Pagine

mercoledì 30 luglio 2014

L’Unità chiude se la sinistra non si apre al mondo reale.

Gramsci lo fondò come giornale rivolto agli operai e la testata è stata sempre fedele all’idea del suo fondatore.
Forse anche per questo motivo sta chiudendo: gli operai sono sempre di meno, leggono sempre meno e sono sempre meno rappresentati a sinistra, da questa sinistra almeno.

Leggo vari giornali, alterno La Repubblica e Il Corriere soprattutto per i loro articoli di fondo e le inchieste, leggo Il Fatto quando mi  va un po’ di controinformazione istituzionale, sullo smartphone leggo l'impeccabile La Stampa, faccio poi la media di quello che trovo su internet, integro col sito della BBC, del NYT, di Figaro talvolta. 
Nell’Unità non ho mai trovato le ragioni della lettura e dunque dell’acquisto, neppure quando ero impegnato in politica, neppure quando la sinistra era all’opposizione, neppure nelle rassegne stampa gratuite. Forse perché, pur nei miei mille lavori, operaio non lo sono mai stato. Forse perchè non mi ha mai trasmesso la sua rilevanza nel panorama editoriale. 
Ha una storia importante e gloriosa, lo so, ma non basta per avere un senso oggi. La associo a una generazione che aveva dei punti di riferimento comuni, che la contrapponeva alla Bibbia, poi a solo qualche vecchio pensionato abitudinario, ai tavoli in formica delle sezioni del Partico Comunista, ai pannelli di compensato fuori dalle nuove sezioni del PD dove viene ancora affissa e distrattamente letta dai passanti.
Pochi ormai comprano/si permettono più di un giornale al giorno e mi sfuggono le ragioni per cui un lavoratore autonomo, un precario, un’insegnante, debba spendere il suo denaro contato proprio sull’Unità. Il giornale diventa così vittima di una politica che non si interessa ai suoi lettori ideali.

Non funziona, semplicemente, non l’hanno uccisa - come oggi grida in prima pagina - ma è morta di vecchiaia, e per quanto mi spiaccia per chi ci lavora non starei a strillare a chissà quale scandalo. 

Forse troveranno il modo di salvarla, spero però non avvenga con una trasfusione di denaro pubblico. L'Unità non è un ospedale, né una scuola, ma è un giornale e se nessuno lo legge (e dunque non raccoglie neanche la pubblicità per stare sulle sue gambe) la colpa forse non è né di fantomatici killer né dei lettori.

lunedì 28 luglio 2014

Cerco, cambio, vendo, compro, offendo il lavoro.

Sono nato in una grande città operaia regolata dai ritmi dell’altoforno e dagli orari di arrivo delle navi da scaricare. “Ci sono i portuali in sciopero” o “L’Ansaldo è scesa in piazza” erano pronunciate un’ottava sotto, col rispetto dovuto alle celebrazioni in cattedrale. A cui assistere deferenti se non si era gli officianti.
Il lavoro e le sue forme di lotta erano celebrati come necessari e preziosi. Lo sciopero era parte del lavoro come gli attrezzi, la tuta, il sindacato, gli infortuni. Era il mondo di tutti noi e tutti guardavamo a un futuro per le nostre famiglie in cui crescesse la qualità del lavoro, i meritevoli fossero premiati e i deboli sostenuti.
Anche negli anni ’90, quando robotica e informatica hanno rivoluzionato le professioni e i mercati, provocando parecchi licenziamenti e prepensionamenti la reazione è stata composta e dignitosa, come davanti a una catastrofe naturale e un nuovo paesaggio sconosciuto da far colonizzare ai propri figli il cui dovere diventava ancor più studiare per interpretare il mondo.

Da qualche anno le cose sono cambiate. C’è stato un momento in cui il lavoro e il suo controvalore economico hanno perso ogni relazione, troppo per alcuni, briciole per altri; in cui gli imprenditori più bravi hanno maggiori difficoltà a creare ricchezza di una pletora di parassiti assistiti.
Forse c’entra il Crollo del Muro e la liberazione di forze che prima erano contenute dalle ideologie contrapposte di chi credeva di Dio o nella Comunità come fini ultimo del sacrificio di oggi per il bene di domani. Di certo non è facile realizzare di essere rimasti senza Dio ma ancora più difficile è essere senza lavoro. “'Io non credo nell'inferno, credo nella disoccupazione” afferma deciso Dustin Hoffman in ‘Tootsie’ quando per lavorare deve fingere di essere donna e riassume la lacerazione tra talento e opportunità che è propria ormai di un paio di generazioni.

È offensivo essere chiamati a fare sacrifici quando i privilegi di pochi sono sotto gli occhi di tutti. Infatti e sempre più evidente è l’assenza di vergogna, forse conseguenza dell’assenza di un Dio o di una Comunità a cui rendere conto dei peccati commessi così come delle buone azioni.
Li percepisci attorno a te i privilegiati, gli strapagati, i raccomandati, i cassintegrati professionisti, i riciclati, costruire muri, abbonarsi al ricorso al Tar e alla Corte di Strasburgo, sbracciarsi per dire che loro “non ci stiamo!”, che “vogliamo solo il rispetto delle regole e dei patti” anche quando sono arbitrari, iniqui, fonti di mercimonio.  Li immagini in difesa, con l’elmetto sulla testa e sul culo e l’avvocato carico nella fondina, nelle loro trincee scavate in Alitalia, alla Camera dei Deputati, al Teatro dell’Opera, in mille società miste municipalizzate speciali parapubbliche.

