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lunedì 11 maggio 2015

Dalla musica al tumore di Gianmaria Testa

Ho scoperto la magia di Gianmaria Testa da un trafiletto che segnalava come questo ferroviere italiano semisconosciuto avesse fatto 3 serate di tutto esaurito all’Olympia di Parigi. Sarà stato il 1996. Per fortuna dovevo andare a Parigi di lì a poco e mi accaparrai il suo primo disco Montgolfieres e anche un raro demo non destinato al commercio.
Fu amore a primo ascolto per quell’uomo schivo che echeggia da lontano le atmosfere di Conte e Fossati ma percorre un nitido percorso tutto suo.
Nel suo caso, più che di un percorso si può parlare di viaggio. Già, Testa è il cantore del Viaggio in tutte le sue varianti, mezzi, direzioni. Treni, auto e aeroplani muovono i sentimenti dei suoi personaggi, sostenuti da un intreccio jazz che con gli anni si è dilatato verso contaminazioni sognanti.

L’anno dopo la felice scoperta parigina, leggo che è previsto il suo primo concerto importante in Italia proprio al Teatro Carlo Felice di Genova, dove vivevo. Compro una spettacolare prima fila e attendo. Presentandomi la sera fissata vengo dirottato nella sala prove del teatro perché i biglietti venduti sono talmente pochi che nella sala principale da 2000 posti saremmo state una quarantina di tristi mosche sparse sui velluti. Quaranta mosche presto trasformate nei vagoni del treno tirato dalla musica via da lì  

Escono altri bei dischi, tra cui Lampo.
All'epoca, sul web i suoi accordi non si trovano ancora e, col mio stile stentato, tiro già direttamente dall’ascolto quei 4 giri di chitarra che mi consentono di cantare e strimpellare Un Aeroplano a Vela.

Nel 2000 sono al Teatro Valle di Roma, parte di un tutto esaurito che lo conferma un grande anche in Italia. Stupefatto, dal palco ci confidò: “Dal mio piccolo paese del Piemonte, Madonna del Pilone, si veniva a Roma solo in viaggio di nozze o a vedere il Papa. Io suono per voi, non ci avrei mai creduto se me lo avessero detto pochi anni fa”.
Un altro concerto unico ed esclusivo fu quello per poco più di 100 persone, sul tetto del Palazzo delle Esposizioni, in una afosa estate romana, dove si presentò solo con la sua chitarra, un bandoleon e un contrabasso e provò musiche diverse che legavano mediterraneo e pampas.
In quel periodo comincio a ninnare i miei figli con la soave Biancaluna che arrivai a cantare a Ada per tranquillizzarla in una sala di Pronto Soccorso, facendo anche tacere i medici che la stavano curando, tutti presi ad ascoltare.

E poi, viene l’incredibile performance sperimentale all’Auditorium pochi  anni fa, come colonna sonora vivente a Giuseppe Battiston e al suo potente spettacolo teatrale “18.000 giorni – Il Pitone” sullo spettro della disoccupazione a 50 anni.

Oggi, sul giornale, leggo la sua lunga intervista a Michele Serra, della lotta contro un tumore inoperabile, della potenza della musica, di come a 57 anni fino a poco tempo fa ci si potesse dire già vecchi, di come si alzi a suonare e cantare la notte, di come non sia la paura a segnare i suoi giorni ma la sua voglia di lottare e battere la malattia.

Leggo e, senza altre parole, con totale inutilità, lo ringrazio e mi metto già in fila per il suo prossimo concerto.