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lunedì 28 novembre 2016

Referendum: La Filastrocca del Sì e del No.

Sì, domenica voterò.
No, non vi dico cosa.
Sì, mi vergogno della scelta.
No, non sarebbe diverso votassi altrimenti.
Sì, è un quesito pasticciato.
No, non dovremmo essere chiamati a votare su cose così.
Sì, sarebbe stato un po’ meglio l’avessero spacchettato in più domande.
No, non ho capito l’impatto di un voto o dell’altro.
Sì, ho letto tanto, ho studiato, ho fatto domande.
No, non mi influenzano le conseguenze per il governo.
Sì, vedo impresentabili in ogni schieramento, e anche brave persone.
No, non ho seguito alcun dibattito televisivo.
Sì, ho trovato utile leggere le opinioni dei costituzionalisti.
No, non mi filo cuochi, sportivi, cantanti e amici su Facebook.
Sì, penso ogni giorno al futuro dei miei figli, al mio, al nostro.
No, non lego il futuro a questo referendum, e nemmeno a questo Paese.
Sì, mi sento truffato.
No, il voto non si spreca mai.
Sì, ho paura.
No, non abbastanza da spegnere il cervello.

mercoledì 9 novembre 2016

L’elefante nella stanza, in Italia come in USA: l’ignoranza.

Ci sono pensieri che possono essere articolati solo in post politicamente scorretti. Quello che percepisco nell’aria, unito al tifone dell’elezione di Trump in USA, mi spingono a buttare giù queste righe sperando di non perdere lucidità di analisi e, forse, concedendomi un po’ di cinismo.

Per lavoro, da tempo mi occupo dei temi del cosiddetto Audience Development inteso come il processo di allargamento e diversificazione del pubblico nella cultura e di miglioramento delle condizioni complessive di fruizione della lettura, dei musei, dell’ arte.
Sì, è bello, stimolante. Si tratta di fidelizzare, trovare nuove occasioni di interesse, attrarre le persone con mezzi e messaggi, saper ascoltare, coinvolgere e creare partecipazione, specie di nuovo pubblico.
Sì, è una gran sfida. Si fanno in merito parecchi progetti. Per riuscire nell’intento si usa molto il gioco (la gamification della cultura), si aprono i Musei la notte, si inventano gli ingressi gratuiti, si mette ovunque Realtà Aumentata, si convincono archeologi sbigottiti a ‘svecchiare’ forma e linguaggio del loro lavoro, si stravolgono le esibizioni mettendo le ninfee di Monet davanti ai video di una gita al lago, si inventano mostre tipo “Da Tutankhamon alla Lamborghini” che dovrebbero allargare il pubblico interessato.
Soprattutto si tenta di affrontare quelle che a detta di molti sono le cause prime della disaffezione del pubblico per l’arte, la cultura, la lettura, l’approfondimento: il costo, il tempo a disposizione, programmi poco interessanti, ubicazioni scomode.

Si fa tutto con l’idea che modificando i mezzi si possano trovare nuovi pubblici a cui diffondere i messaggi.
Osservando i risultati e gli impatti (ad es. l’ebook non ha cambiato di una virgola il mercato del libro è anzi esso stesso in diminuzione di vendite), mi convinco sempre di più che la missione non è compiuta perché le cause identificate sono quelle sbagliate. E i messaggi (di ogni tenore) non arrivano perché troppe persone non sono in grado di capirli.

Provo a vedere le cose da un altro punto di vista.
Circa il 30% degli italiani soffre di analfabetismo funzionale (dati OCSE, alcune fonti arrivano a oltre il 40%), cioè pur avendo a disposizione tutti gli strumenti culturali di base per leggere e scrivere, non è in grado di interpretare dati che siano aggregati in una forma complessa. Non è, ad esempio, in grado di comprendere la posologia di un farmaco, una polizza assicurativa, un libretto di istruzioni, e non riesce a capire un articolo di giornale, o a elaborare ragionamenti su grafici e tabelle. Infine non è in grado di prendere una decisione ascoltando diversi punti di vista ma è legato solo ai propri convincimenti e alla propria esperienza soggettiva. E' questa - secondo me - la principale ragione per cui solo il 42% degli italiani legge almeno 1 libro all’anno, non legge i giornali, si informa poco tramite il web (35%) o va al cinema (solo 48%).
Questo analfabetismo strisciante è l’elefante nella stanza, altro che costo della cultura o mancanza di tempo. Se non lo mettiamo a fuoco, tutto il resto diventa solo un esercizio intellettuale bellissimo riservato a chi ne ha meno bisogno.
Come?
Non se se serva un "Maestro Manzi 2.0". 
Di certo l’educazione gioca un ruolo importante (ricordo che spendiamo in educazione la metà dei paesi del nord Europa). Tuttavia credo anche non bastino scuole migliori. Da analfabeti funzionali si vive benino, si pensa poco, si è in buona compagnia.
Se non mettiamo sul tavolo un'alternativa complessiva che trasmetta la voglia di libertà dai gioghi, il rispetto del prossimo, la forza del libero arbitrio, la spinta alla comprensione della complessità, quale chiavi per l’autonomia e per l’autoaffermazione adulta, non scolleremo nessuna dalla sua poltrona comoda.
Forse si chiama Politica per il futuro, ma non sono le definzioni che mi interessano.

Intanto continuo a progettare capendo che la cultura serve, con la cultura si mangia, la cultura libera. Non sono slogan ma sentimenti che vanno trasmessi. Qualcosa è arte, è cultura, se genera verso di esso una relazione capace di scatenare una reazione in grado di produrre trasformazione. Tutto il resto è marketing.

Come un prodotto del marketing è stato Berlusconi, come è Trump, come sono molti personaggi sulla mediocre scena politica e imprenditoriale italiana. Lo so, a loro ci piace credere; con loro non si cerca né si pretende verità perché la verità piace a pochi, specie quella su se stessi.
In fondo, se neppure loro si sforzano di comprendere la realtà, e ne modellano una a loro piacimento fino a essere eletti, possiamo tranquillamente assolverci anche noi.

martedì 1 novembre 2016

Alternanza Scuola Lavoro: vantaggio per McDonald’s o per gli studenti?

Tra i punti qualificanti la Buona Scuola vi è l’introduzione estensiva delle esperienze di Alternanza Scuola Lavoro (ASL). Si tratta di far un’esperienza in ambiente lavorativo nel secondo biennio e nell’ultimo anno della scuola secondaria di secondo grado, con una differente durata complessiva di almeno 400 ore negli istituti tecnici e professionali e almeno 200 ore nei licei.
Niente di nuovo per i professionali, un salto nel buio per tutti gli altri, specie per i licei.

