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lunedì 22 dicembre 2014

Smettiamola di dare sempre la colpa all’arbitro: primo desiderio per il 2015

Per i pochi non interessati al calcio, come il sottoscritto, ogni settimana è diventato monotono osservare le contumelie da parte di mezzo web contro gli arbitri che avrebbero favorito la Juventus.
Se poi vivete a Roma come me fa specie vedere come di questo si lamentino con forza i romanisti, mentre tutti gli altri webnauti del resto d’Italia si lamentino di come gli arbitri favoriscano la Roma. Non parliamo di come i genoani vedano favorita la Sampdoria e i doriani il Genoa.
Se avete amici che fanno gli insegnanti, vi racconteranno di come oggi di qualsiasi responsabilità  imputabile a uno studente, incluso aver bruciato il banco o essersi rollato uno spinello nel bagno, diventi colpa degli insegnanti e del sistema scolastico con le famiglie schierate compatte a difendere lo sciamannato figlio proprio invece che dargli pene necessarie per la comprensione misfatto.
Sono inoltre un po’ scocciato dal constatare come in caso di catastrofi causate dall’incuria e avidità dell’uomo come le alluvioni, gli incendi, gli smottamenti, si pensi a attaccare solo le istituzioni (che non hanno fatto controlli e pulito dai frigoriferi abbandonati gli alvei dei fiumi) e mai censurae i propri comportamenti.
Il massimo avviene poi con l’Europa: diventa colpa dell’Europa se non siamo capaci a spendere i soldi europei, se da mezzo mondo ci rimproverano il nostro pressapochismo e inaffidabilità, se le banche non ci fanno prestito, se i giovani se ne vanno.

La colpa delle nostre inettitudini è sempre prima di tutto dell’arbitro, di chi chiede il rispetto delle regole, dello specchio che ci mostra incapaci ai nostri stessi occhi e dunque ci fa arrabbiare e negare l’esistenza del problema o sostenere che non sussiste perché ‘lo fanno tutti’.

Ecco, per il 2015 desidero che in questo Paese, a partire da me, ci si fermi a contare fino a 100 prima di dare la colpa della nostra immaturità a chi le regole deve farle rispettare .

mercoledì 17 dicembre 2014

Cosa vedo nascere in questo Natale

Mi piace il Natale con la sua atmosfera  allegra. Non mi interessa molto la sua dimensione religiosa, sono però toccato dalla celebrazione di una nascita. Come ogni nascita proietta la mia attenzione al futuro. Lo so, c’è tanta morte attorno, la vedo bene, però in queste settimane voglio provare a stupirmi di quanti fenomeni nascenti stiano modificando la mia vita, la società attorno a me, i mercati, le comunità. 
Provo a metterli in fila:
  • Sui muri delle città si diffonde una nuova forma di arte popolare: mi riferisco ai murales, forme di espressione artistica  e narrazione di grande forza, in grado di cambiare l’autopercezione delle periferie, di  attrarre nuovi turismi, di raccontare le storie di zone che hanno perso le radici col passato. Non sono nuovi ma è diverso il modo in cui vengono pensati, guardati, adottati dai quartieri come schegge di bellezza democratica. Se passate per Roma, potete capirmi se andate in giro per quelle gallerie diffuse che sono il Quadraro con le sue viuzze, Ostiense dove ammirare la forza di Blu e Co. e Rebibbia col nuovo elefante di Zerocalcare
  • Tra le persone si sviluppano nuove forme di fiducia: il patto millenario tra Stato e cittadini è in pezzi. Lo scambio che prevedeva la cessione di potere in cambio di sicurezza è collassato nell’impossibilità di garantire sicurezze fisiche, lavorative, alimentari, economiche. La fiducia nelle istituzioni è al minimo. Per reazione si sviluppano nuove dinamiche di fiducia tra persone che, con un approccio quasi tribale, si rappropriano di spazi e poteri prima delegati. Le dinamiche sono molto legate al territorio ma, giovando della potenza della rete, si alimentano tra loro a migliaia di chilometri di distanza confrontando domande e scambiando soluzioni. Nascono dunque anche forme di fiducia e collaborazione tra sconosciuti.
  • Ecco allora la nascita di una economia collaborativa che muta alla radice gli assunti di quella capitalistica tradizionale basata sulla creazione del bisogno. Si tratta di processi, prodotto e servizi in cui il ‘possesso’ è legato ai tempi e alle necessità dell’ ‘uso’. Che si tratti di tempo, soldi, case, auto, trapani, banda larga il valore viene percepito attraverso la relazione, la reputazione, il risparmio di risorse, l’efficientamento dei processi. È un mondo dove si intravede cosa stiamo diventando, dove crescono nuovi consumatori che vogliono mettere voce in capitolo nei prodotti e servizi di cui sono destinatari.
  • Da qui la nascita di nuove competenze e professioni che facciano della dimensione social e collaborativa uno strumento di sviluppo volto a creare mercati più efficienti e consapevoli, che della potenza del codesign e della partecipazione fanno i loro. Si tratta di competenze umanistiche purtroppo ancora aliene al nostro sistema formativo, acquisibili spesso solo ‘sul campo’ nei luoghi e contesti in cui l’innovazione sociale si sviluppa. Perché l’innovazione abbia ricadute reali si sviluppa anche una nuova governance dell’apprendimento dove gli scambi di competenze avvengano in team, tra peer, e la cui certificazione stessa sia fatta da pari.
  • Vedo poi l’emergere con forza di una generazione nomade che segue le occasioni che portano qualità della vita, reddito e soddisfazioni. E' figlia dell'Erasmus, bramosa di futuro, competente, vogliosa di partecipare al banchetto ovunque sia servito. L’accelerazione che ho visto in questi ultimi due anni nella mobilità di singoli, famiglie, start up mi stupisce ancora. Non sono fughe ma  eplorazioni, sono inseguimenti a quella linea d’ombra che separa l’età adulta dall'eterno presente.

Insomma, per qualche giorno mi balocco con l’immagine di un bicchiere che se non è mezzo pieno contiene almeno qualche goccia di spumante di qualità capace di dare al 2015 speranza di frizzantezza.

Buone Feste e Buon 2015 a tutti voi!

mercoledì 12 novembre 2014

Quando l’Economia Collaborativa non genera collaborazione.

L’Economia Collaborativa non è più terreno di collaborazione quando la corsa al posizionamento dei suoi attori istituzionali scatena gomitate nella competizione per l’accesso ai nuovi fondi disponibili.

Non mi stupisco, non mi scandalizzo, disperde energie ma lo trovo fisiologico ma non riesco a esimermi dal commentarlo.

Chi sarebbero poi questi ‘Attori Istituzionali’ deputati a rappresentare la Sharing Economy? Qui viene il bello, pur non esistendo in natura nascono in questi giorni come funghi, uno dopo l’altro.

La filosofia alla base dell’innovazione sociale e dell’economia collaborativa porta soluzioni sostenibili a problemi concreti; soluzioni spesso diverse come sono diversi i territori e le comunità; esperienze dove il ‘fare’ vinca sempre sul ‘teorizzare’ e sul ‘mettere a sistema’.

Personalmente, nel 2011 ho cominciato a realizzare come la crisi stesse cambiando le persone e il loro ordine di valori e priorità e come l’unica via per uno sviluppo sostenibile sul lungo periodo fosse quella di perseguire strategie fondate sull’Innovazione Sociale in cui collaborazione e partecipazione creassero valore per i business come per i territori. Passavo ore nello studio dei casi, di riflessione sulle prime stentate applicazioni dell’idea. 
Poi alcuni amici mi hanno coinvolto nell’esperienza concreta dell'avvio di Impact Hub Roma che mi ha messo in contatto con nuovi modelli organizzativi, finanziari, produttivi sempre più aperti allo scambio e all’innovazione. 
Ho nel frattempo sperimentato la forza di logiche social e partecipative nelle mie attività quotidiane. Ho imparato sulla mia pelle che le ‘buone prassi’ non significano quasi nulla e che è importante invece coccolare e alimentare i ‘segnali deboli’ che arrivano.
L’impatto più forte che tutto ciò è stato sul mio lavoro, quello di sviluppo di progettazione di servizi per l’occupabilità e per lo sviluppo locale, ambiti che ho reindirizzato in una nuova prospettiva.

Ancora fino all’anno scorso ai rari eventi in materia di Economia Collaborativa, come la Smart City Exibition o la Oui Share Fest, cercavo segnali utili a ripensare il mio intervento e tra i pochi presenti con fatica si cercava di separare la lana dalla seta, la CSR dalla creazione di valore condiviso, il marketing dall’innovazione, costruendo anche una terminologia comune.
Da pochi mesi il fenomeno è esploso ed è un proliferare di eventi e convegni con panel professionali dove in migliaia vagano tra la ricerca dell’illuminazione e quella dell’informazione. 
Tutto è diventato Social Innovation e centinaia di persone e organizzazioni ti dicono che “loro la fanno da sempre” e che la loro è più “Innovation” di quella degli altri. Ci si accapiglia per decidere se quello che fanno gli altri è Sharing Economy o solo una furbata. 
C’è già chi è sul mercato per vendere a qualche migliaio di euro qualche “metodo” per fare innovazione sociale, chi promuove percorsi di cambiamento in 5 o 7 fasi che ricordano la fuffologia organizzata de La Profezia di Celestino. Dilagano i Summer Camp con le loro irritualità postideologiche organizzate che già sanno di nuovo conformismo.

