma

Il Festival del Cinema di Roma è terminato e comincio a digerire l’usuale indigestione di immagini, idee, punti di vista, provocazioni. È stata una bella festa con un livello medo dei film decisamente superiore all’anno scorso (per dire: non ho abbandonato nessuna proiezione a metà come invece mi è spesso capitato negli ultimi anni)
Persiste l’orribile sigletta iniziale con l’insulsa donnina nuda che si inginocchia e tende l’arco: roba per guardoni cinefili o cinefili guardoni. A seguire però hanno messo uno spot del Governo contro le barriere architettoniche, ma forse era per promuovere l’ospitalità, o per il turismo: talmente pasticciato che tutti lo deridevano
Ricordo il primo festival, otto anni fa, in cui ero in giuria e faticammo per trovare una donna a cui assegnare il premio per la miglior attrice. Chi aveva selezionato allora di certo non sopportava le donne. Quest’anno al contrario impazzavano bellissimi ruoli femminili, ben scritti e pensati. I film erano però affollati di uomini insulsi, disorientati, fatti, sbronzi, spenti che in più di un film non volevano fare figli con donne invece dichiaravano che li avrebbero fatti pure con passanti sconosciuti.

Ecco la mia personale classifica dei film visti:
  1. HER (di S. Jonze). Grandissima prova d'autore sugli incubi della digitalizzazione dei sentimenti. Lui si innamora del nuovo sistema operativo – e fin qui nulla di nuovo – ma le cose diventano interessanti quando il sistema operativo ricambia l’amore. Recitazione, dialoghi e fotografia memorabili. Da far circolare nelle scuole perché si capisca il pericolo insito nella riduzione che separa il diaframma tra la realtà e la proiezione dei propri desideri nel virtuale. 10 minuti di meno e piacerebbe a tutti, ma un po' di lentezza serve a fermarsi e pensare.
  2. CAPO E CROCE - LE RAGIONI DEI PASTORI (di P. Carbini e M. Pani). Meraviglioso documento sulla attuale lotta dei pastori sardi contro politici ottusi, mafie commerciali, disinteresse del mondo alla al loro mestiere e al valore culturale, ambientale e economico che ha per la collettività. Emozionante l'incontro finale con i protagonisti del film presenti in sala. Lo vorrei in prima serata su Rai1. Tornato a casa ho addentato con più gusto quel tocco di grana di pecora di Anglona in agguato nel mio frigo.
  3. QUOD ERAT DEMONSTRANDUM (di A. Gruzsniczki) la Romania del 1985 ci racconta con gelida chiarezza come la libertà di pensiero sia alla base della dignità e il maggior pericolo per la dittature. Tutti hanno un prezzo? Tutti possono essere vittime e delatori? Fidatevi, vi stupirà.
  4. JE FAIS LE MORT (di J. Salomè) spassosa, originale e attuale detective story ambientata sulle alpi francesi. L’attore disoccupato viene mandato dai servizi per l’impiego a impersonificare il morto nelle ricostruzioni della polizia. Una bella spremuta di bel cinema che ha il coraggio di osare una lettura non banale della crisi.
  5. SONG'S E NAPULE (by Manetti Bros) scoppiettante magnifico melodramma pop napoletano. Il poliziotto imboscato appassionato di pianoforte viene infiltrato in un gruppo neomelodico che suonerà al matrimonio del grande camorrista ricercato. Ben recitato, scritto e cantato. C'è più spremuta di Italia lì dentro che in 10 serate di Santoro. Io lovvo Manetti Bros. e Giampaolo Morelli.
  6. L'AMMINISTRATORE (di V. Marra). Sincero e umanissimo spaccato del lavoro meno invidiato del mondo urbanizzato. Intelligente documentario in cui la macchina da presa segue le liti, le furbizie, le lacrimucce e i trucchi di una Napoli struggente.
  7. IL VENDITORE DI MEDICINE (di A. Morabito) la mafia delle industrie farmaceutiche che lucrano sulle nostre malattie. Bravo Santamaria. Film davvero scomodo a rischio insabbiamento prima di arrivare in sala.
  8. UVANGA (di M. Cousineau) la casa è dove è la famiglia, anche al Polo Nord. Suggestivo film canadese di poche parole, grandi paesaggi, timidi sorrisi e sinceri sentimenti.
  9. TAKE FIVE (di G. Lombardi) colorito furto in banca con buco attraverso le fogne in terra napoletana. IL colo riesce ma niente va per verso giusto. Personaggi scombinati e varia umanità in giro per una città che arranca nel riveder le stelle.
  10. THE HUNGER GAMES (di. F. Lawrence). Tachicardico action movie per il quale mi sono alzato alle 6.45. Ti prende le viscere e te le porta avanti nella storia per 2 ore e mezza. Poi, sul più bello ti da appuntamento al terzo capitolo della saga.
  11. PATEMA INVERTED (by ) cartoon giapponese sulla difficoltà di accettare il diverso e l'inverso. Il film stesso è stranamente diverso e piacevole con mezza umanità che viene respinta dalla forza di gravità a cadere verso il cielo. Visto in una sala piena di adolescenti orfani di Zalone, ululanti e timorosi del buio.
  12. HARD TO BE GOD (di A. German) Russo, in bianco e nero, iconoclasta, attesissimo, scatologico, disassato, forse necessario, ispirato, piove tutto il film e io trattenevo la pipì, dura tre ore. Ci hanno messo tredici anni per farlo ma non si capisce perché. Inquadrature e movimenti di macchina stupefacenti. Sputano più che in un derby all’Olimpico.
  13. JULIETTE (P. Godeau) film parigino affollato di giovani confusi e confondenti. Lavoro? Può attendere. Responsabiiltà? Dopo. Futuro? Eterno presente. Ma in un modo o nell'altro cresceranno. Malinconico.
  14. SNOWPIERCER (di J. Bong). Action movie post apocalittico pieno di poveracci che se menano su un treno che pare un fulmine e attraversa una terra ghiacciata. Raggelante e scontato ma denso di feromoni.
  15. L'ULTIMA RUOTA DEL CARRO (di G. Veronesi). Storia sgangherata di un tipo dickensiano che vive a Borgo Pio. Vivacchia e ammicca, come il film. Presuntuosa panoramica tentennante degli ultimi trenta anni in questo paese che sta disimparando a raccontarsi, così come a ascoltarsi.
  16. ENTRE NOS (P. Morelli) il Grande Freddo do Brasil. Gli amici di un tempo si ritrovano dopo 10 anni a leggere delle lettere che si erano autoindirizzare poco prima che uno di loro morisse in un incidente. C’è letteratura, giungla, sopravvivenza a ogni costo e un’amicizia ritenuta sempiterna che non regge la prova del tempo.

lunedì 11 novembre 2013

L'Energia più pulita è generata dalla Cultura.

Mentre qui lanciano un film di Zalone in 1200 sale, in Scandinavia, UK, Repubbliche Baltiche lanciano azioni di largo impatto in cui centinaia di artisti entrano in migliaia di scuole (Creative partnership, Cultural Rucksack), in altri Paesi tutti i ragazzi imparano a suonare uno strumento (sull’esempio de El Sistema di Abreu che sta cambiando il volto del Venezuela, ma anche in Olanda o Germania).

Marco Magnifico il vice presente del FAI in un seminario ci raccontava: “Volevamo misurare la distanza tra il FAI e il National Trust inglese. Migliorarci, capire. Ero in visita in un magnifico parco pubblico gestito dal NT e mi sono fermato a guardare delle peonie particolari. Lì accanto c’era un giardiniere che faceva il suo lavoro con la zappetta. Ha notato la mia sosta su quel fiore e si è avvicinato. Abbiamo dialogato per cinque minuti e mi ha spiegato quello che sapeva della pianta, ha risposto alle mie domande si è stupito per le varietà che nascono da noi. L’ho salutato e, uscendo, ho detto alla direttrice del posto ‘Un giardiniere è stato gentile a dedicarmi il suo tempo per spiegarmi tutto di un fiore che non conoscevo’. Lei ha risposto: ‘Non è stato gentile, è pagato per farlo. I giardinieri, come i custodi dei musei, sono pagati per dedicare l’80% del loro tempo alle mansioni specialistiche e il 20% per far sentire il visitatore accolto, fidelizzarlo, appassionarlo’. Lì ho capito che in Italia non ce l’avremmo mai fatta”.
In effetti l’abituale immagine fantozziana del custode di un museo scolpito sulla sua seggiolina fa già apparire ipercinetico il casellante autostradale. Di certo la colpa non è sua, ma non è neanche innocente. Come non lo sono i manager e la politica. Oggi poi, con la crisi e le spending review, la domanda “Ha senso investire nella crescita, nella valorizzazione e nella partecipazione culturale?” assume un’urgenza vitale.