L’intento pedagogico è nobile: consentire al ragazzo di aprire gli occhi sul mercato del lavoro, verificare le proprie attitudini, dargli elementi per fare scelte per il prosieguo degli studi.
Lo spaesamento della scuola è comprensibile: si ritrova a gestire un obbligo alieno alla missione percepita, per il quale non vi è preparazione né sincero interesse. A essere stati presi in contropiede sono stati tutti: scuole che non hanno mai avuto relazioni col mercato del lavoro, famiglie disorientate, aziende sommerse da richieste di 16enni ai quali non si ha idea di cosa far fare.
Il fatto che una cosa simile funzioni in Germania ha convinto il legislatore che possa funzionare anche qui. La differenza non sta però nella lingua e nei capelli biondi: lì hanno molte aziende grosse e strutturate, in grado di gestire i ragazzi, con tempo/ragioni/contesti in cui la cosa può funzionare. Le nostre microaziende non sono idonee e un’attività del genere non ha chance per essere accolta come dovrebbe.
In breve: in Italia non può funzionare sui grandi numeri.  
Siccome però è stato piazzato lì, occorre affrontare il tema in qualche modo che non sia l'eterna 'sperimentazione' all'italiana.

Pochi giorni fa ero presente a un convegno dove un'importante Università esprimeva questo concetto: a) noi prendiamo Soldi dallo stato in base agli iscritti; b) noi facciamo 2800 esperienze di ASL l’anno con ragazzi delle superiori che vengono a lavorare dentro l'Università… c) lo facciamo per farli iscrivere da noi. d) Ai nostri iscritti invece non facciamo fare nessuna esperienza di lavoro perché non abbiamo rapporti col mondo del lavoro e non ce ne viene niente.
Intanto due giorni fa il Ministero del Lavoro ha annunciato la firma di un accordo con McDonald’s e altre aziende per garantire circa 28.000 posti l’anno in ASL. Indignate reazioni sindacali e del  MOIGE si sono sprecate denunciando quelle che sono a mio avviso posizioni preconcette e ignoranza di fondo sugli obiettivi dell’ASL e sul ruolo educativo che tali attività possono avere.

C’è chi invoca ‘coerenza’ tra il percorso di studi e l’esperienza. Come se fosse facile, come se qualcuno sapesse che lavoro i ragazzi andranno a fare dopo i licei. Come se a uno che frequenta il classico non facesse bene pulire un bancone, socializzare con ragazzi precari, trovarsi dalla parte di chi produce invece che tra chi compra.
Qui si tratta di acquisire le cosiddette life skills: essere puntuali, ordinati, proattivi, saper interagire al momento giusto, essere consapevoli delle regole scritte e non. Serve a comprendere se si è portati a lavorare all’aperto, con le persone, le cose, i numeri, gli animali. 
Penso che un po’ di McDonald’s ai liceali potrebbe servire molto a avere universitari più motivati a non fare quel lavoro, invece delle frotte di giovani spiaggiati negli atenei che attraversano gli anni dell’accademia senza un minimo progetto di vita che non sia quello di allontanare il più possibile l’ingresso nel confuso mercato del lavoro.

In questo quadro confuso, nelle Scuole la parola d’ordine dei professori agli studenti è: “Sbattetevi con le vostre famiglie per trovarvi un posto dove fare ASL. Contattate zii, amici di famiglia, chiunque abbia buon cuore”. Per molti genitori sta diventando: trovare un’azienda a cui dare 500 euro sottobanco perché prendano il figlio per fargli fare cose di una certa qualità. 
Dopo il florido mercato delle ripetizioni, un altro nuovo mercato del nero. Sì perché per un’azienda che non sa che farsene del ragazzo l’ASL è un peso e un costo. Certo, poi ci sono le eccezioni, le aziende che lo usano per avere il polso del mercato, selezionare tirocinanti, respirare Millennials, creare relazioni, ma sono mosche bianche che nessuno interessa  mettere a sistema.

Ben venga McDonald’s e i suoi amichetti allora e – per favore – che l’Università rinunci a offrire esperienze farlocche utili solo aumentar gli iscritti. Ben vengano anche esperienze in Fab Lab, spazi di Coworking, artigiani, agriturismi.   

Non sono contro l’idea di fondo dell’ASL, anzi all’opposto mi fa rabbia che sia un obbligo per molti senza effetti pratici se non la discontinuità didattica e la perdita di ore. Si dovrebbe piuttosto supportare progetti scolastici che prevedano una relazione col mercato dentro la scuola, portando testimonianze dall’esterno, sviluppando project work volti a fare ricerca e risolvere problemi reali, dando un senso alle materie studiate incluse filosofia e musica.

Infine, come in tutti i paesi del primo mondo, è arrivato i momento di far capire a famiglie e ragazzi come chi non prova nemmeno a dare un senso alle sterminate 3 mensilità di ferie estive con lavori/tirocini/volontariato di almeno un mese sarà sempre più svantaggiato nel mercato del lavoro. Questa è l’Alternanza che serve al curriculum, il resto sono giochi di ruolo.

lunedì 24 ottobre 2016

L’Europa che ci circonda. L’Europa che vogliamo.

Torno da una settimana di formazione in Moldavia a 12 funzionari di diversi Ministeri sui temi della Progettazione Europea.
Mi hanno sfidato per 40 ore chiedendo sempre di più. Accorciavano le pause per il pranzo per rimettersi al lavoro, rimanevano tutti oltre l’orario di lezione per andarsene solo quando io – esausto – li invitavo a farlo. Volevano capire, cogliere l’occasione di uno spiraglio aperto su qualcosa che per loro è sinonimo di salvezza: l’Europa. Schiacciati e isolati tra Russia e Romania, i giovani moldavi vivono nel paese più povero d'Europa sospesi nell’incertezza della storia. Oltre il 25 per cento dei cittadini risiede all’estero e alimenta l’economia locale quasi al 30% del PIL.

Lì, in piedi a snocciolare slide e rafforzare competenze ho vissuto il parallelo con me stesso 25 anni fa al master di Europrogettazione che mi ha cambiato la vita: ero affamato come loro, tra i primi a masticare quei temi in Italia, certo di essere un privilegiato già solo a essere lì.
Questa docenza è arrivata poche settimane dopo la mia decisione di non andare – per la prima volta da 10 anni - agli Open Days 2016della DG Regio a Bruxelles, l’evento per eccellenza per chi si occupa di politiche per lo sviluppo locale, 250 seminari per 5000 persone in 4 giorni.
Non sono andato perché mi sembrava tempo perso. Ho letto più volte titoli e contenuti dei seminari in programma e nessuno mi ha convinto al punto di farmi prendere un aereo per essere lì.
Forse era prevedibile dalla piega presa dalla politiche. In poche parole la cosiddetta Strategia Europa 2020 è diventata quanto segue:
In Commissione Europea non abbiamo idea di come dare risposte a problemi e bisogni. Facciamo che voi ci fate delle proposte e noi in cambio magari vi diamo un po’ di soldi.
Noi Stati Membri abbiamo da giustificare la nostra esistenza, non certo abbiamo tempo per rispondere a bisogni reali
Noi Regioni ci pensiamo su e se qualcosa ci viene in mente vi facciamo sapere, intanto compilate qualche modulo per accreditarvi con logiche del secolo scorso.
Noi Università non siamo certo qui per dare risposte concrete, per chi ci avete preso!.
Noi Sindacati e Associazioni di Impresa dobbiamo prima capire chi siamo e a cosa serviamo nel 2016 poi magari ci si vede  
Noi Comuni teniamo botta: dai su, fateci delle proposte e magari poi se funzionano vi citiamo nei comunicati stampa quando le venderemo come nostre idee Smartissime.