I casi concreti, i successi e gli insuccessi reali latitano (o sono sempre gli stessi) e ho la sensazione che la loro iper esposizione mediatica rischi più che mai di soffocarli nella culla.
Ci sono poche idee in giro, poco coraggio e poca possibilità di pensare in grande. Nessuno misura impatti e sostenibilità delle azioni, nessuno protegge le creature neonate dalla furia dei monopolisti. 
I casi di vero successo non hanno forza per comunicarsi e chi ha denaro o contatti si accredita comunicando fumo al sapore di futuro. 
Per anni ho combattuto contro il “Modello danese” dei servizi per impiego ritenendolo impraticabile in Italia e già mi trovo a storcere il naso davanti a quello olandese sulla Sharing Economy (ma anche quello milanese o bolognese che perdono significato altrove).

Nessuno è però impazzito, il fenomeno è noto: è semplicemente nato un mercato.
Detto fuori metafora: ci sarà un botto di soldi su questi temi, soprattutto denari pubblici. 
I nuovi Fondi Strutturali presto a disposizione dei territori contengono una litania di termini come ‘Spazi di coworking’, ‘Innovazione sociale per i territori’, ‘Tecnologie abilitanti’, ‘Co design dei servizi’ messi lì da consulenti e pochi funzionari illuminati per dare sapore ai Programmi Operativi ma col rischio di rimanere etichette senza conseguenze reali.  Non mi stupirei se da domani il prefisso ‘Smart’ venisse associato anche alle slot machine e ai corsi di tango. 

Si tratta centinaia di milioni di Euro per i prossimi anni, su tutto il territorio e dunque il mercato spinge chi fino a ieri ha fatto corsi per estetiste o web designer a virare su qualcosa tipo ‘Social Innovation Empowerment and Strategic Thinking’ di fantozziana memoria. Le società di consulenza turbocapitaliste riscopriranno il valore della famiglia o dell'usignolo palustre. Chi ha fatto cucine le farà ‘Smart’, chi ha gestito balere per anziani le renderà ‘attività resilienti’, le Pro Loco si chiameranno ‘Living Lab’, ignari NEET si baloccheranno col mito delle Start Up fino a finire tra le grinfie degli strozzini e nel frattempo tre quarti della saggistica si contenderà nel titolo la parola ‘comunità’ o ‘collaborazione’ per descrivere un mondo piccolo e troppo autoreferente.

Paradossalmente una destinazione del denaro fortemente etichettata nel senso della Sharing Economy o della Social Innovation diventa facilmente fattore di rallentamento del processo di cambiamento e porta alla creazione di ‘riserve di caccia’ che già si stanno ben delineando.

Sento parlare già di professioni della Sharing Economy come se questa dovesse per forza crearne (perlopiù le distrugge perché diminuire il consumo di risorse farà scendere il lavoro ben retribuito. Tuttavia si crea altro: valore sociale, relazioni, nuovi rapporti tra generazioni). 
Mi pare che le uniche professioni nuove che si vedono in giro sono quelle degli ‘Evangelizzatori dell’Economia Collaborativa’.

Questa spinta all’istituzionalizzazione mal si adatta alla natura poliforme di un approccio al mondo fatto di collaborazione tra pari. 
È pericoloso etichettare o etichettarsi come “Quelli che…” fanno Innovazione Sociale o Economia Collaborativa ma manterrei le vecchie categorie di Artigiani, Produttori, Amministrazioni Pubbliche, Clienti, Contadini, Politici, Educatori, etc… piuttosto c’è da ragionare sul nostro modo di interpretare la relazione col mercato e con le risorse, il nostro senso di responsabilità, la nostra attitudine alla sperimentazione e alla collaborazione.
Per hanno in Europa hanno provato a sviluppare l'Industria Creativa e Cuturale e ora stanno facendo una virata totale e parlano di spillover, di contaminazione verso gli altri settori e non di un settore a parte. La vedo come unica via efficace anche per l'Economia Collaborativa.

C’è dunque molto da fare e ben vengano i soldi ma che vadano a sviluppare processi e dinamiche di rinnovamento soprattutto interni ai settori pubblici e privati esistenti. Che si sviluppino occasioni e luoghi per il dialogo, sintesi e proposta tecnica e politica tra gli operatori, senza creare nuove e fittizie tecnostrutture fatte solo di parole e portafogli.

venerdì 7 novembre 2014

Hackerar m'è dolce in questo male...

Da un po' di tempo sono alla ricerca di nuovi mezzi espressivi. Vorrei disegnare, ma non sono capace (o meglio, non sono ancora capace). Allora ho preso in prestito il talento da chi è più bravo e ci ho ricamato sopra. Questa serie di vignette mono-grafiche di Schulz con Lucy e Charlie Brown sono parte dell'impresa.

1) Sarà falso o sarà vero?

2) L'invidia è gratis

3) Non c'è tempo per noi

4) Riforme e risostanze


lunedì 27 ottobre 2014

Al ristorante con tanti bambini (caso 12)

Sono davvero simpatici i genitori dei bambini che frequentiamo. È bello prendere con loro un caffè dopo aver lasciato i pupi a scuola la mattina. Siamo anche andati al mare qualche volta, tutti assieme, ed è stato divertente. Allora accettate con slancio la proposta di quello che “Io conosco una pizzeria poco lontano, ideale per i bambini, che la fa con la lievitazione naturale, ha la scelta anche per i celiaci, i vegetariani e per gli allergici alla doppia Z. Organizzo per tutti questo venerdì sera?”

L’appuntamento è alle 8. Ti sembra già tardi per dei bambini di quest'età ma taci perchè per una volta vuoi essere compagnone anche tu. A parte voi, nessuno arriva al ristorante prima delle 8.45. 
Sono previsti 15 adulti e 17 bambini. I tavoli sono stati prenotati rigorosamente separati: da una parte gli over 30 dall’altra gli under 10. La cosa ha una logica che presto si manifesta non come "Così i grandi possono parlare tranquillamente" ma nella forma "Così i bambini possono fare quello che vogliono e i grandi passare il tempo a sparlare degli insegnanti che non lasciano fare ai bambini quello che vogliono". 

Quello che poi tipicamente accade dalle mie parti si articola in Fasi.

Fase 1: l’attesa dei ritardatari. Siamo già oltre le 9. I bambini sono nervosi e eccitati: si sono visti poche ore prima a scuola ma è come se si rincontrassero dopo un anno si leva a Kandahar. Manca ancora qualcuno; tu lo lasceresti al blocco del traffico, al rapimento alieno e ordineresti di corsa ma qualcuno lo giustifica con parole poco convincenti, altri spizzicano pane e grissini. Arrivano acqua, coca, vino scadente che neanche alle nozze di Cana, e nessuno sa esattamente da chi sono stati ordinati.
I bambini stanno ancora seduti e si limitano a urlare senza necessità 

Fase 2: ordinazioni e attesa della pizze. È l’unico momento in cui i genitori ammettono di avere procreato e si attivano per definire quello che i bimbi si porteranno alla bocca (che pare l'unica vera preoccupazione dell'adulto contemporaneo). È un fiorire di “Tesoro, lascia perdere la Capricciosa che poi non la mangi tutta”, “Caro, non l'acciuga che ti viene sete, no le olive che potrebbero avere il nocciolo, no le verdure che non ti piacciono”, “Facciamo che prendi una margherita e poi vediamo…”. Il grosso dei genitori sbraca poi ogni disciplina su pizze con wurstel e patatine, o salciccia e ketchup.
All’improvviso si materializzano due vassoi di olive all’ascolana, supplì, fritti di varia natura ordinati da sconosciuti, che hanno l’effetto di togliere ai nostri piccoli commensali ogni appetito e sono propedeutici al prematuro abbandono di almeno tre quarti delle pizze che verranno.

Fase 3: consumo del pasto. È il momento più bello, quello per cui siamo stati progettati e durante il quale l’egoismo può farla da padrone senza sensi di colpa.
Finita la propria capricciosaconrinforzodiprovolaeuovosodo i padri possono alzare lo sguardo verso i figli per pronunciare con tono asettico l’interessato “Non la finisci, vero?” prima di impossessarsi del farinaceo del minore. C’è un po’ di trambusto causato da quarti di pizza planati su abitini firmati o pavimenti piastrellati. Manca sempre una margherita con ananas, mentos e patate fritte che il pizzaiolo si è rifiutato di fare ma che il genitore esige come diritto dell’infanzia.

Fase 4: la coda lunga dell’evento. Le pizze sono finite. L’orologio doppia le 22. L’ammazzacaffè dei genitori sgrassa l’intestino e cola sui dolci confezionati o gli ancora peggiori tiramisù fatti dal pizzaiolo. I bambini sono ormai alla deriva nelle cucine, impazzano tra i tavoli, hanno elevato il livello acustico a quello del reparto carrozzeria della Fiat.
Hanno già indisposto il tavolo dell’addio al nubilato della procace Flaminia che si farà legare le tube, fatto rimandare la passione alla coppietta che è lì per la prima volta, causato lo spegnimento volontario dell’apparecchio acustico a nonno Mario accompagnato al tavolo di fronte per celebrare qualche remota ricorrenza.

Al ristorante con tanti bambini? E' contronatura.


