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martedì 14 agosto 2018

Il Ponte, aorta di una città.


Scopro adesso che si chiamava Ponte Morandi, per me è sempre stato il Ponte della Nonna Angela.
Sotto le enormi campate c’è tuttora un quartiere di case popolari in larga parte destinate ai ferrovieri emigrati dal sud, arrivati negli anni ’40. Come i miei nonni, appunto. In quei 70 metri quadri hanno vissuto per 50 anni e i loro 13 figli hanno costruito le basi della vita al nord.

Me lo ricordo fin da piccolo. Saprei disegnarlo a occhi chiusi. 
Si vedeva da lontanissimo e avvicinandosi a piedi avevi modo di capire quanto fosse fuori misura ed imponente. Per me era come la presenza preistorica di una civiltà aliena, altissimo sopra le case, espressione di uno stile architettonico particolare. Unico nel suo genere. Forse bellissimo. Di certo l’orgoglio del quartiere e della città.
Era la forma più particolare e maestosa che avessi mai visto: nella mia classifica di bambino si giocava il primato solo con le linee della Michelangelo e della Raffaello, transatlantici di bellezza assoluta, miti dello stesso periodo storico. Per me era il design, la simmetria, la forza della bellezza al servizio dell’uomo.
Crescere lì, a pochi metri, attraversarlo sopra e sotto migliaia di volte, per lavoro, per andare al mare, a trovare amici, in Francia, sulle Alpi, all’aeroporto, dagli zii, dalla mia amica Pina, ha significato per molti (per me) trasformarlo in una icona del quotidiano. Era un vero simbolo. Cento volte più presente, possente e significativo  dell'irraggiungibile Lanterna.

Era da sempre in manutenzione, ristrutturazione o quello che volete. Bastava avere un amico nel settore per sentirsi dire “E’ fatto in calcestruzzo precompresso, non resiste. Va continuamente sistemato. È più complicato tenerlo su di come sia stato costruirlo.” Siccome sono un positivista ho sempre pensato che tutto fosse sotto controllo. Mi sbagliavo.

E ora? Voi che non siete di Genova, non potete capire la domanda. È caduto un ponte, suvvia…

No, è stata tagliata l’aorta della città, la strada che rendeva possibile attraversarla, collegarla con i mercati, portare i turisti, muovere la vita. Il ponte è caduto sulla ferrovia che porta le merci da/per il porto che rischia di strozzarsi e di perdere in un attimo il ruolo che verrà in pochi giorni ridistribuito in Italia e all’estero. Se una città non si muove perde qualsiasi ruolo e opportunità.
Metteteci pure che Genova non è servita dall’Alta Velocità, ha un aeroporto che non è mai decollato, indicatori della qualità della vita molto peggiori del resto del nord, un continuo saldo negativo degli abitanti, è gestita senza idee da molti anni, la principale banca è a pezzi, ha un territorio devastato da anni di incuria, ecco che la sfida diventa epocale. Genova non può farcela da sola.

Ci sono tantissimi talenti, energie capaci di affrontare anche questa, di farsi forza. Ci sono imprenditori validi che guardano all’Italia e ai mercato mondiali. Molti di loro non hanno ragioni di rimanervi se non quelle affettive e di legame con territorio. Se questo disastro non ha anche l’effetto di un elettrochoc allora davvero la fuga di tutto quello che ancora si muove rischia di diventare inevitabile. Invece la città deve diventare attrattiva, per chi studia, chi lavora, chi viaggia, chi cerca un posto diverso da ogni altro. Attrarre per evolvere, per innovare, per non spegnersi.

Che il ponte vada ricostruito subito è indubbio. In questi 3-4 anni sarà imperativo ripensare il rapporto tra città-abitanti-territorio.  Che quest’elettrochoc attraversi l’Università, le categorie, i molti immigrati, i zeneizi doc, chi ha il materasso infarcito di euro e chi porta in dote solo le braccia, fino a chi fino oggi si stava chiedendo la ragione vera dell’essere proprio lì ora. Stop al mugugno.
Questa non è un’alluvione in cui con fatica tremenda si cerca di riportare le cose a come erano prima. Questo è un punto di non ritorno.

In un sera così dolente mi permetto di essere ancora positivo: Genova ce la può fare, Genova non deve crollare.