Per alcuni è facile dire “No”, e lo fanno osservando i costi e i miseri incassi di Teatri, Musei, Biblioteche, Centri Culturali.
Io la penso al contrario ma sono convinto che occorra lavorare duro per far percepire il valore che hanno l’arte e il patrimonio culturale per la vita e la democrazia altrimenti i fiori di Van Gogh valgono le erbacce di uno spartitraffico e i Caravaggio le pennellate di un imbianchino.

Non bastano qui le spiegazioni romantiche, le pretese ovvietà, né le evidenze intellettuali sempre confutabili da chi ha altri interessi e sensibilità. Servono  Indicatori di impatto Culturale che come quelli di Impatto Ambientale o Economico possano quantificare cosa significhi aprire o chiudere un museo, ma anche costruire una ferrovia su un parco o preservare le botteghe storiche di una zona. 
Forse non si può misurare la bellezza ma, ad esempio, la solitudine sì, e con essa il suo 'costo' per i singoli e la collettività
Indicatori ragionevoli di Impatto Culturale possono zittire chi ha interessi anticulturali e vuole vendere le spiagge e quello che esse rappresentano per far cassa.
Si può fare: si possono misurare i suicidi, gli alcolisti, le violenze. Posso misurare la partecipazione alla vita della comunità, la penetrazione e l’uso della banda larga, le propensioni xenofobe e omofobe, la diffusione delle droghe e degli strumenti musicali tra gli adolescenti.
E gli antidoti all’isolamento e alla solitudine sono la cultura e il lavoro, entrambe coniugate col rispetto e la passione.
Si può cominciare allora a ragionare su qual è l’impatto concreto dell'aprire un teatro in un quartiere periferico, quanto valga far partecipare gli abitanti della zona alle attività di un Centro Culturale, quale sia l’impatto culturale di un Bingo o di un centro commerciale; e anche il valore di laboratori artistici in una scuola o in un centro anziani. E quanti sollevi l'opera a Caracalla, un concerto dei Negramaro, o l'estasi davanti a un Kiefer, un Rothko, un Bernini.

Si potrebbe meglio programmare il futuro, zittire quelli che “con la cultura non si mangia” e dimostrare come quella generata dalla Cultura sia la vera energia pulita

venerdì 11 ottobre 2013

Aggiungi un posto a tavola che c'è una crisi in più.

Ogni anno vado per 4 giorni agli Open Days a Bruxelles. È un mega evento dove i 4000 partecipanti si confrontano sulle tematiche di maggior interesse per lo sviluppo sociale e economico dell’Europa. Centinaia di incontri si svolgono in decine di sedi differenti. Si studia, si ascolta, si dialoga. Quest’anno a spingermi era la volontà di capire cosa si stia facendo per superare la crisi e come sarebbe intelligente programmare l'uso dei quasi 60 miliardi di Fondi Strutturali che avremo in dotazione in Italia per il periodo 2014-2020.
Vengo direttamente alle considerazioni conclusive:
  • In Commissione Europea non hanno nessuna idea su come uscire dalla crisi, recuperare gli Stati che sono allo sbando, affrontare il tema della disoccupazione giovanile e non. Ma, con incrollabile fiducia, fanno finta di non saperlo. 
  • La loro strategia è quella di dare regole generali per far sorgere le soluzioni dagli Stati Membri, che poi loro le chiedano alle Regioni che, spaesate, le chiedono a noi, uomini e donne di buona volontà. In questo scenario spicca il volto terreo di una Pubblica Amministrazione sinora abituata a eseguire, a cui di colpo è chiesto di pensare e va subito nel panico.
  • Folgorante in tal senso è il caso della “Garanzia Giovani”, la ‘nuova’ politica europea per combattere la disoccupazione giovanile. A oggi si tratta solo di un brand, di un nome a uso dei media per etichettare gli stessi strumenti datati, fatti con gli stessi servizi claudicanti da anni. Nessuna vera attenzione è data alle molte novità possibili e sperimentate in questi anni, ai bisogni mutati, alle aspettative dei giovani. L’importante oggi è dare la sensazione che si farà qualcosa con un nome nuovo. A mia precisa domanda su "Cosa cambia rispetto al passato?" la delegata della Commissione ha risposto "Nulla di concreto ma se definiamo una politica i disoccupati d'ora in poi sapranno che non è una loro colpa essere senza lavoro." Chapeau.
  • Altra chicca è la “Smart Specialisation Strategy”, la strategia che ogni Regione dovrebbe mettere a punto per definire il quadro degli investimenti dei prossimi 7 anni. Utile e stringente in teoria. Si sta compilando sulla base dell’ovvio e della paura di scontentare qualcuno (della serie “La nostra Grande Strategia Regionale si concentra sulla Qualità della vita, la Qualità dell’Ambiente e il Turismo”. Ma de che?) Il livello nazionale prenderà poi le Strategie regionali e le metterà assieme per fare quella nazionale e poi a Bruxelles faranno il puzzle con quelle degli altri Stati per poi riproporla agli Stati come strategia Europea. Loro la approveranno per riproporla alle Regioni che festeggeranno con tarallucci e vino.
  • A Bruxelles ho avuto evidenza tutto in una volta dai termini che segnano la disfatta della vecchia tecnocrazia autoreferenziale: “Call for Ideas”, “Codesign”, “Social Innovation Competition”, “Place based policies”, “Quadruple Helix”  che in apparenza sembrano benedette aperture a contributi originali e utili si traducono tutti con “Da sempre qui si è fatto come ho detto io, politiche e progetti senza relazioni con i bisogni e la realtà. Ma non ha funzionato, non chiedetemi il perché, siate cortesi. Ora non so più cosa proporre, ditemi voi cosa potrei fare”.
  • Il ‘Voi’ di cui sopra è stato sostanziato  e ha assunto la dignità: Stakeholder. Già perché, se non lo sapete ancora, siamo tutti stakeholder, cioè ‘portatori di interessi’. Figo, vero? Anche  disoccupati lo sono e già li immagino più contenti. (Come disse un'importante direttore regionale: "sono stufo di parlare con gli stessi da vent'anni, fate venire qui qualcuno che sappia qualcosa delle cose di cui parliamo e del mondo reale!")
  • é appurato poi che quello che manca nei decisori è il coraggio. Non è previsto nella prassi amministrativa, è sconveniente, insolito quasi. Si preferisce replicare gli errori e con le visioni a corto termine (tipo ammortizzatori sociali) che osare interventi e soluzioni. Per coraggio intendo ad esempio saper dire dei ‘No’ a iniziative non di interesse collettivo, scegliere le idee migliori e non quelle presentate dagli amici, saper dare fiducia a chi la merita, non fare conti elettorali quando si tratta di salvare la barca che affonda. Da Bruxelles hanno aperto a qualche timido tentativo in questa direzione varando  termini come “Social Sperimentation” o “Living Labs” che vi cito ma di cui siete pregati non chiedere esempi reali perché non sono pervenuti.
  • È evidente come si apra una fase nuova nel governo della società, in cui la politica e i tecnici evergreen ammettono per la prima volta di navigare al buio e di aver bisogno delle nostre idee e supporto nell’elaborarle e realizzarle. Finalmente, direte voi. Ancora non si capisce se questo sia destinato a durare o sia solo un effetto del panico, riassorbibile appena le cose vadano meglio. Quello che nei palazzi molti non si aspettano è che sono molti i cittadini, le aziende, gli stakeholder a non aver bisogno della politica, dei fondi regionali, della carità pelosa.  Questo è pericoloso per la tenuta della coesione sociale, prelude alle fughe dei cervelli, all'interesse personale.
  • ‘Fiducia’ è infatti l’anello mancante grazie al quale cui gli stakeholder improvvisamente considerati 'pensanti' possono essere parte della buona politica, contribuire alle strategie di sviluppo, suggerire soluzioni. Però, tra soggetti che si rispettano, se oggi tu – che mi hai tenuto alla porta per decenni elargendomi come elemosina ciò che mi veniva per diritto - mi coinvolgi nel disegno del nostro futuro comune sappi che poi ho il diritto di partecipare alla sua costruzione, vedere premiati solo i progetti utili e migliori, conoscere i criteri di valutazione, controllare l’avanzamento dei progetti finanziati. Altrimenti lasciamo pure perdere.
  • Le buone idee hanno un gran valore. Se non c’è Fiducia, le sole idee in circolazione saranno mercenarie, fornite da consulenti per nulla poi responsabili degli errori che le istituzioni faranno nel cucinarle, nel servirle, nella scelta degli ingredienti, nel capire se soddisfano i bisogni dei clienti. Nel dubbio, molti  nel ristorante non entreranno neppure.
La vedo così. Anche perché non sono tanto capace a arrabbiarmi e preferisco scrivere.