Intanto milioni di persone da sole, in comunità, in community si sbattono per dare vere risposte alle sfide del secolo, dal lavoro all'invecchiamento, dai traporti all'agricoltura sostenibile, dall'energia alla resilienza 
Centinaia di imprese innovano per sopravvivere e intercettare i mercati nascenti dai bisogni

Le piattaforme agevolano tutto questo a basso costo economico ma alto in termini di cessione della privacy.

Ecco allora che mi si spiega bene un terzo fatto recente: ero a Potenza per un bell’evento volto a tirare creare il bello dopo aver compreso il brutto in cui siamo immersi, a ripensare una città e la sua vocazione.
Le istituzioni e politica sono stati solo informate per la loro conclamata inutilità, non gli si è chiesto soldi o patrocini, uniche cose a cui residualmente venivano chiamati. E… sono venuti in forze. Perché? Hanno capito che rischiano di essere ormai considerati meno che accessori utili a scaldare le prime file. Il distacco tra istituzioni e realtà è vissuto dai territori ormai con rassegnazione.
Servizi per l’impiego, servizi di cura, culturali, assistenziali, si sviluppano fuori dalla politica e dalle istituzioni: questa è una grande novità, con i suoi aspetti positivi e negativi.

Sempre più iniziative e progetti neppure chiedono i soldi rispondendo ai bandi di gara (della Regione, lo Stato, la UE)  perché non ci si fida, perché sono processi troppo lenti, perché i soldi finiscono sempre agli stessi, perché la burocrazia è vessatoria verso chi non ne fa una professione.
A me questo scenario mette i brividi. Ad un politico o a dipendente pubblico dovrebbe dare incubi.

Ecco che tanta nuova Europa prende forma dal basso con legami tra gruppi di interesse che esprimono sempre meno rappresentanti, che credono sempre meno nella rappresentanza e sempre più nella responsabilità.
Sono movimenti che hanno passato lo stati embrionale e coinvolgono centinaia di persone. Il loro destino può portare grosse novità positive ma anche essere spazzato via dal colpo di tosse di un Orban o di una May qualsiasi.

Più passano gli anni e più mi sento responsabile per quello che posso fare (e colpevole per quello che non faccio) nel costruire questa Europa, unica soluzione di pace, unico percorso possibile per l'inclusione di chi è ultimo oggi e di chi potrebbe esserlo domani.
  

venerdì 23 settembre 2016

Lite Torino-Milano sul Salone del Libro: riguarda tutti.

La querelle tra Torino e Milano sullo ‘scippo’ del Salone del Libro da parte di quest’ultima non può lasciare insensibili anche se sembra riguardare città che non sono la tua e mestieri che non pratichi. 
Si parla di libri, di cultura e dunque anche di democrazia, futuro e economia. Credo meriti qualche riflessione in più degli scazzi e le tecnicalità tra addetti ai lavori nelle pagine interne di qualche quotidiano.
Frequento il tema da tempo: come autore che negli ultimi 12 anni ha pubblicato con 6 diversi editori, metà dei quali falliti come il mercato ha imposto; come lettore interessato a che la qualità delle opere scelte per gli scaffali venga premiata da persone attente, competenti e pagate il giusto per il loro lavoro; come frequentatore dei saloni stessi, luoghi interessanti dove la fisicità del libro e degli autori fa da padrona.

Prima di tutto occorre segnalare come la duplicazione del salone a Milano si inserisce in un quadro nazionale che include almeno anche l’ottima Children’s Book Fair di Bologna, unico salone italiano davvero internazionale, il piccolo ma ruspante e vitale PiùLibriPiùLiberi di Roma dedicato alla piccola e media editoria, e magnifici Festival della Letteratura come quello di Mantova.
Era tuttavia evidente come il Salone di Torino andasse del tutto ripensato, in questo post ne ho raccontato debolezze e limiti dell’edizione 2016. Nei fatti era riempito quasi solo da scolaresche, traccheggiava tra antichi fasti e fughe modaiole verso improbabili start up e libri di cucina. Se questo l’ho colto io posso immaginare come ai geni del marketing milanese fosse evidente da tempo.

Di cosa parliamo?
Per inquadrare i fatti non si può evitare di ricordare come il Italia solo il 48% degli abitanti legga almeno 1 libro all’anno e solo il 7% ne legga almeno 1 al mese. Costo dei libri, tempo a disposizione, allergia ai congiuntivi sono tutte scuse facilmente smontabili.
Credo che una riflessione vera nel merito non sia stata fatta, si parla di ‘educazione alla lettura’ come se fosse una scienza esatta. La verità, più agghiacciante, va più nella direzione di un largo deficit di attenzione da parte di molti, dell’analfabetismo funzionale (stimato tra il 30 e il 40% della popolazione) che impedisce di capire un libro, della paura di confrontare o confutare le proprie idee, nell’evitare la fatica. Allora ecco che quel 48% si avvicina pericolosamente a tutti quelli in grado di leggere un libro.
L’ebook non ha spostato nulla. È risultato un fenomeno residuale, usato davvero solo da lettori ‘forti’. Oltre il 50% degli e-reader a un anno dalla loro vendita ha ancora solo i 5 libri preinstallati di quando è stato regalato a ennesima conferma di quanto scrive Pennac in “Come un romanzo”: il verbo Leggere non si può coniugare all’imperativo.
Molti editori dicono chiaramente “Non mi conviene pubblicare ebook” e si vede come tutte le start up che puntano sull’editoria digitale abbiano in business plan i soldi degli autori e non quelli di ipotetici lettori a cui il libro digitale non interessa.

Questo elemento mi pare interessante: ci sono tante persone che scrivono e desiderano pubblicare perché oggi la tecnologia consente di passare in un amen dal manoscritto al libro, anche cartaceo se lo vuoi. Il fenomeno è lo stesso che ha trasformato molti in ‘fotografi’ grazie alla fotografia digitale, folle in ‘video maker’ grazie a telecamere, Youtube e Windows Live Video Maker. Però, come per le foto e i video, l’autopubblicazione sommerge di quantità e spesso squalifica (o rende invisibile) chi nel magma qualcosa di interessante prova a indirizzare ai lettori.