Per chi volesse approfondire alcuni casi precedenti:                     

venerdì 24 ottobre 2014

Impressioni sprofonde dopo una settimana a Bruxelles (2)

Non credevo che il mio primo resoconto dall’Europa suscitasse così tanto interesse nei navigatori. Mi consento allora di approfondire il tema e aggiungere altre interessanti aneddoti e considerazioni sugli Open Days 2014, inesauribile fonte di ispirazione per le politiche future.
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Ho assistito a un coraggioso coming out da parte del funzionario del Comune di Torino che ha ammesso come Innovazione e Pubblica Amministrazione non hanno nessuna speranza ci coniugarsi. È quasi un ossimoro, ha detto liberandosi di un peso. Il massimo che si può chiedere è quello di essere partner occasionali e non ostacolarsi a vicenda. Sorrisi e applausi da molti altri che non hanno ancora avuto il coraggio di dirlo neppure ai propri genitori
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Sullo stesso tema, è stata presentata una grande iniziativa europea che include al suo interno molta formazione per consentire ai funzionari di generare innovazione, all'interno e all'estero delle istituioni. Un caro amico consulente ha affermato sconsolato “Inutile: è come se il re si mettesse a fare corsi di formazione per rivoluzionari.”  
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Sempre per bocca del mitico sindaco di Rotterdam, già citato nel post precedente: “Serve una nuova generazione di leader convinta che i cittadini e le loro idee possano fare la differenza”.
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La funzionaria svedese mi dice scoraggiata che hanno provato a organizzare servizi per le imprese innovative ma le imprese non li utilizzano. Le ho chiesto se hanno pensato di progettarli con le imprese stesse e in per loro. Ci ha messo un po’ a capire la domanda e poi ha ripiegato su una buona birra doppio malto.
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Un’altra interessante discussione si è svolta al divano dove delegati di più nazioni hanno discusso sulle ragioni date da Jennifer Lawrence circa la necessità di farsi delle foto osé e metterle sul cloud, da cui sono state rubate e diffuse. Ma magari questo non vi interessa…
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In Belgio hanno fatto un nuovo governo con tantissimi giovani ministri. Bello vero? Cinque di questi sono figli di ministri di governi precedenti. Interessante aspetto genetico anche questo.

lunedì 20 ottobre 2014

Impressioni sprofonde dopo una settimana a Bruxelles

Ogni anno passo una settimana nella capitale della Unione Europea per seguire gli interessanti Open Days dove tutte le regioni d’Europa presentano a 6000 partecipanti le loro azioni per favorire lo sviluppo e creare lavoro. Vi risparmio i dettagli tecnici ma ci tengo a farvi partecipi di alcuni quadretti di grande interesse che aiutano a capire dove siamo e cosa succede fuori dal nostro acquario.
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Accetto con curiosità l’invito ad un gruppo di discussione in Open Days Off, cioè da quelli ‘contro l'establishment’, quelli ‘per cambiare le cose, l’universo, almeno i calzini’, quelli del 'coinvolgiamo e ascoltiamo i cittadini'. Sono attesi due eletti Movimento 5 Stelle e uno della lista Tsipras. Ad attenderli siamo almeno in 100, di molte nazionalità. Tutti e tre i parlamentari hanno dato buca all’ultimo istante, senza preavviso. Il nuovo che disavanza. Notevole però fu il carrello dei formaggi: ha valso da solo l'intera serata.
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Incontro una funzionaria finlandese dell’ufficio Autorità di gestione del Fondo Sociale Europeo per Helsinki. Ha ‘solo’ 31 anni. È nata a Taiwan, migrata in Finlandia a 18 anni. Parlando con lei di progetti per la lotta alla disoccupazione giovanile penso desolato all’assenza di opportunità per gli immigrati-le donne- i 31enni, in Italia, specie nel pubblico impiego.
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Il sindaco di Rotterdam nel suo intervento ha fissato che: “Non mi interessa la destra e la sinistra: nella mia città nessuno deve ridursi a dormire per strada, il mio ufficio risponde alle mail in 6 giorni, gli alloggi popolari da noi sono assegnati considerando la vicinanza a eventuali familiari non autosufficienti, le riunioni col Capo della Polizia e il Prefetto sono pubbliche perché i cittadini sono le migliori sentinelle sul territorio, l’1% del budget del Comune va a iniziative presentate dai cittadini.” Ognuno presente al seminario lo avrebbe votato. Si auspica un tirocinio curricolare in Olanda per tutti i nostri rappresentanti.
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Lo scozzese ha raccontato con enorme passione la lacerazione tra le ragioni del suo cuore e del suo cervello al momento di dover votare il referendum separatista. Al termine di tutte le cosiderazioni, un delegato di Liverpool ha preso la parola dicendo – seriamente – che se vinceva il ‘Sì’ gran parte dell’Inghilterra del Nord avrebbe chiesto l’annessione alla Scozia (dove la sanità e la scuola sono gratuiti e la qualità dei servizi molto migliore che in UK)
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L’evento serale ospitato al Museo Bozar includeva ostriche, champagne, gamberi fritti in pasta fillo, prosciutto di Praga, e varie altre infinite prelibatezze, tutto per 2000 persone. Poi il concerto di 4 violiniste francesi molto fascinose e una mostra di Rubens con guida. A occhio 3-400.000 euro in bollicine e lustrini. Mi hanno detto che avevano da finire dei fondi che andavano persi. Prosit!
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La sensazione generale è che nei palazzi del potere siano tutti indaffarati a costruire scatole vuote con sopra etichette patinate: energia, lavoro, ambiente, cultura, etc. Non hanno idea su cosa metterci dentro che abbia senso e valore. Sperano che a riempirle di progetti e soluzioni siano gli Stati Membri, che fanno i pesci in barile e delegano alle Regioni che con gentilezza forzata chiedono contenuti e idee a me e a te. Per cui, se qualcosa va male, già sappiamo di chi verrà data la colpa. Abituiamoci a camminare rasente ai muri.                                              

lunedì 22 settembre 2014

Chiude il Teatro dell'Opera e cambiamo canale.

Quello che colpisce di più in questa vicenda dei Teatri dell’Opera è che della loro sorte non frega niente a nessuno o quasi.

Roma, dove vivo, e Genova, la mia città natale, e Palermo, il Maggio Fiorentino, come molte altre in Italia hanno a che fare con buchi in bilancio spaventosi, vuoti tra gli abbonati e nessun serio programma di rilancio. 
A Roma i dipendenti a tempo indeterminato sono oltre 600, a Genova 280, tutti vorrebbero ridurli perchè i deficit si misurano in decine di milioni di euro. La politica “s’indigna, si impegna ma getta la spugna con gran dignità” perché il teatro che affonda non viene percepito come urgenza in cima all’agenda delle cose da affrontare.

La cosiddetta ‘società civile’ perlopiù tace e a spingere verso qualche soluzione non ci sono neppure i tweet o i post che di solito si sprecano per un povero platano a cui si è rotto un ramo o per un delfino spiaggiato.
La morte di questi teatri dal glorioso passato avviene nel sostanziale vuoto, e fin il sindacato mette poca convinzione nella difesa dei posti di lavoro dei professionisti che vi operano. E' infatti molto più facile spiegare ai giornali la difesa degli operai dell’Elettrolux, dei precari della Sanità, fin dei dipendenti al nero degli stabilimenti balneari, che di musicisti, balletto e maestranze di un luogo alieno alla realtà della maggior parte dei cittadini.

Tra i mille fattori che condizionano tale disinteresse collettivo è centrale, a mio avviso, la quasi totale ignoranza in materia di teatro, musica, balletto e opera. Il tutto è percepito da molti (spesso anche da me) come un retaggio del passato, di difficile comprensione, se non di rara noia. Per un non appassionato, vista una volta l’Aida, un Trovatore, una Boheme, magari una Madame Butterfly, l’argomento è evaso e  non si trovano ragioni per andare a rivederle, proprio come non si  torna al cinema per lo stesso film. L'operetta, la musica da camera e altre divagazioni sul tema proprio non sono classificate.

Lo so, la scintilla dell’amore per il teatro scocca andandoci. Non servono molte spiegazioni. La magia è nel teatro stesso e non in qualcuno che ti spieghi ‘come funziona’ o ‘cosa succede’. La musica si ama ascoltandola e facendola. Questo avviene in poche case e purtroppo già alle elementari i bambini non hanno neppure un’ora di educazione musicale (mentre 2 sono le utilissime ore di religione), le uscite scolastiche sono inoltre quasi azzerate e raramente considerano che un ragazzino possa godere – e molto - di un’ overture o di un’opera lirica. In altri Paesi, anche europei si inizia a studiare uno strumento già alle elementari.  
L'educazione è anche il fondamento per la creazione di nuovo pubblico.
Educazione dunque, e poi buon senso applicato al XXI° secolo.

Il buon senso implica che anche un Teatro dell’Opera debba ‘servire’ e ‘rendere conto’ al territorio e al mondo della Cultura e non possa considerarsi una torre di avorio dove le decine di milioni di deficit sono sempre respnsabilità di qualcun altro. 
In pochi hanno chiaro a cosa serva un Teatro dell'Opera e quale è il giusto prezzo da pagare.
So che i costi superereranno sempre i ricavi ma l’unico modo per sostenere che un Teatro abbia una funzione sociale come un Ospedale o una Metropolitana, e dunque se ne possa giustificare un ‘costo’, è renderne evidente il suo impatto sociale e culturale.

È giunto quindi il momento in cui queste strutture devono imparare a misurarsi.
Mi rendo conto come non sia facile ma senza questo sforzo di valutazione nessuno sarà in grado di argomentare perché a fronte della mancanza di asili, assenza di sussidi ai disoccupati, chiusura di reparti ospedalieri, il nostro bel teatro possa tritare milioni di euro di denaro pubblico per mettere in scena poche decine di spettacoli all’anno. 

mercoledì 17 settembre 2014

Mangio o son desto?