Poi lo so, c’è chi cerca il leader, l’uomo forte, che ventila l’uscita dall’Europa perché ci fa da specchio e ci fa vedere tropo spesso come siamo brutti. C’è chi si è stufato di farsi governare dalle banche e preferirebbe farsi governare da un uomo forte con le idee chiare, magari poche e semplici, a cui poter delegare tutto per continuare a evadere le tasse, evitando di prendere posizione, giustificando ogni propria scelta inquinante di anime e corpi col classico “Tengo famiglia

Questo non sono io e voglio pensare che non siate neanche voi. 

lunedì 30 settembre 2013

I bambini e il bilinguismo (caso 11)

Al parco ho incontrato Kate. È italoamericana, è la mamma di Marta, una pupetta di 4 anni con i capelli corti e gli occhi grandi. Era furiosa. “Le maestre della scuola materna mi hanno detto di non parlare a Marta in inglese altrimenti si confonde, e quando loro le parlano in italiano lei non capisce.” Le pareva paradossale, come in effetti è.
Loredana invece mi aveva detto tempo fa che la sua pediatra indicava di cominciare a ‘insegnare’ il rumeno del papà a Matteo dopo i tre anni “perché prima non avrebbe senso, neppure capiscono l’italiano.”
Non credo sia necessario sottolineare qui l’importanza e la ricchezza del bilinguismo, sia per quello che consentono in materia di relazioni, che delle competenze e di capacità di relativizzare i concetti.
Mi pare invece il momento di fare ordine in questa importante fase di apprendimento dei bambini della quale nessuno degli inutili manuali di pedagogia che affollano gli scaffali fa mai cenno.
Mi permetto di farlo perché i miei bambini sono bilingui (italiano e tedesco) e con loro ci sembra di essere sulla buona strada:
  • Per i bambini non ci sono le lingue ma le persone: per loro c’è la lingua di mamma, la lingua di papà, quella del nonno… e non l’italiano, l’inglese, il rumeno. Associano le lingue alle persone. Nella loro testa il passaggio da una lingua all’altra è automatico a patto però che questa identificazione sia totale e senza incertezze. Ecco dunque che i due genitori con i bambini devono parlare SEMPRE e SOLO nella loro lingua, fin dall’inizio (qualcuno sostiene sia meglio farlo fin da quando il bambino è in pancia). Occorre costanza e metodo in questo.  Occorre dire “Non capisco” (anche se non è vero) se il bimbo si esprime nella lingua sbagliata.
  • Se i coniugi non sono ‘fluenti’ nelle rispettive lingue: capita spesso e per molti è il vero ostacolo. Io, ad esempio, non so quasi il tedesco e dunque non capisco tutto quello che mia moglie dice ai bambini. Negli anni però la percentuale della mia comprensione è salita dal 20 al 70% e a forza di ascoltare faccio costanti progressi. Non fatevi bloccare da questo, prendetelo come una opportunità anche per voi come coppia.
  • I bambini non imparano le lingue, semplicemente parlano: non ci sono sforzi, non faticano. Ecco che l’associazione dei visi alle lingue per loro è naturale. Quando i miei erano piccoli, dopo le vacanze in Austria dove parlavano con tutti tedesco tranne che con me, al ritorno in Italia continuavano a fare nello stesso modo (perché ci mettevano qualche giorno per settare il concetto ‘persona sconosciuta’=lingua italiana.) Occorre anche uscire presto dallo schema papà-mamma ma dargli riferimenti in entrambe le lingue già in Italia. Fate sì che abbiano altri bambini con cui giocare e parlare la lingua diversa dall'italiano.
  • La quantità è importante: i detti popolari come ‘i bambini sono delle spugne’, ‘ da piccoli si impara più facilmente’ hanno sicuramente una base scientifica. Non ho elementi per valutare; so solo che la lingua si impara per quantità e amore. Se si ascolta tanto tanto tanto da una persona che si ama, si impara naturalmente. A ogni età. Ecco tutto. E dunque occorre costanza e impegno. Ritengo importante che, almeno sinché non sono sicuri in entrambe le lingue, le vacanze vadano fatte nel paese straniero.  
  • La lingua ‘forte’ e quella ‘debole’, come riequilibrare: una delle due lingue è sempre più presente. Di norma è quella del paese in cui  si vive, che spesso diventa anche quella veicolare tra fratelli e sorelle. Ecco allora che occorre difendere e valorizzare quella meno presente. Suggerisco fin da piccoli l’uso sistematico di film e cartoni animati in lingua, l’introduzione di feste tipiche (ad es. noi abbiamo la Martinsfest a Novembre, l’arrivo dei Re Magi, e altre simpatiche ricorrenze con musiche e rappresentazioni), di legare il cibo alla lingua introducendo spesso nel menù italiano piatti dell’altro paese spiegandoli, raccontandoli.  Di estrema importanza sono poi  i libri e le canzoni in lingua: qui occorre esagerare perché nell’ascolto e nella riproduzione infinita si marchino nei bambini i pattern della lingua.
È facile, molto più di quanto sembri, per i bimbi e per i genitori.



Per chi volesse approfondire alcuni casi precedenti:                     

venerdì 27 settembre 2013

Signor Barilla, mi consente?

La recente vicenda del signor Guido Barilla che argomenta con forza la sua filosofia commerciale diretta alle coppie etero, quelle in cui la donna è felice di essere lei sempre ai fornelli, col marito che sbuca solo quando i fusilli sono in tavola, non mi scalda poi così tanto. Lui non è interessato al target omosessuale? Lui vede la donna solo come angelo del focolare? Fatti suoi. Governa un brand che se non cambia perde, ma sono fatti suoi. Non ritengo che le pubblicità debbano essere politicamente corrette, tantomeno orientare gli atteggiamenti morali. Servono a condizionare i comportamenti d’acquisto. In questo senso la reazione irritata di molti fa pensare che i consumatori sappiano scegliere.

Il signor Barilla ha detto quello che pensava, che pensano purtroppo in tanti, di certo quelli a cui lui vuole vendere la sua pasta e (come dice lui) gli altri sono liberi di mangiare altro.
Cosa che senz’altro faremo. Io perlomeno se posso evito Barilla per motivi che oggi trovo sensato esplicitare:  
  • E’ una pasta mediocre: tra le opzioni sugli scaffali le scatole blu della Barilla non sono niente di chè. Si è scelta la nicchia della mediocrità, di pasta sicura e tranquilla, quasi l’icona del conformismo a tavola. Ma il conformista oggi è modaiolo, sfuggente. Ecco allora che da un po’ la Barilla tenta di posizionarsi su una fascia medio-alta ma sotto i denti però non supera in qualità le paste da mensa e, come per i tappeti, nei supermercati è sempre più spesso in sconto. (mentre le paste buone sono in sconto due volte l’anno, se va bene).
  • I formati paraculi: prende per i fondelli con la varietà della sua offerta. Ha recentemente varato le Specialità, paste normalissime che costano di più perché … non si sa. Tra queste ci sono anche le Farfalle, la pasta meno speciale e esclusiva mai immaginata da trafilatore annoiato. Poi ecco i Piccolini: mini penne, mini fusilli, mini farfalle, bonsai di grano duro per sedurre i genitori insicuri che – magari con pupi che mangiano poco – pensano che una simile paraculata basti a convincere l’infante. E infine gli Integrali, che alla Barilla costano uguale se non meno degli altri formati ma che il signor Barilla si sente in dovere di vendere a prezzo maggiorato.
  • Lo spot di Forza Italia del ’94. Lo ricordate? Ha ampiamente saccheggiato musiche e immagini Barilla, ne ha travasato il populismo in politica. Fa sorridere che oggi qualcuno si indigni per le posizioni tradizionaliste dell’azienda. Mi basta pensare a quella musichetta infame per cancellare il carboidrato in scatola blu.
  • Le mani in pasta: la condanna per le attività di cartello tra le aziende produttrici è alquanto irritante e ormai definitiva. La Barilla paga 5,7 milioni di Euro di multa dei 12 complessivi (divisi tra 26 aziende di settore).     
  • L’invenzione del Mulino Bianco Questa poi non gliela perdonerò mai. Come tutte le madri, anche la mia fu sedotta dalla pubblicità e da un’incontrollabile pulsione verso le raccolte a punti. Non si parlava più di gusto, di fragranza, di morbidezza, ma solo di pupazzetti, di cuscini gonfiabili e di improbabili mollette a forma di animali della fattoria. Sulla nostra tavola, a colazione, i Bucaneve persero lo status di unici fornitori della mia unica colazione e ebbero dignità di una presenza in biscottiera ogni tre apparizioni di Mulino Bianco, e solo dopo mie insistenti lamentele. Anni dopo frequentai un master in cui il docente di marketing strategico elencò gli stratagemmi adottati dalla Barilla per affermare il Mulino Bianco. Quella lezione diede certezze ai miei peggiori sospetti quando compresi le finezze della campagna pubblicitaria centrata sull’idea del ritorno alla natura ma in realtà facente perno sul terrore di vivere in un mondo contaminato dove nessuno è disposto a fare un passo indietro ma tutti si vantano di apparire ecosostenibili. Un mondo dove le sorelle sono tutte bionde, ricce e saputelle. Mi fu chiaro quanto la metafora del mulino celasse in realtà un immenso hangar di pesticidi che venivano liberati nelle colazioni e contaminavano la coscienza di una generazione.
Barilla non mi è simpatica, ok.
Forse oggi è il consumatore a dover provare a essere politicamente e papillarmente corretto.
Stasera rigatoni con spada e melanzane.