Assisto attonito alla fine del sindacato, ucciso per sua stessa mano e cecità; osservo disilluso i politici urlare annunci di riforme afoni di significato; mi irritano i cento dirigenti che danno la colpa dei propri errori e inerzia alla crisi o alla congiuntura strale; seguo col pensiero le avventure di chi se ne va all’estero a coltivare i sogni, di chi torna a quarant’anni a vivere coi genitori senza più sogni, di chi, sopraffatto, chiude sconfitto la propria battaglia terrena.
Se obietti a tanta supponenza, ti si rivoltano contro con frasi da fiction di basso costo come “Chi sei tu per parlare?” “Lo fanno tutti” “E’ sempre stato così”.


Io sono solo uno che paga tutte le tasse, si costruisce ogni giorno un curriculum meritato fatto di sbagli e di successi, pagandosi la propria formazione per stare sul mercato, e che non crede nella vita eterna e dunque preferisce che i peccati altrui che rovinano la vita mia, dei miei figli, dei miei amici, di mille sconosciuti respinti, vengano redenti qui, in contanti e subito.

lunedì 21 luglio 2014

Quando la professoressa è lesbica.

È una storia che non ho mai raccontato, che era finita nel magazzino ordinato dei ricordi assieme a tanti aneddoti, che era lì forse per essere inserita nella vita di un personaggio dei miei romanzi futuri. L'episodio dell’insegnante di Trento inquisita in ragione del proprio orientamento sessuale l’ha fatta tornare a galla e, nell’umidità appiccicosa di questa estate romana, ve la propongo come raccontino della sera.

Stella viveva ad Anversa, la sua città natale. Insegnante di Scienze e Matematica in una scuola superiore, aveva da parecchi anni anche l’incarico di coordinare per l'istituto l'orientamento dei ragazzi nelle scelte di studio e professionali. Come me, aveva vinto una visita di studio per comprendere come la Norvegia si impegnasse per combattere l’abbandono scolastico.
Era lesbica e non ne faceva mistero. Amava l’Italia, parlava un discreto italiano e mi aveva raccontato che ci era stata “con la mia fidanzata”.
In quel periodo stavo scrivendo un racconto per la mia raccolta People from Ikea che aveva come protagonista proprio una donna omosessuale. La simpatica Stella che leggeva in italiano mi parve un’occasione imperdibile per chiedere un’opinione sulla trama e le atmosfere create. Lei ne fu lusingata; trattò l'inedito con delicatezza senza però nessuna remora nello stroncare le mie ingenuità e forse anche pregiudizi in materia. Le due serate passate con lei, con una birra sotto le stelle, a parlare, prima del mio libro e poi delle nostre vite mi sono ancora preziose.
“Insegno in una scuola ebraica di Anversa. È frequentata da figli di famiglie fondamentaliste. Meno male che ho a che fare solo con numeri e formule…  Sai, da noi la musica non religiosa è del tutto proibita, niente Beatles, Madonna né U2. I programmi di storia non sono allineati con quelli ufficiali olandesi. Niente Shakespeare o Jane Austin e altra letteratura moderna”.
Davanti alla mia mandibola incredula e penzolante ha aggiunto “I matrimoni sono ancora combinati e le ragazze dell'ultimo anno non parlano d'altro.”
“Ma, possono comportarsi così?” la interrompevo io.
“Sono venuti gli ispettori del ministero e hanno abbastanza realizzato la situazione, senza però approfondire né intervenire."
"Li hanno pagati per farli tacere?" chiedo io con ottusa mentalità italiota.
"No, la comunità ortodossa ha detto chiaramente che se vogliono che il mercato dei diamanti resti a Anversa e non migri, ad esempio, a New York, su cose come questa devono chiudere due occhi e una bocca.”
“Come fai a stare in un posto così?” le chiesi, sottintendendo anche, ma non solo, al suo orientamento sessuale.
Rise, amaro. “Devo pagare il mutuo…” Poi aggiunse: “Comunque lo sanno che sono lesbica, da pochi mesi, credo tramite una ragazza che si è diplomata alcuni anni fa e che mi ha visto in un locale”. Finì la birra, “Non ne hanno mai parlato direttamente ma mi hanno messo all’angolo: i genitori non vengono più al ricevimento parenti, alcuni ragazzi cambiano marciapiede se mi vedono per strada. Anche i colleghi sono diventati gelidi; molti sono indifferenti alla mia omosessualità ma, diciamo pure, parlare con me non è consigliabile.”
“Una situazione difficile…”
Sorrise, “Mi spiace solo per i miei ragazzi. Per come saranno, per come alcuni soffrianno. Per le gioie della vita che sono destinati a perdere. Io ora voglio solo arrivare alla fine dell’anno scolastico per non dargliela vinta: di scuole ad Anversa ce ne sono tante... poi ho insegnare lì mi impediva di prendere una decisione serena in merito alla proposta di matrimonio che mi ha fatto Marja.”

NdA: il racconto è vero e si riferisce alla situazione specifica di una scuola e una comunità locale non a un popolo o a un paese. In Israele iI diritto garantisce ai gay la maggior parte dei diritti matrimoniali riconosciuti alle coppie eterosessuali, inclusa l’adozione. Anche se la piena ufficialità del matrimonio omosessuale non è ancora stata sanzionata, vengono riconosciuti i matrimoni omosessuali contratti all'estero.
Israele ha anche una delle più alte percentuali di popolazione favorevole all'equiparazione completa delle coppie gay a quelle etero, col 61% che sostiene l'introduzione del matrimonio civile per le coppie dello stesso sesso (dati 2011).