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martedì 14 maggio 2013

L’intelligenza collettiva può portare anche l'Italia nel XXI secolo.

A fianco dei molti che si lamentano ci sono parecchie proposte. Alcune hanno impatto potenziale sulle città, altre su un quartiere, un settore economico, un gruppo di persone, una famiglia.
Molti applicano schemi totalmente differenti da quelli del qualunquismo o dal semplicismo delle inchieste di molti media. Viene fuori con forza una crescente voglia di assumersi le proprie responsabilità unita però alla demotivazione legata alla solitudine. 
In tanti vorrebbero, ad esempio, fare la raccolta differenziata, usare la bicicletta, scambiare il proprio tempo, privilegiare i negozi di quartiere, partecipare alla vita sociale e culturale, interagire in modo differente, intelligente e costruttivo con i turisti piuttosto che con gli immigrati o i fuorisede. Ma in pochi lo fanno. Dicono di non saperlo fare, che si sentono soli, non si sentono sicuri. Lo farebbero, se ciascuno facesse la propria parte.
Percepisco questo desiderio, la voglia di non sentirsi soli in un’opera di ricostruzione dei valori della socialità da moltissimi ritengono necessaria, e l’intuizione che necessario collaborare. Già, perché esiste una intelligenza collettiva che contiene le risposte al disagio e a molti degli effetti della crisi. Risposte e soluzioni però che sono frammentate nelle esperienze e nei contributi dei singoli.
Ecco, grazie alle storie di molti mi sto convincendo come nella modernità liquida in cui la certezza del tempo indeterminato non è più nelle relazioni, come nei lavori, e neppure nei mobili o nelle idee, un ruolo nuovo richiesto alla politica sia quello di facilitare i processi di collaborazione tra persone (e tra istituzioni, e tra imprese, ...). Intendo dire immaginare luoghi che siano per vocazione destinati a creare socialità. Parlo sia di luoghi fisici, spazi pubblici dove non si sia “destinatari di servizi” o “utenti” ma co-progettisti e protagonisti di scambi di idee, talenti, tempo. Che spazi virtuali, e dunque piattaforme on line dove condividere e/o scambiare tempo, talento, libri, auto, spazi verdi, parcheggi, attrezzature, ricette, consigli medici, camere sfitte, libri, energia pulita. Tutto per mettere a contatto persone che si scoprono affini, magari anche grazie ai facilitatori che includano i più deboli, che spingano al dialogo tra generazioni e tra generi, che sorveglino il rispetto della legalità e dei valori democratici e della libertà di espressione. Un dialogo anche mirato a comprendere i problemi, raccogliere segnalazioni, sviluppare soluzioni, indicare percorsi a chi amministra.
Credo che siamo chiamati a un grosso salto di qualità nelle modalità del vivere collettivo con l’individuazione di nuovi modelli di relazione che funzionino in un tessuto urbano complesso.
Sono cose che nel mondo, quello che va a velocità ben più rapide della nostra si fanno da tempo. Molte soluzioni sono lì, e le vede chi viaggia, chi fa l’Erasmus, che anche solo passa un weekend a Parigi, Londra o Vienna, luoghi che cambiano perché cambiano i comportamenti dei cittadini. Nel mio piccolo, sono ancora turbato dalla scelta di Shangai, definitasi  Sharing City individuando 20 ambiti nei quali la collaborazione tra cittadini ridefinisca l’economia. Un approccio questo che fa sembrare il concetto di Smart City, tanto sbandierato, già obsoleto e utile solo a riempire qualche convegno finanziato con soldi pubblici.
So bene che siamo in Italia, nel 2013, e non mi illudo che il senso civico, il rispetto delle regole, o l’amore per il prossimo muovano le masse verso la tutela del bene comune o – meglio ancora – nella messa in comune. Il senso civico è stato massacrato da decenni di irresponsabilità istituzionalizzata e – tolto l’omicidio – ogni reato contro la collettività è depenalizzato nei fatti dal “tanto lo fanno tutti”. L’Italia non può improvvisamente scoprirsi virtuosa. Ma questo nuovo coinvolgimento si può generare educandoci. Magari non più con le trite campagne di informazione e sensibilizzazione ma con processi di experience design e gamification e vedrete che funziona. 
Lo so, pare surreale far provare alle persone "quanto è emozionante fare qualcosa di utile" ma è ormai una via necessaria. 
Immagino anche ad esempio incentivi alla partecipazione collettiva, come ingressi gratuiti musei o eventi, campagne di fidelizzazione, omaggi da sponsor, questo per chi suggerisce soluzioni, segnala inefficienze, presta il suo tempo, partecipa, si iscrive, ragiona, scambia, per il bene della Società. Verso una Società per Buone Azioni. 