domenica 22 settembre 2013

Di cosa parliamo se parliamo di senza lavoro.

La crisi ci avvolge e le soluzioni latitano. Le comunità si sfilacciano, le famiglie scoppiano, le persone si abbruttiscono, si disperano, muoiono talvolta per mancanza di alternative.
Le risposte alla domanda di lavoro, di opportunità, di futuro, sono ostaggio di una politica disattenta e colpevole. Oggi però lascio a voi l’individuazione dei responsabili. Oggi i miei pensieri devono andare a chi in questo caos prova a dare un aiuto concreto.
Avete mai avuto a che fare con i Servizi per l’Impiego? Ci lavorano molte persone. È sempre più un vero Pronto Soccorso per anime perse.
Gli operatori che vi rispondono, che si impegnano a darvi nuovi indirizzi e opportunità sono sia dipendenti pubblici che specialisti privati. Forse alcuni si sono arresi alla montagna di richieste che ricevono ma, vi assicuro, in molti ci mettono l'anima. Contribuiscono come api operaie a portare grani di futuro a chi ormai non ne vede più. Molti sono supereroi del quotidiano con una vera vocazione all’ascolto, talento nel superare la burocrazia, abilità nel fare il possibile con gli strumenti disponibili. 
Hanno una grande  preparazione, ma senza compassione non riuscirebbero a fare nulla. Moltissime sono donne e ritengo che ciò non sia casuale.

Ne conosco parecchi, li ammiro, di alcuni ho la stima per aver fatto assieme  pezzi di strada. Ho l’onore di essere incluso nei loro pensieri, e in qualche mail.
Federica ha mandato quella che segue a me e ai suoi colleghi. Vorrei che la leggeste, e  che la faceste leggere, perché il loro è un lavoro oscuro, poco valorizzato. Spesso si prendono le colpe di un sistema che non dà alternative ai più deboli in realtà sono sentinelle di umanità al servizio dei cittadini:

“Sono sul treno per Novara e questi giorni sono stati un po’ faticosi.
Martedì abbiamo dovuto chiamare i Carabinieri per mandarli a casa di un nostro utente che non andava più al tirocinio da 3 giorni e aveva il cellulare staccato. Sfondando la porta lo hanno trovato senza vita.
Non ti dico la tristezza che stiamo accumulando: sono 6 mesi che gestiamo e situazioni al limite dell’umano...tendenti al disumano per certi aspetti... Sono tutti soli, solissimi. Tutti senza lavoro, a volte senza casa con figli a carico e spesso malati.
È tredici anni che faccio questo lavoro. Ricordi, all’inizio li assistevo al telefono e già pensavo di esser più un'assistente sociale che un’addetta alle informazioni sul lavoro. Ora, qui, nell’incontrarli di persona puoi immaginare...
Spesso siamo per loro l’unico appiglio, le uniche che li ascoltano veramente.
Ascoltando i loro problemi le loro storie pazzesche pensi a quanta fortuna hai... Ogni giorno in me cresce la consapevolezza di essere veramente fortunata.

Questo signore aveva 65 anni, nessun parente, credo nessun amico perché è triste pensare che siamo stati addirittura noi a dare l’allarme dopo tre giorni. A nessun altro è venuto in mente di andare a casa sua per vedere che fine avesse fatto... La scorsa settimana si lamentava ancora con me perché la Provincia (in realtà era la banca) gli tratteneva quasi 3 euro al mese su un bonifico di 530 al mese sulla sua tessera ricaricabile... una follia... mi ha spiegato che lui con 3 euro ci mangiava 2 volte. Gli ho chiesto cosa mangiasse e mi ha detto ‘una scatoletta di tonno e un pomodoro.’
Ti rendi conto???? Mi vengono i brividi ancora oggi a pensarci... la povertà e la solitudine messe assieme sono due cose tremende.

Il lavoro in questo momento è estremamente complicato, ci disarma la sofferenza che si portano dentro in così tanti. È emotivamente pesante.
Allo stesso tempo sto imparando molte cose. Mi sento davvero utile, sento che stiamo aiutando queste persone mettendoci tanta umanità, calandoci nelle situazioni di ciascuno. A volte penso che forse questa sia la mia vera vocazione... chissà...  ci sono però volte che mi porto a casa troppi pensieri legati a loro, forse dovrei essere più distaccata... ma è impossibile...

Che dire… se questo può far riflettere ancor più ciascuno di noi ben venga. A me ha fatto riflettere moltissimo. Banalmente, tutte le volte che sto per lamentarmi di qualcosa che non va nel verso che vorrei penso ai nostri utenti. A volte vorrei  portare con me i bambini per fargli ascoltare qualcuna delle storie che ascoltato io. Ma forse sono ancora troppo piccoli per capire, e da loro troppo non posso pretendere....ma a qualche adulto farebbe bene toccare con mano la realtà...
In questi 13 anni pensavo di avere affrontato molte situazioni disagiate e disperate ma, credimi, niente a che vedere con alcune di queste, con quello che sta succedendo ora ...
Pensa che questo signore aveva scritto delle poesie e un libro che parlava di bambini. Aveva provato anche a pubblicarlo ma gli avevano risposto che avrebbe dovuto comprarsi le prime 100 copie e lui, come puoi immaginare, non avrebbe mai potuto farlo. Mi dicono che queste poesie e il racconto siano ora nelle mani della segretaria della scuola presso cui lui prestava tirocinio. La signora era, insieme a noi, una delle poche persone che avevano un contatto con lui.... e lui giovedì, ultimo suo giorno in ufficio, gliele aveva portate.

Oggi dovrò gestire la chiusura del tirocinio di questo pover uomo... un persona veramente carina… Dovrò sentire il maresciallo dei carabinieri perché siamo state le ultime persone ad avere contatti con lui ecc ecc... sarà una mattinata molto pesante...!

Questo è stato il mio sfogo...

Buona giornata Fede”



(Post dedicato a tutta Conform e ai tanti amici nei Centri per l'Impiego in tutta Italia. Grazie.) 

martedì 10 settembre 2013

Si può e si deve fare a meno di Silvio. Concediamoci a una Speranza Laica.

Daremo aria a queste stanza molto prima che sia Natale” afferma Ivano Fossati in ‘Ventilazione’ nel 1984. Ecco, credo che nel 2013 sia ora di dare aria nuova alle stanze dove vivono 60 milioni di italiani e dove l’aria è viziata, viziosa, mafiosa, omertosa,  arresa al fetore emanato da 20 anni di berlusconismo edificati sulle regole della P2.

Un fetore di cui diventi consapevole subito uscendo dal paese. Lì, dove l’aria è diversa. I sogni sono realizzabili. Vige la meritocrazia e l’attenzione ai più deboli. Dove valgono le regole e si pagano le tasse, funziona la sanità e la scuola (con libri, scuolabus, etc) sono sempre gratuite. Dove se un politico per errore paga con soldi pubblici la torta di compleanno della figlia deve dimettersi sotto la spinta del proprio partito.