Nella città di A. si mangia mediamente male, i ristoranti sono sciatti, i camerieri impreparati e spocchiosi. Servono vini autoctoni di cui vanno molto orgogliosi e non si capisce il perché. Come in almeno altri 10 capoluoghi di provincia, ripetono che la loro pizza è tra le migliori di Italia (e questa come bufala è di certo migliore di quella che usano sulla pizza). Nei dintorni di A. per tutta l’estate fioriscono le sagre paesane il cui livello medio di igiene, olio e qualità è esente da controllo delle ASL perché in caso di ispezione il sindaco e il parroco ne farebbero rimuovere all'istante il direttore sanitario.

La città di A. non è la sola città italiana segnata da una disarmante pochezza in tavola. Anche a C. si mangia davvero male. In nessuna delle due città puoi trovare qualcuno disposto ad ammetterlo: credo sia il coming out più temuto dall'opinione pubblica.
A F. credono, chissà perché, di saper cucinare il pesce; contraddirli in blocco sembra maleducato e ti accorgi che un'opinione papillare potrebbe danneggiare i rapporti di amicizia.
A I., borgo del centro Italia, invece hanno una cripta protoromanica affrescata con 4 evangelisti dalle lunghe barbe e un presepe policromo su legno del '700 che stenderebbero Stendhal ma gli abitanti vanno invece fieramente orgogliosi solo di alcuni dozzinali insaccati troppo salati e di un tipo di lenticchia farinosa senza ragione di esistere a cui alcuni chef prezzolati hanno dichiarato amore mercenario.

L’intera regione L. non ha praticamente un vino che valga la pena di essere stappato ma dirlo è una eresia e l’assessore di turno invece di sviluppare il turismo culturale pompa milioni di soldi pubblici per incentivare l’export di ciofeca a 12 gradi alcoolici verso ignari bevitori cinesi  o kazaki già alticci.

Fuori dall'Italia poi ci sono intere nazioni la cui cucina non troverebbe posto in classifica neppure tra le nostre mense ospedaliere.

Eppure tutti questi, senza eccezione non riescono a esimersi da lodare banali polpette di manzo o pseudopiadine con i fagioli che diventano prelibatezze da non perdere. Per non parlare dell'olio d'oliva di cui sempre più fanfaroni si dichiarano esperti e litigano sul quale sia il migliore d'Italia. E non ne posso più di depliant turistici, siti web, discorsi sul treno, dove sembra che si viaggi, ci si emozioni, si alzino gli occhi dagli smartphone solo per mangiare. Basta coltelli di ceramica scelti per non ossidare la verdura! Obietto a regali di nozze che includono termometri per l'arrosto, wok, spremiaglio, robot multifunzione, pesciera, sempre destinati a arruginire nelle loro scatole originali. Aborro i cake designer, immorali conformisti e irrispettosi della vera destinazione d'uso del cibo.

Ed è raro trovare qualcuno che cucini, e magari sappia descrivere la differenza che provano le dita a fare gli gnocchi con o senza l'uovo nell'impasto. Questo anche se una moltitudine si inebria più volte la settimana delle gesta celebrate degli chef televisivi (il che è confrontabile al fare davvero sesso piuttosto che masturbarsi guardando YouPorn)

Lo penso. Volevo scriverlo. L’ho fatto.

martedì 5 agosto 2014

La Mia Mafia in una Notte di Mezza Estate.

Lo inseguivo da un po’ e ieri sera ho finalmente visto “La Mafia Uccide Solo d’Estate” in un’arena estiva.
Film carino e molto didascalico, ottimo per chi in quegli anni non c’era o era troppo giovane per ricordare le troppe stragi di mafia a Palermo. Credo possa avvicinare i più giovani a temi che diamo molto per scontati ma non lo sono affatto.
La forza del film sono le storie di sconfitta per lo Stato presentate con filmati di repertorio e miscelate con la vita ordinaria di un ragazzino che a Palermo cresce e diventa uomo. Per me sono state un colpo di vento su una catena di ricordi che hanno segnato la mia educazione etica e, anche un po’, sentimentale.

In generale, i fenomeni incomprensibili mi segnano. Ricordo lo sbarco sulla Luna anche se avevo solo 3 anni, poi i colpi di mitra della strage dei carabinieri Tosa e Battaglin sotto casa mia sentiti andando a scuola,  il rapimento Moro, la morte del procuratore Coco, la strage di Bologna, le morti di Falcone e Borsellino, quelle di D’Antona e Biagi. Quando scrivo ‘ricordo’ intendo che ho ancora la percezione esatta di cosa vedevo, facevo, toccavo, odoravo in quel momento. Il film di ieri sera ha riacceso tutto questo per la Sicilia e quegli anni.

La morte di Falcone a Capaci mi lasciò stordito. In quei mesi insegnavo in una scuola superiore per pagarmi un po’ gli studi e cercare di riempire di senso l’inizio dell’età adulta. Ero un supplente non ancora laureato, con nessuna preparazione specifica all’insegnamento. È stata quella prima volta nella vita (ce ne sono state altre, tutte dolorose) in cui ho deciso di chiamare i presenti a un minuto di silenzio. Con loro ho parlato di chi fosse quel magistrato, ancora oggi non so dove trovai le idee e la forza. Ricordo che mi guardavano, indecisi se quella storia fosse meglio o peggio del tempo perso dalla lezione di informatica. Loro avevano 15 anni e da me si aspettavano una mattina di certo differente. Ricordo bene che quasi nessuno dei ragazzi ne aveva parlato il giorno prima con i genitori a cena.

Una sera d’estate di poche settimane dopo chiamai a casa per avvisare che rimanevo al mare a mangiare una pizza per evitare il traffico del weekend. Mio padre mi informò della strage di Via D’Amelio. Ricordo la cabina telefonica a cui mi appoggiai, mi tornò vivida alla mente la faccia seria di Borsellino, annegai di colpo nel caldo di una serata di inizio estate che altrimenti sarebbe stata bellissima, le discussioni con gli amici diventarono una sfida alla pizza che proprio non andava giù.

Quattro anni dopo frequentai V.. Era di Palermo, aveva gli stessi occhi blu e capelli biondi della ragazza di Pif nel film. Abitava in un appartamento signorile del centro città presidiato da un paracadutista della Folgore col fazzoletto rosso e il mitra più grande che avessi mai visto. Attraverso i suoi occhi ho imparato a amare la Sicilia.
E' ripensando a V. e al suo sorriso mentre, camminando per le strade di una città presidiata dalle autoblindo dell’Operazione Vespri Siciliani, mi diceva “Da quando c’è l’esercito in città, i miei mi fanno finalmente uscire da sola” che faccio scendere i titoli di coda sul mio film personale.

Concedetemelo, anche se non ho un nome d'arte bello come quello di Pif.

mercoledì 30 luglio 2014

L’Unità chiude se la sinistra non si apre al mondo reale.

Gramsci lo fondò come giornale rivolto agli operai e la testata è stata sempre fedele all’idea del suo fondatore.
Forse anche per questo motivo sta chiudendo: gli operai sono sempre di meno, leggono sempre meno e sono sempre meno rappresentati a sinistra, da questa sinistra almeno.

Leggo vari giornali, alterno La Repubblica e Il Corriere soprattutto per i loro articoli di fondo e le inchieste, leggo Il Fatto quando mi  va un po’ di controinformazione istituzionale, sullo smartphone leggo l'impeccabile La Stampa, faccio poi la media di quello che trovo su internet, integro col sito della BBC, del NYT, di Figaro talvolta. 
Nell’Unità non ho mai trovato le ragioni della lettura e dunque dell’acquisto, neppure quando ero impegnato in politica, neppure quando la sinistra era all’opposizione, neppure nelle rassegne stampa gratuite. Forse perché, pur nei miei mille lavori, operaio non lo sono mai stato. Forse perchè non mi ha mai trasmesso la sua rilevanza nel panorama editoriale. 
Ha una storia importante e gloriosa, lo so, ma non basta per avere un senso oggi. La associo a una generazione che aveva dei punti di riferimento comuni, che la contrapponeva alla Bibbia, poi a solo qualche vecchio pensionato abitudinario, ai tavoli in formica delle sezioni del Partico Comunista, ai pannelli di compensato fuori dalle nuove sezioni del PD dove viene ancora affissa e distrattamente letta dai passanti.
Pochi ormai comprano/si permettono più di un giornale al giorno e mi sfuggono le ragioni per cui un lavoratore autonomo, un precario, un’insegnante, debba spendere il suo denaro contato proprio sull’Unità. Il giornale diventa così vittima di una politica che non si interessa ai suoi lettori ideali.

Non funziona, semplicemente, non l’hanno uccisa - come oggi grida in prima pagina - ma è morta di vecchiaia, e per quanto mi spiaccia per chi ci lavora non starei a strillare a chissà quale scandalo. 

Forse troveranno il modo di salvarla, spero però non avvenga con una trasfusione di denaro pubblico. L'Unità non è un ospedale, né una scuola, ma è un giornale e se nessuno lo legge (e dunque non raccoglie neanche la pubblicità per stare sulle sue gambe) la colpa forse non è né di fantomatici killer né dei lettori.

lunedì 28 luglio 2014

Cerco, cambio, vendo, compro, offendo il lavoro.