Forse occorrerebbe ripartire anche dalla campagna  #ioleggoperchè  uscire dal circolo di quelli che leggono già per arrivare magari a situazioni in cui ogni ‘lettore’ adotta un ‘non lettore’ portandolo dentro i suoi mondi, anche quelli fisici come le librerie, le biblioteche, le presentazioni. Ovviamente vale anche il viceversa con la possibilità che il non lettore convinca il lettore a fare altro. Credo che entrambe le parti ne avrebbero giovamento e qualcosa di comunque nuovo si muoverebbe.

Perché se il libro come oggetto è intramontabile, cambia il rapporto che si ha con lui. 
Ad esempio, nel mio piccolo ho notato come negli ultimi anni sia molto diversa la modalità di confronto e incontro con i libri. Da un po’ faccio un numero sorprendente di presentazioni in case private, in ristoranti, in associazioni, gruppi di lettura, presso studi di psicologi, asili nido, piazzette dei centri storici. Poche le librerie dove pare sia difficilel 'socializzare' e che per prime puntano a organizzare gli eventi fuori dalle loro mura, il orari e contesti a loro nuovi. 
Ma di questo vi racconto meglio la prossima volta.

mercoledì 20 luglio 2016

Nei panni di un Turco.

Prova a metterti nei panni di uno studente turco di dieci o tredici anni che frequenta una delle 700 scuole chiuse per editto. Prova a immaginare la tua faccia davanti al portone sbarrato, presidiato da un uomo col mitra.

Prova a metterti nei panni dell'insegnante di una delle 250 scuole a cui hanno arrestato il preside. Prova a sederti al tuo tavolo in sala professori, senza più trovare senso alle ore da passare in aula con ragazzi spaventati più di te.  

Prova a immedesimarti in uno degli oltre 15.000 insegnanti pubblici e 21.000 di scuole private che hanno perso la licenza per lavorare, che non entreranno più in una classe, che se vorranno trasmettere la passione per la loro materia lo dovranno fare di nascosto o trasformandola a piacimento del potere.

Cerca di essere un giovane universitario, sapendo che il tuo preside o rettore è di certo tra i 1.577 costretti a presentare le dimissioni. Sai bene che gli verranno sospese solo se della sua dignità di uomo e accademico avrà accettato di fare polpetta avvelenata per se stesso e per i suoi studenti.   

Prova a immaginare un Paese con 75.000.000 di abitanti senza scuole affollate di dubbi, università affamate di domande, senza teste pensanti, senza libertà di discussione.

Dallo stesso Paese poi togli 2.745 giudici colpevoli di giudicare secondo legge e coscienza laica. Prova a immaginarti tra gli innocenti, tra coloro che subiscono un torto e chiedono l’intervento della corte ma non votano il partito di maggioranza.

Adesso per un attimo sei uno dei 246 consiglieri comunali eletti dal popolo che sono stati allontanati dai loro incarichi. Potrai ancora camminare la sera, al buio, nella tua città, senza temere?

Non provare a immaginarti come uno dei 2.000.000 di profughi siriani arenati in quel Paese impegnato a asfaltare le sue forze migliori: non ce la puoi fare.

Sintonizzati infine sulle prime 24 radio e tv private che sono state chiuse perché la forza delle idee spaventa i potenti più dei mitra. Di giornali e libri senza la faccia del leader non ne avrai più.

Smettila adesso: non è un bel gioco, lo so.
Ora sei tu. 
Sono io. 
Sono sfortunato perchè un po' di Storia a scuola me l'hanno fatta studiare, riuscendo pure a farmela piacere. E non mi serve la fantasia per vedere il baratro.  

mercoledì 15 giugno 2016

Di come e perché Podemos sfida la precarietà della politica imitando il catalogo IKEA.

Raccolgo la sfida.
Qualche anno fa ho scritto “People from IKEA” (FBE Edizioni), una raccolta di racconti sulla Generazione Componibile che è diventato anche un bello spettacolo a cura delTeatro della Tosse di Genova.
In questi giorni Podemos ha presentato  il suo programma elettorale per le prossime elezioni in Spagna secondo il riconoscibilissimo format del catalogo IKEA.
Qualche simpaticone ha stuzzicato sui social network la mia opinione in merito.
Siccome da diversi mesi il mio lavoro di consulente e autore mi porta alla comprensione e allo sviluppo di schemi per il business storytelling, raccolgo convinto la sfida.

Anticipo subito che su questa provocazione di Podemos dò 10 e lode per forma, contenuto e comprensione di sogni e bisogni del proprio elettorato potenziale.

(Come per il catalogo IKEA) leggere il programma di Podemos diventa un piacere per gli occhi e va dritto allo scopo. Spiazzante con simpatia all’inizio. Apparentemente surreale. Poi, lentamente, iperreale. Poi semplicemente pop perché l’identificazione tra l’elettore, le proprie istanze e candidati del partito diventa più naturale pagina dopo pagina e benché siano 186 non te ne accorgi (come capita per i film sopra le due ore di lunghezza quando sono ben fatti).
L’oggetto costruisce empatia per il partito grazie ai suoi molteplici livelli di lettura.


Intanto si rivolge a una platea che sa e può ridere di sé stessa anche quando ha le pezze al culo e rivendicazioni forti. Poi intercetta i molti che leggono e comprendono solo il catalogo dell’IKEA, molti ovunque. Guarda a chi nella precarietà esibita dei prodotti e delle ragioni precarie che ti spingono a comprarli della multinazionale svedese trova una metafora chiara ma consolante della propria esistenza. Poi sono riusciti a riprodurre anche quell’aria di “non è casa mia ma potrebbe esserlo” che nel mondo dei mobili ti fa sperare di mettere finalmente ordine nel tuo 40 metri quadri e nel mondo dei grandi di fa sperare di mettere ordine nelle ingiuste disuguaglianze e nelle rendite di posizione.  Nelle immagini hanno umanizzato e avvicinato i politici candidati che paiono davvero a loro agio in quella casa loro che potrebbe essere casa nostra.
L’immagine pop e i colori caldi stridono alla perfezione col rigore delle centinaia di proposte: tutte chiare e comprensibili nel linguaggio e negli obiettivi (anche per uno come me che non ha mai studiato lo spagnolo). Poi, per certificare che non stanno scherzando, in fondo c’è una nota economica che con dati e grafici  mette a confronto le diverse politiche e proposte.
Poi i miei motivi di ammirazione sono molti, uno per tutti: 

Podemos ha un programma e non ne leggevo uno così organico, carico di concretezza e di speranze da anni. Quando sono arrivato a punti come “Trasparenze e controllo democratico della Difesa” o “Un centro di servizio sociale ogni 20.000 abitanti” o “Piano nazionale di Transizione Energetica” mi sono quasi commosso.


