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martedì 24 dicembre 2019

Di povertà vorrei parlare…

Oltre venticinque anni fa ho iniziato ad occuparmi di progetti e strumenti per la lotta alla disoccupazione. Una dozzina di anni fa mi sono allargato al tema della creazione di lavoro e alle nuove professioni, al recupero spazi e alle nuove economie. Poi mi sono concentrato sul lavoro  le competenze in ambito culturale, anche con progetti specifici di sviluppo territoriale.
Poi nuovi percorsi, forse logici ma anche inaspettati, da quasi un anno  mi hanno portato ad un impegno professionale nel campo della lotta alla povertà.

Ne parlo poco, pochissimo. È la prima volta che lo faccio sul web e sui social media. Il Natale  e la voglia di condividere le opinioni con chi mi segue su questo blog, mi spinge a fare qualche considerazione.
Dopo un anno di lavoro, nella testa si mischiano visi, statistiche impietose, storie di vita, la disperazione delle famiglie, i raggi di speranza per alcuni, e lo scoramento di operatori bravissimi chiamati sempre a svuotare l’oceano con un cucchiaio.
Se contabilizzo con la mente i miliardi spesi per lo scopo e provo a coglierne gli impatti scarto la retorica, scelgo la pragmaticità. Perchè se ne parla e scrive troppo poco.

Il 2019 è stato l’anno del Reddito di Cittadinanza, l’affermazione di un nuovo diritto e del concetto che in una comunità la fratellanza è pilastro di democrazia e include il sostegno  nelle situazioni più disperate. La svolta legislativa è stata epocale

Sì, il sistema era impreparato a uno strumento così ampio e complesso: servizi non all’altezza, software inesistenti, procedure da progettare, leggi e decreti da scrivere, scollamento tra le amministrazioni, operatori travolti dall’incertezza e dall’utenza. Una politica più saggia avrebbe dovuto immaginare 12-18 mesi per organizzarsi. La situazione è in evoluzione, tanto è stato costruito e tanto si sta facendo. Occorre guardare al futuro e apprezzare una base giuridica che non c’era e le opportunità che stanno sviluppandosi. Eccoci allora qua, impegnati a trasformare un magma di casi ed eccezioni in un sistema di supporto ai cittadini, dando del nostro meglio. Tra un anno, ci rivedremo qui per i primi veri bilanci.

Alcune cose le ho imparate velocemente.

Lavorando sulla povertà e sull’esclusione sociale ho compreso come la povertà educativa sia la radice da estirpare. Ragazzi e ragazze che non studiano non hanno chance contro l’esclusione. Quando incontro ventenni inchiodati al dialetto e a solo duemila parole in italiano vedo i loro percorsi in caduta libera. Comprendi subito come la licenza superiore sia il minimo per galleggiare, e a essa andrebbe accompagnata da forme di educazione non formale che passino attraverso lo sport, i gruppi giovanili, la possibilità di viaggiare e magari padroneggiare un’altra lingua.  Miliardi di euro e nuovi approcci vanno calati sul sistema scolastico e sui servizi di supporto alle famiglie.

La seconda componente maligna della povertà è la solitudine. La povertà relazionale è estremizzata nei cittadini senza dimora ma è trasversale a tante categorie, accentuata dopo i 50 anni. È la dimensione in cui ci si arrende, non si ha nessuno per cui impegnarsi, con cui condividere sforzi, sconfitte e successi, e allora, tanto vale, lasciarsi andare.  Lo so, non puoi obbligare a nessuno di socializzare, a curarsi, però puoi agevolarlo. Possono farlo architetti e urbanisti a cui si dia tale mandato nei loro progetti per città, quartieri e aree interne, possono aiutare animatori e artisti sociali. Anche la banda larga e l’educazione digitale sono utili allo scopo.

Il fantasma che ogni tanto intravedo è quello della povertà provocata e dunque evitabile. La percepisci nelle regioni in mano alla criminalità, dove il povero è utile, è manovalanza, è docile, è la piattaforma su cui accumulare ricchezza. Dove le componenti di ignoranza, lavoro nero e solitudine sono al servizio di un disegno più grande che giustifica a ricchezza di pochi sulle spalle dei molti.  

In quest’anno ho imparato che la povertà è un fattore complesso (‘multidimensionale’ dicono i tecnici) e la lotta al fenomeno soffre di semplificazione. È pilatesco affermare ‘basta dare un lavoro’, così come è una semplificazione l’idea che esistano soluzioni valide per tutti. I percorsi hanno senso quando sono individuali, sono lunghi, passano per il recupero della legalità, della speranza, dei fondamentali del vivere civile.