Sono nato in una grande città operaia regolata dai ritmi dell’altoforno e dagli orari di arrivo delle navi da scaricare. “Ci sono i portuali in sciopero” o “L’Ansaldo è scesa in piazza” erano pronunciate un’ottava sotto, col rispetto dovuto alle celebrazioni in cattedrale. A cui assistere deferenti se non si era gli officianti.
Il lavoro e le sue forme di lotta erano celebrati come necessari e preziosi. Lo sciopero era parte del lavoro come gli attrezzi, la tuta, il sindacato, gli infortuni. Era il mondo di tutti noi e tutti guardavamo a un futuro per le nostre famiglie in cui crescesse la qualità del lavoro, i meritevoli fossero premiati e i deboli sostenuti.
Anche negli anni ’90, quando robotica e informatica hanno rivoluzionato le professioni e i mercati, provocando parecchi licenziamenti e prepensionamenti la reazione è stata composta e dignitosa, come davanti a una catastrofe naturale e un nuovo paesaggio sconosciuto da far colonizzare ai propri figli il cui dovere diventava ancor più studiare per interpretare il mondo.

Da qualche anno le cose sono cambiate. C’è stato un momento in cui il lavoro e il suo controvalore economico hanno perso ogni relazione, troppo per alcuni, briciole per altri; in cui gli imprenditori più bravi hanno maggiori difficoltà a creare ricchezza di una pletora di parassiti assistiti.
Forse c’entra il Crollo del Muro e la liberazione di forze che prima erano contenute dalle ideologie contrapposte di chi credeva di Dio o nella Comunità come fini ultimo del sacrificio di oggi per il bene di domani. Di certo non è facile realizzare di essere rimasti senza Dio ma ancora più difficile è essere senza lavoro. “'Io non credo nell'inferno, credo nella disoccupazione” afferma deciso Dustin Hoffman in ‘Tootsie’ quando per lavorare deve fingere di essere donna e riassume la lacerazione tra talento e opportunità che è propria ormai di un paio di generazioni.

È offensivo essere chiamati a fare sacrifici quando i privilegi di pochi sono sotto gli occhi di tutti. Infatti e sempre più evidente è l’assenza di vergogna, forse conseguenza dell’assenza di un Dio o di una Comunità a cui rendere conto dei peccati commessi così come delle buone azioni.
Li percepisci attorno a te i privilegiati, gli strapagati, i raccomandati, i cassintegrati professionisti, i riciclati, costruire muri, abbonarsi al ricorso al Tar e alla Corte di Strasburgo, sbracciarsi per dire che loro “non ci stiamo!”, che “vogliamo solo il rispetto delle regole e dei patti” anche quando sono arbitrari, iniqui, fonti di mercimonio.  Li immagini in difesa, con l’elmetto sulla testa e sul culo e l’avvocato carico nella fondina, nelle loro trincee scavate in Alitalia, alla Camera dei Deputati, al Teatro dell’Opera, in mille società miste municipalizzate speciali parapubbliche.

Assisto attonito alla fine del sindacato, ucciso per sua stessa mano e cecità; osservo disilluso i politici urlare annunci di riforme afoni di significato; mi irritano i cento dirigenti che danno la colpa dei propri errori e inerzia alla crisi o alla congiuntura strale; seguo col pensiero le avventure di chi se ne va all’estero a coltivare i sogni, di chi torna a quarant’anni a vivere coi genitori senza più sogni, di chi, sopraffatto, chiude sconfitto la propria battaglia terrena.
Se obietti a tanta supponenza, ti si rivoltano contro con frasi da fiction di basso costo come “Chi sei tu per parlare?” “Lo fanno tutti” “E’ sempre stato così”.


Io sono solo uno che paga tutte le tasse, si costruisce ogni giorno un curriculum meritato fatto di sbagli e di successi, pagandosi la propria formazione per stare sul mercato, e che non crede nella vita eterna e dunque preferisce che i peccati altrui che rovinano la vita mia, dei miei figli, dei miei amici, di mille sconosciuti respinti, vengano redenti qui, in contanti e subito.

lunedì 21 luglio 2014

Quando la professoressa è lesbica.

È una storia che non ho mai raccontato, che era finita nel magazzino ordinato dei ricordi assieme a tanti aneddoti, che era lì forse per essere inserita nella vita di un personaggio dei miei romanzi futuri. L'episodio dell’insegnante di Trento inquisita in ragione del proprio orientamento sessuale l’ha fatta tornare a galla e, nell’umidità appiccicosa di questa estate romana, ve la propongo come raccontino della sera.

Stella viveva ad Anversa, la sua città natale. Insegnante di Scienze e Matematica in una scuola superiore, aveva da parecchi anni anche l’incarico di coordinare per l'istituto l'orientamento dei ragazzi nelle scelte di studio e professionali. Come me, aveva vinto una visita di studio per comprendere come la Norvegia si impegnasse per combattere l’abbandono scolastico.
Era lesbica e non ne faceva mistero. Amava l’Italia, parlava un discreto italiano e mi aveva raccontato che ci era stata “con la mia fidanzata”.
In quel periodo stavo scrivendo un racconto per la mia raccolta People from Ikea che aveva come protagonista proprio una donna omosessuale. La simpatica Stella che leggeva in italiano mi parve un’occasione imperdibile per chiedere un’opinione sulla trama e le atmosfere create. Lei ne fu lusingata; trattò l'inedito con delicatezza senza però nessuna remora nello stroncare le mie ingenuità e forse anche pregiudizi in materia. Le due serate passate con lei, con una birra sotto le stelle, a parlare, prima del mio libro e poi delle nostre vite mi sono ancora preziose.
“Insegno in una scuola ebraica di Anversa. È frequentata da figli di famiglie fondamentaliste. Meno male che ho a che fare solo con numeri e formule…  Sai, da noi la musica non religiosa è del tutto proibita, niente Beatles, Madonna né U2. I programmi di storia non sono allineati con quelli ufficiali olandesi. Niente Shakespeare o Jane Austin e altra letteratura moderna”.
Davanti alla mia mandibola incredula e penzolante ha aggiunto “I matrimoni sono ancora combinati e le ragazze dell'ultimo anno non parlano d'altro.”
“Ma, possono comportarsi così?” la interrompevo io.
“Sono venuti gli ispettori del ministero e hanno abbastanza realizzato la situazione, senza però approfondire né intervenire."
"Li hanno pagati per farli tacere?" chiedo io con ottusa mentalità italiota.
"No, la comunità ortodossa ha detto chiaramente che se vogliono che il mercato dei diamanti resti a Anversa e non migri, ad esempio, a New York, su cose come questa devono chiudere due occhi e una bocca.”
“Come fai a stare in un posto così?” le chiesi, sottintendendo anche, ma non solo, al suo orientamento sessuale.
Rise, amaro. “Devo pagare il mutuo…” Poi aggiunse: “Comunque lo sanno che sono lesbica, da pochi mesi, credo tramite una ragazza che si è diplomata alcuni anni fa e che mi ha visto in un locale”. Finì la birra, “Non ne hanno mai parlato direttamente ma mi hanno messo all’angolo: i genitori non vengono più al ricevimento parenti, alcuni ragazzi cambiano marciapiede se mi vedono per strada. Anche i colleghi sono diventati gelidi; molti sono indifferenti alla mia omosessualità ma, diciamo pure, parlare con me non è consigliabile.”
“Una situazione difficile…”
Sorrise, “Mi spiace solo per i miei ragazzi. Per come saranno, per come alcuni soffrianno. Per le gioie della vita che sono destinati a perdere. Io ora voglio solo arrivare alla fine dell’anno scolastico per non dargliela vinta: di scuole ad Anversa ce ne sono tante... poi ho insegnare lì mi impediva di prendere una decisione serena in merito alla proposta di matrimonio che mi ha fatto Marja.”

NdA: il racconto è vero e si riferisce alla situazione specifica di una scuola e una comunità locale non a un popolo o a un paese. In Israele iI diritto garantisce ai gay la maggior parte dei diritti matrimoniali riconosciuti alle coppie eterosessuali, inclusa l’adozione. Anche se la piena ufficialità del matrimonio omosessuale non è ancora stata sanzionata, vengono riconosciuti i matrimoni omosessuali contratti all'estero.
Israele ha anche una delle più alte percentuali di popolazione favorevole all'equiparazione completa delle coppie gay a quelle etero, col 61% che sostiene l'introduzione del matrimonio civile per le coppie dello stesso sesso (dati 2011).

giovedì 26 giugno 2014

Riempiamo i cocci del ‘900 di nuova sostanza.

Amo del mio lavoro l’essere pagato anche per studiare, collegare i fili, immaginare soluzioni che superino le categorie classiche della divisione per ruoli, settori e competenza e intreccino comportamenti, economia, tecnologia, mercato, talenti, scommesse sul futuro.
Ho già parlato altre volte di Economia Collaborativa e nuovi modelli di sviluppo ma l’accelerazione intorno a me mi porta a di nuovo sull’argomento. In queste ultime settimane mi sono trovato in diversi contesti molto ricchi di propensione all’innovazione e al cambiamento.