Come elettore prossimo a doversi esprimere al ballottaggio di Roma intorno a programmi che al massimo dello sforzo evocativo propongono di tappare le buche e di raccogliere la monnezza mi sono sentito bidimensionale, influente col mio voto nei destini della città meno dell’omino delle istruzioni sul pieghevole dello scaffale BILLY.  

giovedì 9 giugno 2016

E se l’innovazione non portasse voti?

Torino, Milano, Bologna, Trieste: le quattro città star nell’innovazione, i veri passanti della la cintura che tiene ben stretta l’Italia ai processi europei di sviluppo sostenibile, la quintessenza stessa della parola Smart City.
Molti amici innovatori vi lavorano ogni giorno. Con le loro attività sviluppano nuovi processi di creazione del valore per sé e spesso per i territori, contribuiscono a politiche pubbliche di avanguardia, tessono reti che liberano energie. Lì hanno a disposizione infrastrutture efficienti e tanti spazi di qualità che funzionano a loro supporto. In alcune di queste città stanno mettendo a punto prassi amministrative, innovazioni normative e fiscali fondamentali per dare a tutti le possibilità che meritano.  
Lì ci sono il bike sharing, il car sharing, social housing, orti urbani, le tagemutter, i teatri e i festival, le università di punta, qualcosa di nuovo succede ogni giorno. Insomma sono città davvero nel XXI° secolo. Lo percepisco dai racconti di chi ci vive, di chi ci è andato a vivere proprio per queste ragioni. Quando passo per quei posti ne sono convinto anche io. “Questo a Roma non lo faremo mai…” mi dico abbacchiato. “Vorrei vivere qua…” aggiungo non di rado.
Poi si vota.
Si aprono le urne e Fassino/Sala/Merola/Cosolini trovano molto meno consenso del previsto, sono in seria difficoltà (tra 10 giorni vedremo quanta) da competitor che non hanno finora dimostrato nulla, che talvolta  invocano un generico ‘nuovo corso’ per la paura del nuovo e del diverso, che sanno però rispondere ai bisogni di chi vota.
Io rimango perplesso ma i commentatori televisivi mi spiegano che “Non c’è da stupirsi del risultato perché l’amministrazione uscente ha lavorato malissimo, è sotto gli occhi di tutti da anni: zero dialogo con i cittadini, modi autoritari, abbandono delle periferie.” Allora volgo lo sguardo agli amici che ci vivono, confuso, chiedendo ragione di queste ambigue narrazioni.
Lo so, ogni città ha una storia a sé, ma 4 casi diversissimi col medesimo problema forse fanno un caso.
Al di là delle profezie che si autoavverano, occorre forse davvero chiedersi: l’innovazione paga alle urne? Oppure spaventa perché dimostra a tutti come i tempi siano cambiati anche se non si vuole? O perché dimostra che l’inglese è più importante del dialetto, che la velocità vince sulla stabilità, che la distanza non impedisce la comunità, che il territorio non è un tavolo da gioco insensibile ai nostri capricci? O manca qualcosa nei nostri interventi che dia senso anche elettorale al valore degli interventi?
Forse sviluppare spazi di coworking, regolamenti inclusivi, orti urbani, piattafome di collaborazione, percorsi virtuosi per l’inclusione degli immigrati, se da una parte richiede alla pubblica amministrazione nel terrorizzante ruolo di ‘abilitatrice’ dall’altro cala sul cittadino maggiori responsabilità, un ruolo forse non sempre richiesto e spesso non compreso. 
Se è questa la strada che vogliamo percorrere, forse, è ora di pensare modi, spazi e tempi in cui affrontare da cittadini elettori questa evoluzione del contesto che muta anche il patto sociale di chi vive in una città.    
C'è anche un altro aspetto: e che gli innovatori non votino? Che ritengano di non aver bisogno della politica, di lobby, di rappresentanza. Magari rimandando a un  generico ‘appena ho tempo’ il loro impegno in un mondo che percepiscono come inefficiente, parassita, se non inutile. 
Ad esempio nel mito distorto delle start up trovo mille persone che vogliono cambiare il mondo e nessuna il quartiere. Cuori d’oro che si impegnano per l’artigiano pachistano e non colgono la desertificazione delle botteghe del rione.  
Lo ammetto, io stesso mi chiedo ogni volta con maggiore fatica ‘se’ votare ancora prima di ‘chi’.
Sono domande da porsi. Perché se molto è politica (come lo sono molte ore delle nostre giornate al lavoro, in aula, su Skype, come genitori, consumatori, …) è anche vero che il sistema meno imperfetto per organizzare l’equità, la giustizia, le pari opportunità, la resilienza, passa per la partecipazione e la rappresentanza.
Poi però vanno a votare soprattutto le persone arrabbiate, o che nel voto trovano una utilità di scambio, con una totale divergenza di percorsi tra chi ha l’ambizione a costruire e chi quella a difendersi. Ecco che trova maggiore rappresentanza politica maggioritaria chi vuole asfaltare strade e differenze d’opinione, razza e sesso, piuttosto che chi è disposto a una politica inclusiva basata su piccoli passi, con obiettivi ambiziosi ma distanti.
Mi chiedo infine se si stia sviluppando un Creative Divide cioè una forte divisione tra i soggetti che traggono effettivamente vantaggio dalle politiche guidate dall’innovazione e chi ne è invece escluso: con i primi che ritengono superfluo votare (forse anche perché il successo dei loro servizi si basa proprio sull’inefficacia della politica), e con i secondi che hanno ancora speranze o prebende associate al foglio calato nell’urna.

Buon ballottaggio a tutti. 

giovedì 19 maggio 2016

Spunti e sensazioni dopo una giornata al Salone del Libro di Torino

Ho passato la giornata di lunedì 16 al Salone del Libro a Torino. 

Erano 4 anni che non ci andavo. Ho speso con allegria un mucchio di soldi, mi sono divertito. Ho notato come tante cose siano cambiate. 
Alcune credo utile socializzarle per chi è interessato almeno un poco alla cultura, e dunque al futuro del Paese.