Nel 2013 il Paese può e deve ricominciare a vivere senza Berlusconi e i suoi cloni e accattoni, i ricatti e i riccastri, i tronisti e gli intronati, le scorte e le escort, le mazzette e i mazzieri, i tricologi e gli stallieri.

Il fatto che uno dei pochi processi che non è riuscito a pilotare, cambiando le leggi o intimidendo la magistratura, sia arrivato a conclusione e lo metta elegantemente ai margini della politica, è una vittoria dello Stato e assieme una sconfitta della Politica. È andata così, non piace neanche a me. Tutti avremmo preferito venisse cestinato dagli italiani, ma troppi italiani hanno un prezzo e alcuni giudici no.

I molti avremmo preferito fosse cestinato dalla sinistra. “No way” dicono a Londra. Non ci sono i presupposti perché troppi a sinistra lo hanno invidiato, mitizzato, studiato (magari per generare un B. ‘buono’ geneticamente modificato).
Mi pare ancora di sentirlo Nanni Moretti che a piazza Navona urla rivolto alle statue di sale di D’Alema e C. “Con questi dirigenti non vinceremo mai.” Non ci siamo spostati di molto ma qualcosa succede anche lì. Spifferi di aria nuova anche in quelle stanze. Se ascolti o leggi (qualcuno lo fa ancora?) Barca, Cuperlo, Civati, Puppato capisci come non tutto il valore della giustizia, della solidarietà, della sussidiarietà, del sogno europeo, sia andato disperso nel silicone che ha modellato le menti in questi anni. 
Se il PD potesse essere certo di sopravvivere senza Berlusconi non avrebbe dubbi al voto sulla decadenza dell'impresentabile evasore fiscale. Qui comunque non è in gioco la sopravvivenza del PD, (diciamo pure ecchissenefrega, i partiti sono mezzi non fini), ma di tutto il Paese. Di noi.
Quel che è certo è che torneremo democristiani per un po’, perché è quello che sono Letta, Renzi, Monti, Lupi, e compagnia bella che resteranno a governare.
Perché i germogli hanno bisogno di tempo per crescere. Perché non credo nelle rivoluzioni, né nella democrazia elettronica. È così. Forse è pure il meno peggio. Me ne farò una ragione. Ma la Speranza non ha il copyright di Bergoglio e mi permetto di averne molta anche io.

Voglio coltivarla per me, i miei figli, le persone con cui lavoro, a cui voglio bene, e per quelli che non conosco ma che guardano a un futuro assieme in un mondo sostenibile anche politicamente. Insomma, una bella Speranza Laica di cui andare orgogliosi, con cui illuminare la strada per schivare le buche e trovare nuovi compagni di viaggio.

Non sono un romantico. So che per quarant'anni almeno sentirò dire "Quando c'era B. le cose andavano meglio. Si scopava pure le crepe nei muri ma aveva tolto l'Imu" (che sta a Mussolini come "ha fatto qualche errore ma non fondo ha migliorato il paese"). Li lascerò parlare perché sono per la libertà di espressione e perché il positivo senza il negativo non si percepisce neppure. Spero invece che la libertà dalla Casa delle Libertà faccia nascere una destra degna del XXI secolo.
Non sono un figlio dei fiori. La mia Speranza che l'Italia cambi si fonda sui talenti e sulle idee, che in gran parte ci sono, che già si incontrano, che già la politica la fanno. C’è già chi questa società la sta innovando, nonostante l’ignavia di chi ci governa oggi. C’è chi fa impresa schifando gli incentivi pubblici, chimere per i ‘soliti noti’. Chi nelle scuole si batte per portare libertà di pensiero e capacità di integrazione. Sono in molti a sperimentare nuovi modelli di vita, di acquisto, di educazione, di incontro, di arte, di partecipazione.
Loro stessi hanno timore della portata delle loro azioni, spesso pensano che afferiscano al loro ‘privato’ e non realizzano che spegnere una luce inutile è già fare politica.

Spegniamo dunque le luci inutili, accendiamo la voglia di fare e diamo aria a queste stanze molto prima che sia Natale.     

venerdì 6 settembre 2013

Ecco un'altra lista di prodotti sul mercato che dovrebbero temere l’ira dei consumatori.

Siamo consumatori, è vero, ma anche esseri pensanti. Ritengo doveroso ribadire ai produttori che non ce le beviamo tutte, che non tutti ossequiamo la pubblicità, che coi soldi non si riesce a asfaltare tutta la pubblica opinione.
Per qualche motivo che ancora non comprendo appieno, il mio post con la Lista dei Prodotti che Spazzerei dai Supermercati dopo oltre un anno continua a avere decine di visite al giorno. Ciò un po' mi turba ma mi incoraggia anche a allargare la riflessione a altre categorie di prodotti e servizi facenti parte del nostro quotidiano.
Lo faccio attendendo commenti, critiche  e condivisioni.
  1. I carburanti: essi devono solo carburare rispettando le leggi. Punto. Nella scelta del distributore l’unica variabile logica di confronto può essere il prezzo. Al rogo le raccolte a punti, le tessere fedeltà. Io il diesel non lo voglio Blu, Up, Blitz, o Race. Lo voglio per andare di qui a là. Poi vorrei che ai distributori che truccano le colonnine o aggiungono acqua al prodotto (sono circa il 10%)  venga ritirata la licenza,  mi parrebbe il minimo.
  2. Le carte igieniche: sceglierle è un incubo. Non potendole provare lì sul posto, né tastare, Le guardi come Amleto fece col teschio. Ti chiedi soprattutto quanto ti dureranno cioè il loro fattore C ( numero cagate * rotolo). L’unico indicatore che vorresti sul pacco è la lunghezza del rotolo che invece non c’è. Non mancano mai invece aggettivi più appropriati per un cuscino che per un pezzo di carta da culo. Il vertice della cacofonia lo raggiunge la ‘Morbistenza’ di Tempo (che per questa ragione specifica e sintattica invito a boicottare duramente, checché ne dicano le vostre chiappe).
  3. Le insalate in busta: un prodotto luciferino. Si tratta della stessa insalata che costa 1 euro al chilo al mercato venduta a prezzi di filetto di sogliola. Mi pare un’offesa prima di tutto al buonsenso. Anche il palato non è che ne gioisca molto: sanno sempre un po’ di gas inerte, pare che abbiano sudato a lungo per uscire dal sacco, e trasmettono ai contorni una certa tristezza inconsolabile.
  4. I Giochi: lo sapete vero che in Italia ci siamo giocati più di 80 Miliardi di Euro nel 2012? Diciamo più di mille euro a testa inclusi i neonati e i clandestini. Il gioco è un prodotto di Stato molto sofisticato, che si presta alla perfezione per arricchire le mafie, evadere le tasse, rovinare le famiglie, ammalare le persone, spegnere la vita nei giovani, prosciugare le rimesse degli emigranti. Il costo per la collettività è enorme e include la cura delle ludopatie e le altre dannate patologie inevitabili. Invece che curare chi gioca occorrono campagne imponenti affinché i ragazzi capiscano che con quella roba si perde sempre.  
  5. La telefonia e le sue tariffe: un bel settore senza nessuna concorrenza reale. Andate in Germania o Austria e fatevi un abbonamento illimitato verso tutti, estero UE incluso, a 10 Euro al mese, magari con 3 o Vodafone che operano anche qui, e capirete come ci trattano da popolo bue anche in questo settore. Le tariffe sono alte, i profitti spaventosi e le società riescono pure a essere in difficoltà di mercato. I manager: o banditi o incompetenti.
  6. Il Calcio come prodotto: di cosa parliamo? Di un prodotto fasullo e pericoloso, che proietta sui ragazzini la propria mediocrità e quella dei propri interpreti dicendogli che quella è la cifra dei vincenti,  che cambia simboli e divise ogni anno per vendere più magliette, popolato da personaggi di uno spessore morale tale che sarebbero reali solo se fossero fumetti, che spende più tempo e soldi a rifarsi l’immagine che calciare la palla. Su, siamo seri, lasciamo perdere, parliamo d'altro.
  7. Le mostre acchiappagonzi: hanno quei titoli tipo "Van Gogh e la neve" o "Raffaello e l'ipotesi del viaggio", "Da Leonardo ai sofficini", "La Pop Art e la cucina leccese", "Il silenzio nello sguardo di Giotto". Di solito hanno un unico quadro disponibile del un grande autore ed è messo sui poster in quadricromia che tappezzano la città e sulla copertina catalogo. La mostra è una rassegna di croste, di copie di autori minori, testimonianze, gossip, pezzi di pittori parenti (di Leonardo ma anche dell'Assessore comunale che patrocina la mostra mostruosa). L'ingresso costa da 8 a 10 euro, nessuna riduzione studenti, sempre parenti esclusi. Lasciano il mal di pancia.
  8. La pasta integrale: ne ho parlato con un grande produttore. Ora vi spiego: la farina integrale costa poco di più di quella normale. Ma in fase di lavorazione quella integrale incorpora più l'acqua e rende di più e ha mano scarto. Alla fine la pasta, al produttore, costa uguale se non di meno. A noi molto di più perché fa figo e fa cagare con regolarità. 
  9. Il Satellite: prossimo a affermazioni luddiste, e in linea col mio conterraneo genovese, mi viene da dire forte che il satellite è una cagata pazzesca anche quando trasmette la Corazzata Potemkin. Un normale digitale terrestre ti dà quello che serve ogni occhi e alla testa e anche molto di più. I canali digitali in chiaro della Rai valgono fin il canone per chi proprio ama il palinsesto. Non hai lo sport e i canali Disney? Meglio per te e i tuoi figli che svilupperanno meno dipendenze. Hai meno filmissimi? Esci di più, vedi gente, e vattene al cinema e al teatro.