giovedì 9 maggio 2013

Aldo Moro e il 9 Maggio (e il mio 16 marzo 1978).

Mi ricordo bene il giorno del rapimento di Aldo Moro, il 16 Marzo del ‘78. Frequentavo le scuole medie Novaro, a Genova, e quella mattina all'improvviso il mondo irruppe nella nostra classe. Una frattura silenziosa frantumò il mio cielo azzurro di bambino.  Era successo qualcosa di importante ma nessuno ci diceva cosa. I grandi erano nervosi e il preside aveva fatto il giro delle classi sussurrando decisioni ai professori. La professoressa dalla cattedra ci aveva assegnato qualche esercizio insulso e ci guardava con preoccupazione. Poi, piano ma con affanno, arrivarono i genitori, uno dopo l’altro. Apparivano sull'uscio. Inaspettati. Cercavano l'assenso della professoressa, quasi chiedendo scusa, e poi guardavano uno di noi che, senza parlare, e con solo un cenno della testa salutava e si accodava verso l'uscita. Quel giorno non serviva compilare la giustificazione, ci prendevano e ci portavano al sicuro. Non c’erano i cellulari, non si erano messi d’accordo: tutti i genitori avevano la stessa identica urgenza di avere i bambini sotto controllo, a casa.
Fummo subito fuori. Mia mamma mi guidava in avanti con la mano sulla cartella, quasi a dirigermi, per non perdere il contatto. Superammo  velocemente il vicoletto buio che costeggia la scuola. Lei si guardava intorno, tesa. “Cosa è successo?” riuscii alla fine a chiederle. “Hanno rapito il Presidente e ucciso gli uomini della sua scorta”. Il cielo era grigio, stropicciato dal vento, era strano essere lì in una giornata feriale a quell'ora, e a me la cosa successa sembrava una enormità. Pistole, morti, il Presidente sempre serio e in bianco e nero visto in televisione. Le fui subito grato della verità. Ma di cosa aveva paura la mamma? Di cosa avevano paura tutti? Perché avevano paura i grandi? Del colpo di stato, questo però lo capii col tempo. Stava succedendo una cosa talmente enorme che nessuno in Italia sapeva cosa sarebbe successo dopo. Neppure chi lo aveva rapito. Neppure chi lo avrebbe cercato. Né chi non lo avrebbe cercato. Forse solo lui sapeva da subito che poi, il 9 maggio sarebbe arrivato. Lui che era intelligente, forse uno dei pochi politici della nostra storia guidato da una strategia e non dalla tattica meschina del potere quotidiano. 
L’anno dopo, facevo la terza, mentre camminavo verso la stessa scuola, sentii le raffiche dei mitra. Accelerai il passo. Sparavano nel bar a cinquanta metri da me e i due carabinieri Battaglini e Tosa venivano massacrati dalla stessa furia inutile e cieca mentre facevano colazione. Nello stesso periodo, l’ingegner Bonzani, papà simpatico di miei carissimi amici fu gambizzato a cinquecento metri da lì. All’inizio del ’79 fu ucciso Guido Rossa, un militante del Pci convinto fino in fondo della decisa opposizione del partito alle BR e alla loro linea,  che denunciò un attivista che faceva volantinaggio a cinque punte in fabbrica e diede così una lezione di coraggio e eroismo all'Italia intera.