*
Inizio dalla fine: una mutazione antropologica è in atto. Si legge sempre meno e - quando lo si fa - per ragioni diverse. La percezione è che la lettura sia considerata un'attività inutile socialmente e culturalmente e dunque legata alla sfera del 'possibile' ma non del 'necessario'. La parola scritta è forse di per sé troppo impegnativa come concetto in un mondo liquido come il nostro. Quando una cosa è considerata inutile, finisce tra gli hobby, allo stesso livello che collezionare sabbia o bambole di porcellana.
*
Gli editori piangono, lacrime e sangue. E ci mettono l'anima, come sempre. Sarà che molti sono amici ma lo scenario raccontato è stato a tratti devastante: vendite in calo, visitatori del Salone in picchiata (tante scuole che si portano la merenda e fanno volume senza comprare un volume), librerie stremate. Quasi tutti, sapendo che sono un lettore accanito, mi hanno regalato libri, e mentre li accettavo vedevo il piacere nei loro occhi.
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Senza cercarle ho fatto due consulenze al volo per progetti di crowdfunding letterario a editori che mentre prendevano appunti si chiedevano come fosse possibile ridursi così. (Tutti mi hanno ringraziato con “Prenditi un libro, sceglitelo dal banco”)
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Tante le scuole elementari, un po' meno le medie e le superiori. Il comportamento di queste ultime mi ha colpito: zero curiosità, tutti negli stand dei grandi e riconoscibili editori a sfogliare i libri che hanno già a casa, scritti da blogger o zeppi di riferimenti scopaioli senza ragione (o tutte e due le cose assieme).
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Se c'è salvezza, arriverà dalla generazione che ora fa le elementari: leggono, toccano, creano, sono a loro agio, fanno domande, basta lasciarli fare.
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Però il numero dei libri improbabili cresce ogni anno. Ho visto con i miei occhi “Il Complotto sulla morte di Rino Gaetano”, “Guarire dal tumore concentrandosi sul lavoro”, “Paleggiare con le tette”, questi e altri invocavano a gran voce l'introduzione del reato di Apologia del Cretinismo. Temo in crescita anche il numero dei lettori improbabili.
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Scorgo lo stand di Matera 2019 Capitale Europea della Cultura. E' un progetto fantastico e innovativo, voglio saperne di più: sono circa le 13, allo stand non c’è nessuno, ipotizzo siano in pausa pranzo, peccato che alla Fiera non ci siano saracinesche da tirare giù. Butto un’occhiata agli scaffali dove sono esposti esclusivamente alcuni volantini sulla città,  un libro sulla visita di Papa Wojtyla in Basilicata e un semestrale protoletterario di scarso interesse denominato l’Appennino
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Approfitto con slancio della copia-omaggio allo stand de Il Fatto Quotidiano: non lo leggevo da tre anni circa e l’ho trovato imbarazzante, sciatto e con una profondità di analisi da rimestio nella fuffa. Impostato secondo scelte editoriali e di priorità tematiche che seguono logiche a me incomprendibili. Di certo sono fuori target...
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Scovo un libro simpatico per ragazzi: una parodie a strisce disegnate al computer de La Divina Commedia. Sto per comprarlo. “Fanno 25 euro,” dice l’editore. “Cosa?” strabuzzo io, immaginandolo già coperto di macchie di gelato e caccole (il libro, non l’editore). E glielo lascio lì.
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Interessante l’ampia zona bianca dedicata alle start up volte all’innovazione in campo editoriale. Sbirciamo nel futuro, mi dico. Molte app, servizi web per georeferenziare libri, addendum a ebook. Quasi tutte proposte sbilenche, senza un business model plausibile, rivolte a soddisfare bisogni inesistenti, preincubate in un luogo dal nome figocriptico e che ha tanto bisogno di loro per giustificare la propria esistenza.
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In chiusura sua maestà il Cibo. Un mezzo padiglione era dedicato a libri sul tema. Ovunque ritornava prepotente, alimentato dalle mode televisive e dai caratteri macchiettistici dei Cuochi trasformati tutti in Chef. I libri hanno copertine e foto di stampo pornografico, con la libidine del dettaglio superiore al piacere del tutto. La parola Vegan troneggia qua e là sdoganata da Crozza, finchè Crozza non decide di prendere in giro i possessori di cani dal pelo corto.
Io, se guardo al mondo degli adulti che frequento, vedo ben pochi che cucinano, sempre meno, e i supermercati invece zeppi di monoporzioni precotte. Però - ammettetelo - un bel libro di 3 chili su “Come cucinare nelle cocotte” non si nega a nessuno, fa tanto chic.

giovedì 28 aprile 2016

Tra il 25 aprile e il 1° Maggio: quando la memoria è libertà.

1.
Il bambino sul treno accanto a me  solleva gli occhi dal cruciverba e chiede al papà “Chi è l’indimenticato Troisi?”
“Massimo!” esclama quest’ultimo associando al nome risate, dolcezza e limonate nel buio del cinema parrocchiale.
“E chi è?” lo gela il bambino a cui ‘indimenticato Troisi’ pare al più un ossimoro.
2.
Entro in libreria mentre Veltroni presenta un libro di Proietti esaltandone la capacità d’innovare nella tradizione del teatro. Poi lo accosta a altri ‘mostri sacri’ fino a citare l’immenso Sordi. Lì, quasi scosso,  racconta che il giorno prima davanti a 400 ragazzi di una scuola romana che stentavano a tenere il filo delle sue memorie ha chiesto quanti conoscessero Sordi e solo 5 o 6 alzarono la mano. Sordi chi?
3.
Troisi e Sordi passano, vabbé, forse ce ne faremo una ragione, ma la settimana tra il 25 aprile e il 1° Maggio è così densa di storia e memoria da non poter passare senza dare stimoli. 
Sette giorni racchiusi tra l’anniversario della Liberazione dalla dittatura fascista, sconfitta con la sua prospettiva di guerra e ingiustizie, e la festa dei Lavoratori, anniversario simbolico delle lotte per la liberazione da una vita che non sia solo sangue e sudore ma anche comunità, soddisfazione e costruzione di futuro.
Sarebbero centinaia gli spunti e i significati con ricadute attuali. Il messaggio di Mattarella che sottolinea come E’ sempre tempo di Resistenza  ne è buona sintesi. 
Democrazia e Lavoro sono al centro di qualsiasi discussione sul nostro destino, sulla riforma della nostra Costituzione, sulle regole del vivere civile. Fanno filotto col destino del pianeta e credo appropriato che l’Earth Day sia il 22 Aprile, così vicino alle altre date.

Un po’ mi rode che tutto questo non abbia domicilio nei talk show e forse anche poco nelle aule o nelle famiglie.
Un’idea positiva e costruttiva che nasca dalla memoria, anche dalle peggiori, non era di certo al centro delle intuizioni dei copywriter annegati negli Spritz e sfondati di apericene che hanno concepito l’immagine barbara qui accanto (da Il Venerdì di Repubblica del 22 aprile) in cui il povero Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo viene hackerato per promuovere un primo maggio sugli sci per chi vive nel cachemire distaccato dalle miserie del popolo da cui al massimo può estrarre qualche figa per allietare il doposci. 
Un messaggio costruito su una vena creativa aderente ai canoni di Made in Sud e Colorado Café sintetizzabile con “’fanculo a tutti i lavoratori, ai loro diritti, alle loro lotte pulciose: io sono io perché scio a Cortina e voi godetevi pure il picnic con fave e salame.”
Non so se gli eredi di Pellizza da Volpedo abbiano concesso i diritti di violenza sull’immagine.