sabato 24 agosto 2013

L’uomo in sala parto: Complementi di educazione per genitori (caso 10)

È arrivato il momento di parlarne. Si tratta di un argomento attuale ma non di certo alla moda. Verrebbe quasi da dire “L’uomo in sala parto? Siamo nel ventunesimo secolo e stiamo ancora a parlare di una cosa così ovvia?”
Poi ti capita di origliare i discorsi delle amiche e delle neomamme e capisci che il tema è lontano dall’essere dibattuto, ma forse solo affrontato, meno che mai capito nella sua importanza. Sento di donne che in sala parto ci hanno portato la madre, la sorella, la miglior amica, perché il ‘lui’ non era gradito, era indisposto, indisponibile, indisponente. Poi conosco uomini che affermano con certezza che l’uomo deve stare fuori a passeggiare nervoso e limitarsi a sollevare il neonato davanti alle folle come fa Simba nel “Re Leone” e null’altro. Ci sono poi quelli della Via di Mezzo: “il travaglio lo seguo ma in sala parto non ci entro”.
Io la penso così. Quando ciò è possibile sul piano medico:
  • L’uomo DEVE esserci dall’inizio alla fine: il parto è di solito l’esperienza più forte, magica, emozionante che possa capitare a una coppia. Lo so, può essere anche la più tragica, dolorosa (e non intendo sul piano fisico), shoccante. In entrambe i casi va vissuta in due perché il figlio sia di tutti e due, perché la gioia o il dolore siano patrimonio di entrambi e tutto venga così con-diviso, raddoppiando i sorrisi o dividendo le pene.
  • L’uomo in sala parto non serve a nulla e dunque serve tanto: l’uomo lì non serve, questo è certo. Lei vi dirà “La tua presenza è stata importante” e non saprete mai quanto sia stato vero, specie se siete svenuti al taglio del cordone ombelicale. Ogni tanto, se lei si accorgerà se ci siete, vi chiederà cose in apparenza insulse come un bicchier d’acqua, un massaggio alla schiena, eseguite e vi sarete guadagnati il gettone di presenza.
  • Non fatevi venire delle idee: anche se abbiamo letto qualche libro, noi uomini di parto non possiamo fiatare. Non suggerite mai nulla, non proponete e, soprattutto, non raccontate dei suggerimenti della mamma, sorella, cugina, blogger o esperti di settore. La cosa migliore è tacere. Zitti e basta. Le donne sono concentrate su cose già abbastanza complicate da stare a sentire la vostra opinione su quale posizione assumere o sul tasso di epidurali nell’Africa sub-sahariana.
  • Imparate da Lei: assistere a un parto non può che far aumentare il rispetto e la conoscenza per quella donna. Ne sarete orgogliosi, ne coglierete la forza, l’istinto, la potenza direi. La guarderete con occhi diversi. Aver visto come sia stata capace di fare un figlio ve la farà sentire più vicina e se mai avete avuto dubbi sulla sua forza, ecco che lì verranno spazzati via da un paio di urla come si deve.
  • Godetevi lo spettacolo: eccolo, ammettiamolo uomini, assistere a un parto è anche bellissimo. Quindi, osservate più che potete. È meccanico e magico assieme. Guardate le mani dell’ostetrica. Fatevi spiegare la forma della placenta. Chiedete di esser voi a fare il primo bagno, di esserci mentre gli fanno la puntura sul tallone, mentre il pediatra fa la prima visita. Potrete vederlo da vicino, per la prima volta.
  • Non fatevi prendere la mano: tale è la forza e la bellezza dell’evento che in alcuni scatta la sindrome da Evento Premium e la voglia di filmare o fotografare tutto anche in sala parto. Non fatelo. Vi prego. Anche se lei acconsente. Non mi vengono in mente momenti più intimi di questo: tenetelo per voi.
  • Fate muro: l’unica cosa davvero utile che l’uomo può fare è ‘fare muro’. L’aspetto peggiore del parto può essere la processione di parenti, consuocere, amici e tifosi in ossequio al bambinello che riempiono la stanza di fiori e ancora peggiori chiacchiere e contumelie. Fate muro, filtrate, rimbalzate, lasciate dormire la mamma, fatela stare da sola il più possibile col bambino. È l’unica cosa importante. Soprattutto se il figlio è il primo.       


Per chi volesse approfondire alcuni casi precedenti:                    

lunedì 12 agosto 2013

Italia 2013. Estate in un Paese anormale.

Come forse parecchi di voi, sfrutto le vacanze anche per ragionare su cosa stia succedendo in Italia. Cerco di fare chiarezza delle condizioni di fondo della nostra società. Sapete, odio vivere ‘a mia insaputa’.
Dall’estero sono subissato da domande di stranieri che vedono il nostro Paese molto più nudo di quello che ci immaginiamo. L’incredulità che li faceva sorridere dal 1994, la grassa ironia sul presidente scopaiolo, sono ormai superate da un misto tra la pietà e la preoccupazione.
Ritengono indegno che in un momento di crisi così profonda gli abitanti di un paese civile (che loro amano spesso più di noi) siano ancora ostaggi del ventesimo secolo e scoprono come i tumori nella nostra democrazia siano profondi.
Io non so”, potrei parafrasare Pasolini. Io non conosco i mandanti delle stragi né chi sta dietro alle riforme volutamente mai riformiste. Nel mio piccolo, colgo però molte evidenze che messe una vicina all’altra disegnano un quadro possibile forse non lontano dalla realtà.

In un paese normale (non virtuoso né di particolare moralità) gente come Verdini, Formigoni, Polverini non siederebbe in Parlamento ma su una panchina al parco, se non su uno sgabello di qualche carcere sovrappopolato. Personaggi come Calderoli e Bossi sarebbero cacciati dai locali pubblici.  Tristi figuri come D’Alema, Santanché o Rutelli verrebbero avviati a lavori socialmente utili. Teorici della fuffa come Di Pietro, Cacciari o Grillo sarebbero eclissati sul nascere dall’ombra di chi le idee le ha davvero. Ma così invece non è.

In un paese normale, specie se con l’acqua alla gola come il nostro, le cose da fare sembrerebbero ovvia conseguenza di quelle che andrebbero anche dette con maggiore frequenza (e non solo nello spazio opportunista di un comunicato stampa).

