Pagine

lunedì 6 aprile 2015

Lo Yemen è in guerra. Ci sono stato e lo ricordo così...

Le prime pagine dei giornali, le aperture dei tg, vanno ovunque tranne che in Yemen. Da settimane lì è in atto una guerra sanguinaria e devastante in cui gli aerei dell’Arabia Saudita bombardano Sana’a, la capitale occupata da settembre da i sostenitori dell’ex presidente Saleh, sospettato di appoggiare i ribelli sciiti filoiraniani Houthi. Il Parlamento è stato sciolto e il paese è in preda alla totale anarchia per bande. Il presidente in carica è scappato a Ryad. Una situazione drammatica per gli abitanti e che interessa alla dilomazia internazionale meno della Siria. Ci sono pochi cristiani coinvolti e zero bianchi e dunque nessuna notizia da raccontare.
Ci sono stato in uno dei più bei viaggi della mia vita, sicuramente il più magico. Ero lì nella finestra temporale tra la guerra che unificò il nord al sud del paese e l’11 settembre 2001.
È (era?) un posto unico al mondo. Per molti aspetti andarci era anche un viaggio nel tempo. Un luogo dove la natura, gli uomini, le armi davano a me, bipede occidentale, la sensazione di un ‘altrove’ dominato dalla forza e votato al sacrificio.
In quel viaggio il Paese era in pace, una pace dura e spigolosa con pochi sorrisi e tensioni serpeggianti in ogni angolo. Per ricordarlo e accendere una piccola luce su quel posto, provo lasciare qui qualche briciola di quel viaggio:
                        *
L’unicità di Sana’a è confrontabile solo con quella di Venezia. Pur non avendo avuto un Canaletto a raccontarne lo splendore, i palazzi altissimi ne hanno la bellezza e la raffinatezza. Solo che al posto dell’acqua le fondamenta sono piantate nella sabbia del deserti.
                        *
Sono palazzi in argilla e mattoni, labirintici all’interno e costruiti per ingannare il caldo. Fuori si ergono superbi con le loro decorazioni bianche in calce che hanno la finezza e la bellezza dei ricami più preziosi
                        *
Gli uomini indossano tutti l’abito tradizionale lungo e a nessuno che abbia più di 14 anni manca il coltello ricurvo, la jambia. La portano come noi faremmo con la cravatta. Molti non disdegnano anche girare con la pistola, il fucile, il kalashnikov.
                        *
Durante un lungo trasferimento in pulmino dal nord al sud del paese, l’autista si fermò in mezzo al nulla, dispose delle bottiglie a trenta metri da noi e, per un dollaro a colpo, fece provare il mitra ai viaggiatori che lo desideravano
                        *
Gli stessi kalashnikov venivano scaricati verso il cielo ogni sera allo scoccare dell’ora in cui si poteva rompere il digiuno legato al ramadan. Le prime sere trattenevo il respiro fino alla fine di quegli sbotti di gioia, poi mi limitai a rimanere al chiuso.
                        *
Le donne, tutte imprigionate nei loro burka si muovevano silenziose nelle città e zappavano la terra nei campi. Nei mercati la biancheria intima coloratissima e traforata ammonticchiata nei banchetti, completava una sudditanza culturale che a noi turisti appariva parte di una tragica schiavitù.
                        *        
A parte pochi hotel a 5 stelle per ricchi americani, blindati e senza senso, nessuna infrastruttura turistica. Abbiamo dormito e mangiato nei funduk, luoghi di sosta carovanieri dove dividevamo cibo semplice sullo stesso pavimento coperto di tappeti dove avremmo poi dormito.
                        *
Il ghat, una pianta alcaloide parente della coca, masticata da tutti, che inebetisce e rende automi e senza volontà, e che distrugge i denti e brucia quasi il 50% del PIL del paese.
                        *
Le carcasse di carri armati di fabbricazione russa abbandonati lungo le strade e furi dalle città, coperti di sabbia o usati come parco giochi da mille bambini sorridenti.
                        *
Le spiagge, magnifiche e deserte, sull’Oceano Indiano dove all’improvviso tre donne in chador con visi solari e modi gentili dispongono su foulard colorati decine di conchiglie, forse rare, di certo magnifiche. Ancora oggi, quandole rigiro tra le mani, sento il mare senza neppure il bisogno di portarle all’orecchio.
                        *
Il cappotto di fustagno con bottoni dorati, residuo dell’alta uniforme di un ufficiale inglese delgi anni '30, che ho comprato al mercato dopo una interminabile contrattazione.
                        *
Shihara, il paese a 3000 metri d’altitudine, palazzi di argilla, aquile, dove è anche l'abitazione di Franzisca, giovane yemenita innamorata in qualche modo ricambiata di un viaggiatore italiano arrivato lì un paio d’anni prima.

Nessun commento:

Posta un commento