Il 14 giugno ero al Primo Festival delle Comunità del Cambiamento organizzato da RENA a Bologna.  Era previsto come un evento per addetti ai lavori per fare il punto sulla capacità e sulle esperienza delle Comunità nel farsi carico di se stesse in un dialogo alla pari con le Pubbliche Amministrazioni, le Parti Sociali, le Aziende. E' diventata una kermesse dove nuove domande a vecchi problemi, nuove risposte, ipotesi di futuro sono arrivate da tutta Italia. Erano previste 200 persone e associazioni: gli organizzatori hanno chiuso le iscrizioni a 450 per motivi logistici rifiutando oltre 200 richieste di partecipazione.
In platea un impressionante assortimento di Comuni, associazioni, social street, cohousing, agricoltori, sviluppatori, esperti di Open Data, Makers, gestori di spazi per il coworking e il codesign, fautori della partecipazione dal basso, dello scambio di competenze , della valorizzazione dei beni comuni, della responsabilità sociale del singolo e delle imprese.
Si percepiva voglia di fare e di cambiare portata da chi sta già facendo e cambiando e comprende che solo nella messa a sistema delle esperienze si possono definire delle politiche diverse di sviluppo per il Paese, nell’ottica della sostenibilità sociale, economica e ambientale auspicata da Europa 2020 e da ogni altro atto di indirizzo successivo.
“Non occorre Riformare, come tutti sbandierano”, è stato detto, ma “Risostanziare”. Mi trova d’accordissimo. È stato detto “Occorre ridare senso ai contenitori costruiti nel ‘900 e ormai vuoti di idee e significato” e ci si riferiva ai Partiti, ai Sindacati, agli Ordini, a riti vetusti. Lì, “Meno fiaccolate e più crowdfunding per i beni comuni” si sposava a “Oggi fare impresa è un gesto politico.”

Una settimana dopo ero a Reggio Emilia invitato da ItaliaCamp per il loro incontro Valore Pese – Economia delle Soluzioni, anch’esso affollatissimo,  in un panel di advocacy sulla Finanza d’Impatto Sociale volto a portare suggerimenti di qualità al Governo e alle molte istituzioni in grave deficit di attenzione e poca propensione alla risolvere i problemi sociali sempre nuovi che necessitano di nuove domande e nuovi strumenti per essere capiti e affrontati. Potrei descrivere la Finanza d’Impatto Sociale come il sistema degli investitori privati che finanziano politiche/progetti/imprese con obiettivi sociali e vengono poi remunerati in base ai risparmi che il sistema pubblico ha quando gliinterventi hanno successo e diminuiscono (ad es.) i disoccupati, i malati, gli ex carcerati recidivi, gli abbandoni scolastici.
Ero lì (credo) perché ho una certa familiarità su come si possano mettere assieme politiche, progetti e fondi  e perché mi trovo a mio agio nel pensiero laterale. L’ambiente era diverso da Bologna, per linguaggio e look, ma tutt’altro che differenti erano gli obiettivi finali.

Ho capito come il significato dato ormai a 'Impresa Sociale' sia post-ideologico per diventare: “L’impresa che ha un impatto positivo sulla società e porta soluzioni a problemi”, punto, nessun accenno alle divisioni storiche tra profit e noprofit, cooperativa e Spa, e simili.
Si è parlato molto anche di finanziamenti alle start up “sociali” e a come far decollare progetti che generino qualità della vita, e dunque ricchezza. Di come ottenere valore, qualità e occupazione dalla gestione dei parchi, del patrimonio archeologico e culturale, delle aziende municipalizzate, del patrimonio abitativo.

In entrambe le occasioni ho sentito parlare di soluzioni che passano attraverso una Economia della Condivisione (di beni, denari, risposte, occasioni); della necessità di Generatività intesa come la forza di estrarre valore dall’impensabile e saper cogliere i ‘segnali deboli’ che sono quelli che indicano la strada per il futuro; di Coraggio Istituzionale che indica come per innovare e risolvere occorre mettere in conto la necessità degli errori e delle correzioni in corsa

Nei due incontri erano diversi i moventi e gli interessi ma era evidente come da una parte si cercasse la via per portare a sistema soluzioni vantaggiose per le comunità per generare inclusione sociale e dall’altra si cercassero soluzioni su cui investire che fossero vantaggiose per la comunità producendo ricchezza (e risparmio).

Mai come in questo flusso di occasioni, idee, proposte, ho sentito la necessità dei ruoli di “cerniera”,  di facilitazione, perché le due parti possano superare le diffidenze culturali e i pregiudizi, e stimolare le contaminazione tra sogni, progetti e investimenti necessari a realizzarli
Ovviamente ci proverò, nel mio piccolo, con tutti gli altri.

domenica 22 giugno 2014

Ho visto il Peggio (e ancora mi mette i brividi)

Il Peggio è un politico navigato, oscurato per pudore, riesumato, impomatato e riciclato nel consiglio di amministrazione di un ente inutile inventato per lui che si presenta a un convegno per pochi intimi in una provincia ex-ricca del nord Italia. Il suo partito? Irrilevante per scelta programmatica.
Lui stesso non credo abbia coscenza dell'essere al governo o all'opposizione, esiste e dunque esige e questo gli basta. Con mestiere sopraffino stringere più mani di quelle poche presenti in sala e con leggerezza concede il suo interesse e chiede a ciascuno di noi qualcosa di irrilevante e personale al tempo stesso: “Come è andato il viaggio?” a me, “Interessante il titolo, vero?” a te, “Come va?” a uno che ha la faccia di chi è appena uscito da un’influenza o è entrato nella cassa integrazione. Ti guarda il Peggio, è interessato a te, cerca di memorizzare il tuo voto e il tuo volto. Gli stringi la mano anche se non ci tieni, per saggiarne la consistenza tridimensionale, gli rispondi perché ti pare capace di usare armi di distruzioni di massa contro te e la tua famiglia se non lo farai.

È il Peggio a dare un senso al prestigioso consesso orfano di dotti, medici e sapienti. E' suo l'intervento di apertura, e di chiusura e dirifinitura. L'opaco discorso è subito impalmato dai riconoscimenti alla “vocazione splendida di questa regione”, e poi all“incredibile” qualcosa tipico dei cittadini di questa città padana sonnolenta e razzista più per noia che per convinzione. Appena nel lessico del Peggio confluiscono le attese “Sinergie”, “Integrazione”, “Responsabilità – futuro –occupazione per i giovani” dette più volte in tutte le combinazioni possibili ci sentiamo a nostro agio per aver supposto la prevedibilità del Peggio.

Il Peggio sono poi, per induzione, tutti i relatori che seguono, reattivi nel citare e sottolineare i passi del discorso inconcludente e vuoto che il politico ha fatto sull’argomento del convegno, un tema di tendenza, obbligatorio per entrare nella modernità, su cui l’Unione Europea ci invita a riflettere ma che nessuno si degna di studiare, di cui il Peggio non ha la minima cognizione e quel che è peggio è che sa che è inutile averla. Sa però che quel tema gemmerà progettazioni ardite e innovative in risposta a domande sbagliate e necessità inesistenti, finanziamenti opportuni, investimenti opportunistici, di cui al Peggio e ai suoi peggiori amici devono tornarne in mano una cifra importante e degna della responsabilità che lui , per il bene della comunità, si è assunto.

Il Peggio include noi, pubblico sonnolento che partecipa al rito, me compreso, controllando la posta, twittando, sognando un coffee break che non arriverà mai perchè la spending review socializza i tagli e evita le socializzazioni. in 140 caratteri ironizziamo con cinismo sperando che tutto passi, sapendo che nulla davvero terminerà.

Parte del Peggio è anche l’assistente del politico, un’ex avvenente, forse laureata, di certo chirurgicamente modificata, abituata a molto peggio degli sguardi anatomopatologici scoccati dai presenti, più stupiti che affascinati dal vedere in tre dimensioni in lei un'icona di ciò che fino a quel momento avevano solo sbirciato nelle cronache dal Palazzo.

Il Peggio conclamato sono i tre giovani in giacca e cravatta, arrivati con lui e che pendono dalle labbra del politico. Lo guardano come fosse un punto di arrivo, molto più pornografici dell’assistente curvilinea, più intimamente modificati di lei perché quello che si sono venduti lo hanno dentro e non ne sono rivestiti.

Il Peggio è il gigantesco fermo immagine che pare aver colpito tutto in quella sala dove le parole della nostra bella lingua suonano vuote, senza opposizione, semplificate ad arte per dimostrare come il Peggio stesso sia l'unica possibilità: e dunque il meno peggio. 
Tutto pare semplice da capire, faticoso da spiegare, inevitabile, e rende inutile pensare a un'alternativa al Peggio.

venerdì 13 giugno 2014

Quando Genova non è un’idea come un’altra.

Mi fa un certo effetto leggere nelle colonne dei principali quotidiani fini opinioni che mettono in bella copia le sensazioni che mi porto dietro da quando ho lasciato Genova, la mia città, ormai 16 anni fa.

Le intercettazioni volgari e meschine del sacco alla CARIGE a cura di Berneschi e i suoi Elderly Boys, la grettezza di Bertone, la doppiezza consumata di Scajola, quel peccare sottovoce, quel timore di fare, l’alibi del “chi va piano va sano e va lontano”, la paura delle idee, l’inutile contegno del condannato all’oblio, l’attesa delle Grandi Opere per mascherare l’incapacità a progettare il futuro, la distanza esibita dalla ragione protetta con la tradizione, una dirigenza spaesata e spesso aliena alla modernità, parti sociali che guardano al passato, una classe politica arroccata, una cittadinanza spesso inerme. Tutto questo paralizza una città, svariate generazioni, energie uniche e irripetibili.
La contrapposizione tra voglia di spazio e libertà e amore per vicoli e tramonti sul mare me la porterò dietro per tutta la vita. In sere così mi sento lì, a Genova, e anche mille miglia lontano, in una proiezione sghemba di “Ma se ghe pensu” che suona ricordandomi il giorno che tutto questo mi fu chiaro e decisi di partire.