  • Dire che le riforme del mercato del lavoro sono puri esercizi di stile se non si ha il coraggio di definire politiche di sviluppo parrebbe logico ma purtroppo abbiamo più giuslavoristi disoccupati e aspiranti stregoni che fiducia per chi ha idee su cosa fare di questo Bel Paese. A forza di fantasticare su chimere come il reddito minimo dimentichiamo di costruire il nesso tra reddito e lavoro. 
  • Dire come occorra investire sul Made in Italy, sulla cultura, sul turismo, sull’enogastronomia, sulla meccanica di precisione, sulle energie alternative sembrerebbe pleonastico ma rimane nel libro dei sogni. Dire come occorra dare un taglio all’acciaio, alle lavorazioni inquinanti, alle opere inutili, alla costruzione di autostrade maremmane, all’edilizia indiscriminata, sarebbe già un passo, poi occorrerebbe agire di conseguenza.
  • Dire che occorre introdurre meritocrazia, trasparenza e qualità nella Pubblica Amministrazione  ha l’ovvietà della sciocchezza, eppure non si sente da nessuna campana. Dire che ai pochi bravi e motivati vadano riconosciuti i meriti e resi i pilastri di un rinnovamento che non deve neanche per forza passare per il taglio di teste, è solo parte del buonsenso che nessuno frequenta.
  • Dire che occorre che tutti paghino le tasse (anche per pagarne meno tutti), e fare in modo che ciò sia possibile, usando il buon senso e qualche banale sistema di intelligence è nell’abc del bilancio della massaia ma purtroppo le massaie non diventano mai ministri.
  • Dire come occorra abolire ogni incentivo alle imprese per passare invece a rendergli la vita più facile diminuendo la pressione fiscale, i bizantinismi normativi, e snellendo burocrazia e procedure, è talmente banale che lo dice pure Confindustria, forse però solo per schiarirsi la voce.
  • Dire che l’avere svariati corpi di polizia, con innumerevoli livelli di comando, deleghe sovrapposte, uffici, distretti e sistemi ottocenteschi impedisce agli stessi di funzionare e di rendere conto alla collettività. Una follia questa dispendiosa e pure pericolosa.  Semplificare parrebbe solo un’applicazione del buon senso ma, si sa, i diritti sono di chi li ha è può difenderli anche con le armi.
  • Dire che la scuola e l’università debbano assumere un ruolo e un’importanza degna alle sole istituzioni capaci di plasmare il nostro futuro collettivo è il minimo per un paese che si definisca ‘civile’ e se immagina il domani guardi ai nipoti e non ai Gratta e Vinci.
  • Dire che la nostra incapacità di programmazione e spesa dei Fondi Europei è seconda solo all’assenza di un progetto per il futuro e all’incapacità di decidere  spingerebbe a rivedere logiche e organigrammi. Significherebbe ascoltare per decidere, magari scontentando qualcuno. Ma ciò è impensabile senza coraggio.
  • Dire che i diritti di tutti vanno tutelati fa sempre figo ma poi occorrerebbe smetterla con i distinguo quando tra questi  ‘tutti’ si vogliono mettere anche i carcerati, i profughi, gli omosessuali, i rom, giusto per citare alcuni.
  • Dire che l’assenza di coraggio, di capacità, di idee, sia da addebitarsi a fattori esterni come ‘la crisi’ è riduttivo e fuorviante. Sappiamo fare poco ma dedichiamo molto del tempo disponibile a costruirci alibi che ci assolvano dalle responsabilità politiche e da quelle storiche.  

Quello che ho scritto fin qui non è parte di alcuna fine analisi di cui non sarei all’altezza. È semplicemente ovvio.
Ma allora, perché non si agisce di conseguenza?
Qui vale la pena ragionare con più calma. Vedo tre questioni prepolitiche che ci pongono tra i paesi a ritardo di sviluppo democratico  
  • Il punto di equilibrio su cui fanno perno tutte le attività di quella che definiamo “politica” è il ricatto. Da quello morale a quello economico, da quello professionale a quello sessuale. Nel Pdl quasi tutti ricattano B., ciascuno per la parte di esperienza avuta con lui, e dunque lui non può prescinderne per galleggiare anche se evidentemente li schifa e preferirebbe farne pasto per le proprie piante carnivore. D’altronde si è scelto lui dei complici che sono diventati ricattatori o degli incapaci da ricattare a sua volta con l’incubo di farli tornare nell’anonimato che gli è proprio. A sinistra il ricatto è forse meno grossolano, più bizantino, passa per le belle parole e schiva idee e posizioni ferme, al massimo dispensa ‘opinioni’, merce in perenne trasformazione e ottima per galleggiare in assenza di proposte.  

  • L’incompetenza è considerata un valore. A destra la competenza non è richiesta tranne che agli avvocati che devono difendere il capo, accusando il Paese di essere causa e mandante dei suoi reati, e costruire i dossier di cui ai ricatti precedenti. A sinistra la competenza è vista con sospetto da chi ha letto qualche libro una ventina di anni fa, quando ancora sembrava utile che un politico ne capisse di qualcosa, e ritiene ancora che quello che ha letto rappresenti la realtà. Il fatto poi che la competenza sia talvolta prerequisito per l’autonomia di pensiero mette in crisi tutti gli schieramenti. Quando l’incompetenza è unita a una certa flessibilità sui valori morali, ecco che il candidato è ideale per essere clonato ai posti di responsabilità. Sono ovunque banditi gli intellettuali, che spingendo il ragionamento nella complessità del reale possono mettere in discussione obiettivi e strategie; si preferiscono i consulenti, robot prezzolati al servizio di disegni di piccolo cabotaggio, e gli opinionisti, megafoni a intensità variabile di chi li arruola. 

  • Sono altri a governare. È il punto di arrivo. Perché non è vero che il paese è ingovernato, anzi. Più passano i mesi più il disegno di chi ci governa diventa evidente. Non sono un complottista, solo un osservatore. In un’Italia debole e immobile che affama fasce sempre più ampie di popolazione tutto è in vendita. Il prezzo è giusto per chi ha i soldi per acquistarla. Per le mafie, tutte, a prescindere dal nome. Con la loro smisurata disponibilità di denaro si prendono bar, musei, ristoranti, isole, palazzi, sanità, università, panifici, grandi marchi, supermercati, aeroporti, anime. Lo fanno in centro e in periferia, sotto casa mia e vostra. Tutto è alla portata se hai disponibilità cash infinita per comprare, magari in nero da qualcuno con l’acqua alla gola, volente o nolente. L’opinione pubblica, depravata anche per necessità e alienazione, è fin contenta di sapere che nelle sale degli Uffizi si potranno organizzare matrimoni o che parte dei suoi magazzini si potranno svuotare per far spazio a un casinò. I reperti vanno così all’asta e i sogni sono messi in vendita col gioco d’azzardo. Magari vi è sfuggito, ma sappiate che nel 2012 il giro legale del gioco in Italia è stato di oltre 80 Miliardi, oltre 1.300 euro a testa, infanti compresi. Direi che il compromesso Pd-Pdl con la benedizione di Monti e Grillo sia dunque l’ideale per non disturbare il timoniere.

Conosco almeno cinquanta persone che potrebbero fare il ministro meglio di chi è oggi investito del farlo. Alcuni si chiamano Stefano, Paola, Giorgio, Angelo, Silvia, Roberta, Michele, Giovanni, Paolo, Massimo, Francesca, Mariella, Andrea, Valter, Ines, Guido, Isabella, Alessandro, Barbara, Diego, Luana. Filippo, Ferruccio, Silvia, Alessia. Hanno cognomi che non conoscete e non conoscerete mai.

Non sono ricattabili, sono competenti, hanno visto il mondo, conoscono l’Italia, sanno gestire e dialogare e dunque non hanno nessuna delle caratteristiche adatte a evitare la ripresa, a lasciare il paese in mano alle mafie. Molti di loro sono nel pieno della loro capacità intellettuali e  professionali, hanno idee, pensano in grande, saprebbero cosa fare. Nel frattempo lo fanno per se stessi e molti, quando li incontro, li vedo sempre più distanti dal Palazzo e più vicini ai confini. A loro insaputa, inclusi nel solo grande progetto governativo che funziona fin dai tempi del vate Licio Gelli, quello di eliminazione morbida dei cervelli non allineati, quello che a Berlusconi diede la tessera P2 numero 1816. 

martedì 30 luglio 2013

Sarà l’estate del ‘Fare’.