Davanti a cose così mi sento piuttosto  inerme: non posso invocare vergogna in chi pensa, produce, vende, compra forme svuotate di senso come questa se in loro non c’è capacità di indignazione.
"Cosa c'è di male a scherzare?" mi aspetto, con lo stesso tono di chi dice "Cosa c'è di male a non pagare le tasse? A lasciare il frigo usato accanto al cassonetto? A consentire ogni nefandezza sociale a mio figlio? A votare XY che mi ha garantito il lavoro?"
Tutto è ritenuto ugualmente possibile perché non c’è memoria di conseguenze a gesti simili, se non di quelle poche e meschine accadute a se stessi, non c’è senso della Storia né dunque di Futuro.

giovedì 21 aprile 2016

Addio a quel geniaccio di Prince.

Prince era un genio, io non lo sono di certo.
Mi piaceva tantissimo e forse neppure saprei dire perchè.
Forse perchè sapeva di essere un genio.
Ho visto un suo concerto a Milano nel '91 e potrei raccontare per ore il tema della serata per ognuno dei miei cinque sensi.
Anni fa, ho scritto un episodio del mio libro "Mangia!" (FBE Edizioni) in cui lui c'entra parecchio e mi fa piacere riproporlo per chi ama le piccole storie.

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Con Isabella ci eravamo dati appuntamento davanti al portone di Roberto. Di lì a poche settimane saremmo stati entrambi laureati e quella sera lui ci aveva convocato per darci il regalo. Ci presentammo a mani vuote su sua esplicita richiesta: desiderava tenere sotto stretto controllo ogni minimo dettaglio.
Suonammo all’ora convenuta.
Roberto ci aprì indossando un impeccabile grembiule in tessuto di Fiandra. Disse subito: «Scegliete un colore: porpora o giallo?»
Isabella volle il porpora. A me il giallo andava benone.
La tavola era apparecchiata con tovaglie di lino, bicchieri di cristallo, sottobicchieri in rame e posate preziose, per due persone.
Ci sedemmo. Davanti a me c’era un iris giallo e un calice di champagne. Per lei, un iris porpora e un cassis alle more, rigorosamente porpora anch'esso.
«E tu non mangi?», chiese Isa a Roberto.
«La serata è vostra. Qualcuno deve fare il lavoro in cucina.»
Avremmo pasteggiato senza di lui. Avrebbe fatto avanti e indietro dalla cucina per tutta la sera. Cominciò portando pane, acqua e vino porpora per lei, vino bianco (giallo) per me. Poi la cena prese il via e io ebbi pennette allo zafferano mentre a Isabella fu servito un risotto ai mirtilli.
La conversazione divenne subito frizzante. Avevamo da raccontarci cosa ci aspettavamo dall’avere finalmente una laurea in tasca, delle vacanze che stavano per arrivare. Ridemmo dei fidanzati assenti che Roberto ci aveva rigorosamente vietato di portare e che essendo sabato sera erano piuttosto incazzati.
Al momento giusto arrivò una trota gratinata al forno per me e un piatto di arrosto alle prugne per lei. Rabboccammo varie volte i bicchieri e provammo, senza successo, a coinvolgere Roberto nella discussione. Si defilò dalla sala schivando ogni lusinga. Col passare del tempo fu lui a guadagnare spazio nei nostri discorsi. Pur essendone i protagonisti diventammo il pubblico della cena da lui progettata.
«Finito?», riapparve molti bocconi e molte parole dopo, intenzionato a portare via i piatti e preparare la scena al dolce che, sapevamo, non poteva mancare.
Sorridemmo, abbandonati alle volontà dell’amabile burattinaio.
Mi posò davanti una coppa di gelato all’arancia guarnita da una semisfera di caramello intrecciato. Per lei ci fu una vaschetta di porcellana in cui era adagiato un aspic alle more con violette candite.
Affondammo i nostri cucchiai. In silenzio. Molte volte.
Mentre mi inebriavo di quella delizia, lo immaginavo in cucina appoggiato al tavolo che ascoltava il nostro silenzio sapendo di aver ottenuto quel che voleva. Sapeva di averci regalato quello che desideravamo, pur non sapendolo: una serata di sogno e verità.
Sbriciolai il caramello nel gelato mentre lui certamente godeva dell’averci rapito dalle nostre vite per tenerci in ostaggio nel suo mondo fatato.
Riprendemmo a parlare dopo il dessert.
Quando rientrò in sala, avevamo appena deciso di andare assieme a vedere Prince a Milano. I nostri rispettivi partner storcevano il naso davanti ai virtuosismi funky di quel geniaccio della musica nera che invece, scoprimmo quella sera, mandava un visibilio sia me che Isabella.
Roby sparecchiò e ci disse «È il momento del regalo».
Lo guardammo perplessi, «La cena è stata il più bel regalo che potessi farci!»
«C’è dell’altro. Cercate…»
«Dove?» chiesi.
«Davanti a voi.»
Davanti a noi non c’era nulla che assomigliasse a una scatola o a un pacchetto. Isabella alzò il suo calice e prese in mano il sottobicchiere. Lo girò. «A me piace regalare emozioni. Roberto». Era inciso sulla basetta di rame. Il mio era identico. «Bellissimo, grazie”, disse Isabella.
«È solo il biglietto. Cercate ancora.”
Non era rimasto davvero nulla, solo i vasetti di cristallo che contenevano gli iris.
«Ci regali il vasetto?», chiesi.
«No, quello è di mia madre. Ma ci sei abbastanza vicino.»
Afferrai il fiore. Spostai i suoi lunghi petali e capii: un taglierino affilato aveva aperto un nido nel pistillo e dentro c’era qualcosa.

Con dita ansiose sventrammo i nostri fantastici iris finché vennero alla luce due strepitose ametiste. Ovviamente gialla per me e porpora per Isabella.

lunedì 21 marzo 2016

In memoria delle studentesse Erasmus morte in Spagna.

13 studentesse sono morte, di cui 7 italiane, molte quelle ferite.
La tragedia del bus affollato di partecipanti all'Erasmus schiantatosi sull’autostrada spagnola mi strazia come exuniversitario, come europeista convinto, come padre.
13 i sogni e percorsi interrotti per sempre. Una perdita per tutti noi. Più grave e definitiva per chi le ha amate personalmente, profonda anche in chi - come noi - sul loro futuro appoggiva parte del proprio.  
I sorrisi delle ragazze, presi da qualche loro profilo social pensato per entrare in contatto e fare rete, dilagano sui media e ti tolgono il respiro interrompendo qualsiasi logica che avrebbe previsto un semestre di studio all’estero per arricchirne il bagaglio di conoscenze e iniziare a costruire quel tesoro di relazioni internazionali che è oggi la chiave di volta per ogni percorso professionale di qualità.