Avevo lavorato un anno alla progettazione di una nuova struttura pubblica che per l’epoca era molto innovativa e di eccellenza, un salto di qualità. Ricordo un tavolo con assessore e dirigenti, soddisfatti e sorridenti che mi proposero di esserne il direttore “col ruolo del direttore, le responsabilità e lo stipendio di un direttore. Sarai però inquadrato come impiegato direttivo, non come dirigente: hai solo 30 anni e se ti facciamo dirigente adesso dove sarai a 50?”
In quel momento il soffitto di cristallo mi si spiaccicò sul naso, mi tornarono su dallo stomaco gli anni dell’università quando, più che ventenne, mi veniva ancora chiesto quale fosse il mio quartiere, che lavoro facesse mio padre e amenità simili, prima di decidere se invitarmi a certe feste dove ci si misurava il pedigree a vicenda per clonare le nuove generazioni di vertice.
Da allora comprendo bene la metafora del ‘soffitto di cristallo’ usata per indicare il blocco invisibile ma concreto che hanno molte donne nell'accesso a posizioni apicali nelle organizzazioni. Già, perché a Genova non entri nel salotto buono se non hai caratteristiche genetiche compatibili con quella dell’oligarchia che governa la città.
Quel giorno, rifiutando l’offerta, smisi di giocare nell’orticello di casa, mandai il mio CV a Milano e Roma e lì, emeriti sconosciuti mi proposero subito un contratto da dirigente.

Ora abito a Roma, città animalesca e quasi aggressiva, luogo non facile ma vivo, in cui succedono cose, si accavallano idee, si celebra l’ineluttabilità della morte con superficialità e con  progettualità spesso sprecate ma talvolta risolutive.
Dentro di me, credo che il verminaio genovese che viene e verrà alla luce possa diventare un’opportunità unica. Vedere come quegli uomini spenti e impeccabili nei loro completi british siano nei fatti nudi e inadatti al futuro può aiutare la città a ripensarsi. 
Certo, catturato un caimano molti altri saranno pronti a prenderne il posto ma può essere il momento del colpo di scena, di politiche e modelli nuovi per lo sviluppo, il turismo, l’internazionalità, la mobilità, l’integrazione degli immigrati, i servizi agli anziani e ai bambini, l’uso dei beni comuni.

C’è forse il rischio di una città che esaurisce le forze, che non crede più in se stessa, in cui i frequenti disastri ambientali rappresentino bene un territorio che può franare in ogni sua parte materiale, morale e relazionale.
Esistono persone, forze, progetti, idee, relazioni dentro e fuori la città che possono  contrastare questa deriva. Molte le conosco, alcune si chiamano Marco, Laura, Giovanni, Isabella, Paola, Stefano, Cristiano, Anna, ...
Se solo ai caimani legassimo i denti per un po’, sarebbe bello avessero loro la possibilità di stare al timone, proporre e vedere realizzati progetti utili e – perché no – visionari, almeno quel tanto che serve a ridare fiducia al sistema. Se solo si mettessero assieme, se cambiassero aria a quelle stanze...

lunedì 26 maggio 2014

Voglia d’Europa non di retrocessione.

Prometto, non commenterò mai un risultato del Mondiale 2014 perché del calcio capisco a malapena le regole e non comprendo le ragioni. Sono però un cittadino, faccio politica con le mie azioni quotidiane e dunque non riesco a esimermi dal porre qualche riflessione sul risultato elettorale delle Europee.

  • Voglia d’Europa. È l’aspetto più chiaro e confortante. Gli italiani vogliono far parte dell’Europa e hanno capito che se c’è futuro questo è lì, con gli altri Stati Membri, nella pace. Fandonie come l’uscita dall’Euro non li tentano. Il PD ha vinto prima di tutto perché aveva la scelta maggiormente europeista, è stato credibile negli atti, nei toni e anche negli slogan. 
  • La legittimazione di Renzi (e Marino). Chi ha a lungo, giustamente, detto che Renzi è stato ‘imposto’ e non votato, da oggi può solo tacere. Allo stesso tempo, questa superlegittimazione diventa un carico di responsabilità storico in merito alle riforme. Non ci sono più alibi. Renzi ha vinto soprattutto contro i suo partito, che lo ha sempre subìto. Vorrei aggiungere che il 42% a Roma deve essere letto anche come un rafforzamento a Marino, inviso a molti PD ma a molta meno popolazione di quanto si pensi.
  • Il partito degli onesti senza idee, M5S. Questo mesi hanno evidenziato come Grillo sia di destra, confuso, senza un programma e – soprattutto – faccia paura. Quest’ultimo elemento l’ho sentito molte volte specie dalle persone anziane che hanno visto il fascismo. Le stesse che reputavano B. una marionetta col parrucchino avevano un timore istintivo di Grillo. La volgarità innata della sua politica ha spaventato i più. Le espulsione, epurazioni, censure dentro e fuori il partito sono state quanto di meno democratico visto in Italia negli ultimi anni. E ha pagato, duramente. Forse la fine è iniziata con la sconfessione dei propri parlamentari sullo ‘ius soli’, i corteggiamenti con Forza Nuova, la non presentazione alle regionali in Sardegna. M5S può rilanciarsi solo se mette da parte Grillo e Casaleggio. E dell’Europa non sapeva neppure la collocazione sulla cartina.
  • L’uscita di scena di B. Berlusconi, patetico e ormai imbarazzante, è riuscito ancora a tenersi accanto la creme degli stipendiati, interessati, evasori, evasi, che in Italia rappresenta un ragionevole 15%. Il ‘liberi tutti’ è alle porte e non credo che il lancio nell’arena della figlia Marina possa essere un’opzione reale, la ragazza mi sembra furba e si terrà lontana.   
  • I fenomeni della Lega. La Lega al 6,2% è un risultato fenomenale che mette assieme gli antieuropeisti veri e duri. RIallacciare il filo della politica con questi cittadini credo sia la priorità per il Nord Italia che vuole essere protagonista nei prossimi anni.
  • Tsipras. Una sinistra dura e pura è necessaria e la avremo, ne sono felice più per il piano europeo che nazionale. In Italia l’esperienza di SEL pare ormai alla fine sia sul piano della cultura politica che della capacità di proporre idee. Qualche cosa di nuovo speriamo succeda presto da quelle parti.  
  • Alfano e NCD. La loro ammissione al consesso aiuta Renzi e lascia un seme sulla possibilità che si vari un centrodestra ‘normale’. Certo che se i travasi dal PdL e la presenza di inquisiti rimane a questo livello, poco ci sarà da salvare anche qui.
  • Meloni e Fratelli d’Italia: non se ne sentiva la necessità e gli elettori lo hanno detto chiaro. Qui neanche il solito Photoshop potrà fare un lifting a idee e numeri.
  • Scelta Civica e IdV: Chi glielo ha fatto fare? Su quali basi pensavano di raggiungere il 4%?  Non pervenuti.

giovedì 22 maggio 2014

Votate, perché solo in Europa l'Italia si può coniugare al futuro.

Non avrei mai pensato di sedermi un giorno per scrivere un appello al voto europeo.
Per certi aspetti l’avrei giudicato inutile perché ovvio (siamo Europei? Mica devo ricordarlo io!), dall’altra è talmente evidente che senza l’Europa saremmo spacciati che l’affluenza dovrebbe essere fin maggiore di quella legata alle nostre elezioni politiche nazionali. Scrivo però perché in queste settimane ho colto un livello del dibattito infimo e disinformato, lunghe diatribe che nulla hanno a che fare con la UE, capipopolo ignoranti e supponenti.

Io sono cittadino europeo e solo grazie a questo posso avere un’opinione sul mio paese, posso capire cosa vi succede, posso fare confronti amarlo odiarlo, impegnarmi nel cambiamento. 

In Europa viaggio e passo confini ormai invisibili, mi alimento di conoscenza, sapori, informazioni e idee che germogliano in stati e lingue diverse dalla mia. Sorrido della Generazione Erasmus che ha scoperto se stessa grazie all’Europa unita. Provo orgoglio per l’amore incondizionato che gli altri Stati hanno per l’Italia e mi si ghiaccia il sangue a ascoltare le loro analisi su di noi, lucide e informate più della media di noi italiani. Vedo spesso opportunità (per me e per tutti) che l'Italia non dà e, sentendomi cittadino europeo, non vedo l'approfittarne come emigrare ma solo come coglierle. Mi godo inoltre la pace che l’Europa ci garantisce e comprendo quanto sia costata.

Come cittadino europeo ho passato venti anni a cercare di non vergognarmi quando tutta l’Europa vedeva bene come il nostro Re fosse nudo, non solo davanti alle minorenni ma davanti alla Storia, al buon senso, al progresso.
Negli stessi 20 anni ho mille volte ringraziato chi ha lottato perché fossimo nell’Unione e nell’Euro perché è solo grazie alla nostra appartenenza europea che abbiamo avuto un minimo di leggi, regole, politiche. 
Non sono state tutte perfette per noi? Può darsi, ma la colpa è nostra: siamo da tempo l’ultimo vagone del treno (per scelta e decisione nostra) ma meno male che al treno eravamo attaccati.

Votare è di fondamentale importanza perché è puerile dire che tutto fa schifo e tutti rubano. Anche io sono contro l’Europa delle banche ma solo votando si può fare qualcosa per costruire diritti (e doveri) comuni, servizi sociali diffusi e democratici, opportunità e innovazione, un superamento dei criteri di austerità che in mancanza di altre idee ci bloccano qui, al palo.       