Questa è a detta di tutti l’estate del ‘Fare’. Diventa più problematico definire del ‘Fare’ cosa.
A me il ‘Fare’ affascina più di tanti altri verbi fumosi. Provo allora a mettere in fila cosa questo significhi, e a darne una lettura che trasmetta il valore di questi tempi.
Innanzi tutto non riesco a non pensare ai 3.200.000 disoccupati che hanno poco da ‘Fare’. Sono flessibili, si sa, e possono magari Fare melina, Fare tardi la sera (tanto la mattina possono dormire), Fare la coda all’ambasciata americana per ottenere la Carta Verde, Fare quello che possono per tirare avanti, Fare corsi di formazione senza sbocco, Fare finta che tutto vada bene, Fare quello che gli dicono, Fare il contrario di quello che vorrebbero, Fare ombra ai propri desideri.
Intanto Papa Francesco ha deciso di ‘Fare’ una bella gita fuori porta a Lampedusa e ha ribadito la linea del Vangelo su accoglienza e solidarietà. Ci ha messo tanta forza che metà della politica cattolica si è arrampicata sulle pissidi per non ammettere di aver usato quelle pagine della Bibbia per accendere il camino. Poi è andato a ‘Fare’ la scampagnata in Brasile, tenendosi ben stretta la borsa, sollevando più di un “Ohhh!” stupito tra chi pensava che favelas e povertà fossero fuori moda nel 2013. Francesco, vuole anche Fare chiarezza sullo IOR ma chissà se glielo faranno Fare.
A Londra due giovinastri incoronabili hanno deciso di ‘Fare’ un bambino a lungo innominato che ha generato una ola che dalla sala parto è arrivata alle bianche scogliere di Dover. Stampa, tv, media, hanno già provato a Fare santo subito il pupetto reale, probabile sovrano nel 2060 con delega su Kingdom Centauri ai confini della galassia.
Il nostro governo poi ha chiamato un provvedimento Decreto del ‘Fare’. Semiotica e Scienze della Complessità stanno cercando di capirne le ragioni. Poi si è lanciato nel Fare il lifting alle Provincie, prova a Fare molto fumo sulle sigarette elettroniche, decide di Fare fuori il cinema italiano, dimentica di Fare qualcosa (di sinistra, destra, sopra o anche di sotto) per i 3.200.000 di cui sopra oltre che aprirgli il wi-fi gratis.
Agli evasori e alle mafie invece si concede di continuare a Fare quello che vogliono. E' a loro che lasciamo Fare il miglior Made in Italy.
Gli editori quest’anno però non sono riusciti a Fare uscire il libro dell’estate. Sì, provano a Fare cassetta con titoli labirintici come ‘La cattedrale del profeta misterioso’, ‘ I papiri stropicciati del Mar Morto’, ‘Scusa se ti sogno al mare’, ‘Un sogno buio come il latte’, ‘Vi ho visto Fare un nano in marzapane’. Ma gli italiani leggono sempre meno, e non perché devono Fare tutti l’esame della vista. Già... i sospiri goduti che l’anno scorso ci hanno fatto Fare le ‘50 Sfumature’ stavolta non tracimano più da sotto gli ombrelloni dove si nota invece una ripresa del Fare le parole crociate: 2 Euro di certezze e grande catalizzatrici nel Fare gruppo. “3 verticale: Produrre, Costruire, Dar vita a qualcosa”. “Fare!” appunto. Anche se non siamo molto capaci.

La logica della complessità, ci dice che dopo l’estate del ‘Fare’ dovrebbe arrivare l’autunno del ‘Baciare’, di ‘Lettera’ a Babbo Natale per l’inverno poi, e ‘Testamento’ finale col logo della BCE in primavera, dove poi dal letame nasceranno i fior e il ciclo ripartirà dal ‘Dire’ che è sempre un piacere. 

martedì 16 luglio 2013

Ho incontrato una Snowden all'amatriciana.

Aveva delle tette così esplosive che avrebbero da sole meritato un posto al Louvre degno delle 'O' di Giotto ma presto le dimenticai, travolto dall’interesse per il suo lavoro, per me, ai limiti dell’incredibile e della legalità.
La chiamerò Laura. L’ho conosciuta in un pub qualche anno fa. Quella calda sera d’estate la mia attenzione oscillò per un po’ tra le sue tette e quello che diceva, e ero incredulo per entrambe. Per inquadrare simpaticamente il suo lavoro usò dapprima parole vuote ma suggestive tipo “Mi occupo di business intelligence”, “Cose da web semantico”, “Analizzo big data” poi incalzata, e forse lusingata, dalla mia conoscenza del ramo – e da qualche birra di troppo - svelò via via maggiori dettagli.
“Ad esempio”, mi disse. “Lavoriamo molto in periodo elettorale, nelle zone in cui il risultato è incerto, dove magari 1000 o 100 voti fanno la differenza per un seggio.” Si prese una seconda birra bianca, “Noi sappiamo tutto  di ogni elettore.”
“Di chi?” dissi, ingenuo.
“Anche di te”, rise. “Sappiamo che auto hai, se l’hai pagata e come, che ristoranti frequenti, gli hotel. Ogni cosa sulla tua casa, le tue multe, i tuoi debiti. Seguiamo e incrociamo le informazioni dei tuoi conti, del tuo gps, della carta di credito, il bancomat, gli acquisti on line, le donazioni a Emergency, musica scaricata, ebook letti.”
“Ma è legale?” balbettai.
Laura oscillò tutta sullo sgabellino del bancone prima di parlare. “Le singole basi di dati sono acquisite in modo abbastanza legale. Sono in vendita e noi li usiamo. Niente lo vieta, a oggi. La qualità dei risultati dipende solo dalla capacità dell’analista nell’incrociare i numeri. La potenza di calcolo non è più un problema.” Lo sguardo di Laura scintillava: quello era il suo campo.
“Sono un matematico” le dissi per farle capire che potevo apprezzare le sue confidenze per il valore che avevano. Lei sorrise.
“E cosa potete fare con questi dati?”
“Tutto”, era molto sicura di sé. “Prevedere comportamenti di acquisto o di voto, che poi sono la stessa cosa, e simulare gli effetti di azioni di condizionamento. Possiamo sapere se sei interessato a un corso di inglese, un massaggio, un viaggio a Bali con sessioni di yoga.”
“Quindi più uno e poveraccio e più voi siete disinteressati a lui?” provai a sdrammatizzare.
“Non noi. I nostri clienti. Comunque anche i poveracci votano…” e la sua anima sociale, si vedeva, non era legata alla difesa delle garanzie democratiche ma alla forza del mercato. “E poi”, aggiunse Laura illuminando gli occhi color miele, “i poveracci sono quelli che interessano di più alle polizie. Sono quelli che fanno casino e disturbano i mercati. Sono utilissimi anche loro.”

È come del porco: dei dati personali non si butta via niente. 

mercoledì 10 luglio 2013

Un cuore di panna per meeeeeeeeeeeeeeeeee!

Ho uno spirito critico corazzato da una patina di cinismo. Non si accontenta di essere distaccato dai fatti e pignolo nelle valutazioni ma ama mettere un po’ di cattiveria nei giudizi.
Questa serena freddezza mi ha sempre difeso dalle suggestioni facili e dalle infatuazioni di una sera. Per impressionarmi occorre forare strati di scetticismo. Ovviamente, bucata la corazza mi lascio completamente andare e la deriva della ragione diventa totale.
Nonostante molti altri amori mi abbiano accarezzato il cuore, sono stato soggiogato in tenera età dalla seduzione del Cornetto Algida.
Lei era la ragazzina che pubblicizzava il cuore di panna che il Cornetto raccoglie. Capelli castani, occhi neri. La conobbi in un spot e ciò mi bastò. Per trenta secondi fummo io e lei, lei e me, io sul divano e lei nel monoscopio, e furono i tormenti, le gioie e la passione.
Era sdraiata sulla spiaggia. Morbida, con indosso un costume scuro. Improvvisamente qualcosa attirava la sua attenzione. La ricordo voltarsi, con la canzone di sottofondo che sussurrava: «Se quello che cerchi, è un cuore da amare» (Sì, sì, lo cerco. Oh, come lo cerco!). I suoi occhioni scuri e le lentiggini. «Un piccolo cuore per farti sognare» (Che piccolo cuore e che belle piccole tette, e all’uso neanche troppo piccole!). Veniva poi lo sguardo stupito e innamorato di lei verso di lui (uno sfigato qualsiasi che avrei potuto essere io). La musica in crescendo «un sogno d’estate. Un cuore di panna troveraiiiiiii».

E i due correvano uno verso l’altro e poi si abbracciavano (e io sorridevo ogni volta come uno scemo). Finiva sempre che mangiavano il Cornetto e io in quel trionfo di gelato non riuscivo più a distinguere quali fossero i preliminari, quale il climax, quale il messaggio. Allora, appena potevo, lo compravo e lo mordevo: era strabuono, più imitato della Settimana Enigmistica e del ciuffo di Elvis Presley.
Ancora oggi, quando la corona di cioccolato e nocciole o quel culo appuntito ripieno di fondente mi scrocchiano tra i denti, mi chiedo come possa ogni volta ripetersi quell’emozione. Allora chiudo gli occhi, penso alla moretta con le lentiggini, e mi sazio della certezza che l’esistenza del Cornetto sia la sua prova di fedeltà eterna.