Vedo con terrore l’ipotesi che ci sganciamo dal convoglio proprio ora che il sistema di potere che ha cariato il Paese forse è alle corde (per motivi anagrafici e giudiziari).

È il momento di  guadagnare posizioni sul treno, di avvicinarsi fino a unirsi ai piloti e ai navigatori. 

Per farlo occorre competenza, positività, toni pacati e idee chiare. 
Prima di tutto occorre votare.

mercoledì 21 maggio 2014

Zero Reputation: del perché i tassisti non ci sono simpatici.

Ho già scritto dello scontro che vede protagonisti i tassisti e il servizio Uber per il noleggio di auto con conducente. Tutti i giornali ne parlano, pochi a proposito. La diatriba viene semplicisticamente presentata come ‘vecchio’ contro ‘nuovo’ che in un’epoca di rottamazioni allegre fa istintivamente propendere il tifo verso chi brandisce un’App e non un cric. Il tema è mal posto e, al di là delle lecite resistenze di chi vuol mantenere posizioni pagate a caro prezzo, rientra in un più generale bisogno di regole e servizi adatti al XXI° secolo.

Qui però vorrei fermarmi a riflettere di come i tassisti in questa fase paghino la scarsa simpatia del pubblico verso la categoria.
In termini contemporanei potrei quasi dire che la loro reputation  è un disastro, il ranking dei loro servizi è sofferente, la customer satisfation sofferente, il brand della categoria svalutato. E, a mio avviso, queste debolezze potranno essere per loro ragioni di parecchie sofferenze.
A parte che a se stessi e ai loro familiari, la categoria è piuttosto invisa. Ma cos’hanno fatto che li ponga su di un piano diverso da quello dei falegnami, degli insegnanti, dei giornalai o degli architetti?

Nulla di personale ma è diffusa la percezione che tra i servizi taxi imperi la scarsa qualità del servizio. E se il servizio che eroghi è percepito come insoddisfacente è difficile avere solidarietà professionale.
Certo le auto vanno da qui a lì, ma non basta.
L’uso del taxi in questo paese si confronta spesso con sistemi di tariffazione spesso discutibili e iniqui, distrazioni dubbie, carenze in materia di bancomat wifi aria condizionata, radio costantemente sintonizzate su acefali canali da ultras, uso del cellulare alla guida, …
Diciamo che la user experience è sconfortante e il cliente è spesso una variabile indipendente.
La mia personale opinione è che questa sciatteria diffusa sia generata a sua volta dalla autopercezione di essere fondamentali e intoccabili. Forse il sapersi un pubblico servizio fa alla lunga pensare di essere quasi dei dipendenti pubblici. Intoccabili forse potranno continuare a esserlo ma fondamentali non credo.

La loro intoccabilità l’hanno costruita, come tutte le corporazioni, strutturando legami stretti e spesso opachi con la politica. L’esenzione alla ricevuta fiscale concessa da Berlusconi e la contiguità interessata con frange estreme li ha resi indiscutibilmente antipatici. Il blocco alle nuovi concessioni comunali legato alla candida motivazione che c’è un mercato nero da tutelare fa ribrezzo. Il voto di scambio a cui si presta in larga parte la categoria mi allontana da ogni empatia (“a dotto’, visto che la porto in Regione, ce lo dice lei alla Polverini che se non ci da i soldi che ci ha promesso in campagna elettorale per le auto nuove, la prossima volta i nostri voti li diamo a quarcun’altro. Ventimila preferenze almeno”).

Poi, come capita in tutte le corporazioni chiuse, le mele marce non vengono additate e messe all’angolo dagli altri (o dai giudizi degli utenti, se vogliamo essere un po' 2.0) ma tollerate voltandosi dall’altra parte.

Ora sono sotto attacco.
App americane, car sharing, biciclette anche, ne minano alle basi la necessità, a meno che non decidano di confrontarsi e rilanciare. Magari ricostruendo la loro immagine attraverso un atteggiamento diverso verso il mercato... vedremo.
Per manifestare le loro ragioni intanto picchetteranno le stazioni, bloccheranno forse strade, faranno casino, troveranno il politico compiacente a far salire i toni. Con molte ragioni dalla loro parte ma - e mi spiace - con ben pochi cittadini al loro fianco.

sabato 17 maggio 2014

Servono regole per questo millennio, non tassisti incazzati.

Oggi a Milano 300 tassisti inferociti hanno fatto irruzione al Wired Next Festival dove si parlava di futuro e di come tecnologia e Economia della Collaborazione stiano ridefinendo le regole del consumo e della produzione, di beni e servizi. I tassisti volevano impedire a Benedetta Arese Lucini, manager per l’Italia dell’app UBER di parlare in qualità di caso di successo della new economy.

Rabbrividisco perché otto giorni fa ho scritto su questo Blog un post sull'Economia della Collaborazione che mi ha stupito per accessi e condivisione, che cito:
Scontri più o meno espliciti sono all'orizzonte: Albergatori contro AirBnB, Ristoratori contro CookeningTassisti contro Uber, distribuzione alimentare contro Food Assembly, banche contro Social Lending e così via, ... qualcosa andrà distrutto, posti di lavoro andranno persi e altri creati, tante cose andranno regolamentate molti dovranno cambiare pelle per continuare a stare sul mercato. Le corporazioni e i monopoli sono tutte destinate a essere travolte dal mercato che cambia.

Non faccio vaticini, né leggo i fondi di caffè. Osservo e sommo, talvolta sottraggo il rumore di fondo di chi si ostina a sottovalutare la potenza dell’innovazione dal basso. E' il mio mestiere.

Ciò che per Wired è una best practice, per Mario Rossi tassista a Lampugnano è una minaccia epocale, una minaccia di estinzione.
Un mondo nuovo è alle porte, che preme per stravolgere regole e consuetudini, corporazioni e monopoli. Se dopo il risibile tentativo di fermare la musica liquida chiudendo Napster servivano altre conferme che i muri si aggirano, ecco che ce le troviamo in casa. Le agenzie di viaggi sono state decimate da Internet, le Poste hanno cambiato pelle, l’editoria si deve reinventare. I tassisti devono trovare un modo per far parte del mondo che verrà o cambiare mestiere. Uber deve rispettare le regole sostenendo le proprie ragioni nel cambiare.

Perché in questa partita:
  • Non ci sono buoni né cattivi, il mercato vive di vita propria.
  • C’è il passato e il futuro, quelli sì.
  • Ci sono i diritti dei consumatori ad avere servizi di qualità, sicuri e a prezzi equi.
  • C’è il diritto della collettività a esigere  il pagamento delle tasse da chi produce reddito.
  • C’è la fine della divisione tra privato e professione.
  • C’è il disvalore del possesso quando ci basta l’uso.
  • C’è la follia del consumo messa a confronto col riuso, il riciclo, il risparmio.
  • C’è una sfida epocale a cui è chiamata la Pubblica Amministrazione.
Stamattina lavorando a un’ipotesi di piano per lo sviluppo di un ecosistema collaborativo su base regionale scrivevo (scusate la seconda autocitazione, ma questa è perlomeno inedita):


Finora la Pubblica Amministrazione è rimasta passiva rispetto a tali dinamiche, non facendosi permeare (nei processi decisionali, normativi, organizzativi) dalla rivoluzione culturale in atto, senza recepirne l’effettivo potenziale in termini di semplificazione dei processi, progettazione di servizi, creazione di valore per i territori.
Le pubbliche amministrazioni non possono più governare solo in nome dei cittadini, ma se vogliono mantenere credibilità e senso devono farlo con i cittadini che diventano una fonte di energia, talenti, risorse, capacità e idee.
Il settore pubblico è di fronte a una sfida storica: può facilitare lo sviluppo dell’economia della condivisione o osteggiarlo.
Può togliere auto dalla strada, evitare ridurre e rivalutare i rifiuti, includere gli esclusi; mettere a disposizione luoghi, informazioni, competenze perché  acquisiscano creino nuovo valore per la collettività.”
Il ruolo della PA diventa quello di supportare la nascita e l’integrazione di un ecosistema con:
  • Adeguamento della normativa per favorire la transizione da un modello economico all’altro, ammortizzando l’impatto del nuovo paradigma, dando certezze alle imprese e alle startup;
  • Sostegno alle sperimentazioni, con un’attenta analisi di impatto e una rapida messa a sistema laddove auspicabile.
  • Messa a disposizione di luoghi fisici (anche oggi male/sottoutilizzati) dove si sviluppino attività aventi i cittadini come co-progettisti e protagonisti di scambi di idee, talenti, tempo.
  • Promozione di spazi virtuali. Dunque sviluppo e sostegno a piattaforme on line, dove condividere e/o scambiare tempo, talento, libri, auto, spazi verdi, parcheggi, attrezzature, ricette, consigli medici, camere sfitte, libri, energia pulita.
  • Identificare, sostenere, valutare, App a valenza civica in grado di dare soluzioni a bisogni collettivi attraverso strumenti diffusi come smartphone e tablet
  • mettere a contatto esperienze e persone, anche grazie a facilitatori che includano i più deboli, che spingano al dialogo tra generazioni e tra generi, che sorveglino il rispetto della legalità e dei valori democratici e della libertà di espressione.
Le cose succedono anche se non vogliamo. 
Se le affrontiamo con saggezza possiamo  guadagnarci tutti.