Ho appreso dell’esistenza dell’Erasmus nel 1989 quando nella mia università arrivarono alcuni studenti spagnoli organizzati in un progetto europeo ancora sconosciuto. A nessuno della mia facoltà era stato invece prospettato di parteciparvi perché era considerato “Una perdita di tempo utile solo a ritardare la laurea”. Me ne è dunque rimasto il rimpianto suffragato dalle decine di persone conosciute a cui l’Erasmus ha cambiato la vita, aperto la mente, dato opportunità, consentito di emanciparsi, di capire come in molti ambiti l’Italia sia poco più di un’isoletta e neppure delle più interessanti se non messa in relazione col resto del mondo.

L’Erasmus è di gran lunga l’iniziativa europea di maggior successo e con impatti maggiori sulla popolazione. Sono i soldi più ben spesi. Creano da decenni assieme uno spazio immenso di sviluppo e circolazione della conoscenza, abbattono pregiudizi nazionalisti, mettono a confronto idee e vite, danno senso allo spesso vuoto slogan “Europa dei popoli”. Gettano le basi per le future generazioni di europei.

Colpisce poi come tutte le vittime siano donne. Colpisce di meno se penso a come le donne rappresentino la maggioranza degli studenti universitari, specia tra quelli non fuori corso, e come spesso siano dotate di una maggiore capacità di comprensione della complessità, e di adattamento al cambiamento inteso anche come dimensione geopolitica e scientifica di rilievo. Economia, Medicina, Farmacia erano alcuni dei loro ambiti di studio, tutte scienze in piena trasformazione, in cui riesci se sei onnivoro di sapere e determinato negli obiettivi che ti poni, e se ami la vita nelle sue sfaccettature più serie e più ludiche.

Come padre non riesco a commentare: osservo mia figlia e trovo in me zero parole disponibili a riempire il vuoto.    


sabato 27 febbraio 2016

La Realtà Virtuale sta a Internet, come Internet sta al fax.

Mi ritengo un uomo tecnologicamente fortunato.
Ho partecipato attivamente all’avvento di Internet, fin dagli esordi. L'ho cavalcato, mi ha cambiato in meglio la vita. Mi consente di accedere a informazioni, persone e opportunità come mai è stato possibile nella storia. Mi ha permesso di lavorare da casa, impennando la mia produttività e dilatando il tempo che ho dedicato alla famiglia. Mi permette di proiettare la mia esistenza oltre i confini del corpo.
Per farlo con competenza, serenità e sicurezza il mio cervello ha sviluppato logiche e imparato a padroneggiare schemi e comportamenti nuovi. Credo che le tecnologie stiano generando una piccola mutazione della nostra specie. Ho ben presente come per altri Internet sia invece una nuova schiavitù, un abisso, una preoccupazione costante. La differenza, come sempre nelle rivoluzioni tecnologiche la fanno l’educazione, l'esperienza e l’etica.

Mi ero già abituato all’idea che questa interconnessione crescente si estendesse dalle persone agli oggetti (l’Internet delle cose); mi è chiara da tempo la rivoluzione della stampa 3D ormai in grado di riprodurre organi umani, cibo, case, auto.

Un’altra evoluzione della specie è però necessaria per accogliere la Realtà Virtuale (VR)
Mark Zuckemberg ha dichiarato la settimana scorsa: “La Realtà Virtuale stravolgerà le nostre vite e il modo in cui comunichiamo.” Poteva fin enfatizzare di più.

Ho il piacere di vederne abbastanza, di collaborare nel progettare format, di studiare le prassi che arrivano al mercato, occuparmene per lavoro con le applicazioni futuristiche dei geni di ETT alla valorizzazione dei beni culturali.
Dopo qualche mese di assaggi non ho difficoltà ad affermare come si tratti di un nuovo salto culturale, fisiologico, etico e morale. Alcuni di noi si adatteranno ancora, altri lo cavalcheranno, altri ancora lo useranno per fini nobili, altri aberranti. Nuove ricchezze, nuove povertà, nuove opportunità, nuove relazioni e nuove solitudini.

Per chi non ha presente l'argomento, premetto come la Realtà Virtuale stia a Internet come Internet sta al fax.
Per VR oggi si intende la fruizione di realtà simulate attraverso visori che danno la sensazione di essere in un altrove dove le cose accadono e con cui potete interagire. Mentre ne fruite i vostri sensi vi dicono che siete lì. Su questo si stanno investendo trilioni di dollari.

Gli editorialisti dei quotidiani vendono le mirabolanti possibilità della VR (peraltro tutte reali) come poter disporre di ambienti incredibili per il gioco, per operazioni chirurgiche a distanza, simulatori di volo, molte applicazioni educative, riabilitative. Si possono allenare la mente e i sensi, comunicare/giocare/lavorare ‘in presenza’ con altre persone ovunque nel mondo. Bellissimo e stupefacente.
L’alterazione percettiva è quasi totale. Sono prossimi i primi modelli in grado di farti interagire con la VR senza joypad ma con sensori spaziali posizionati nella stanza. Il mercato è pronto al lancio dei primi videogiochi di qualità. I costi scendono, i processori si specializzano per animare tutto questo in modo da renderlo sempre più credibile ai sensi.
La combinazione tra VR e tessuti intelligenti (in grado di simulare calore, pressione, vibrazione) sarà uno dei prossimi passi, così come lo sviluppo di ambienti collaborativi.
Il business vero sarà nel poter soddisfare bisogni ben più profondi. Ne ipotizzo alcuni:
  1. Potremo presto interagire con i nostri defunti avendoli davanti a noi, parlare con loro o passeggiare in un bosco. Ai programmi basterà avere qualche loro immagine, magari un campione della voce, poi rispondere a qualche centinaio di domande su carattere e caratteristiche della persona poi la tecnologa farà tutto il resto nel ricreare per noi.
  2. di certo prima di quella scadenza il porno irromperà  nella VR. Se il livello di immersività sarà anche solo la metà del prodotto di navigazione dentro il corpo umano che ho provato recentemente, prevedo una bomba vera e propria. Poi il sesso potrà essere incrociato con tessuti intelligenti e le stesse tecnologie di rievocazione delle persone reali dette prima, etc, etc
  3. Come nel bellissimo e visionario film Her (S. Jonze 2014), credo che per alcuni particolarmente deboli o soli sarà possibile arrivare a innamorarsi del proprio sistema operativo, non solo nelle sembianze della persona desiderata ma magari irraggiungibile, ma anche in quelle di una persona nuova progettata per essere ideale per noi.
  4. Sarà possibile passare tempo, suonare in una band, giocare a carte o altro, chiacchierare in salotto con persone reali che stanno altrove o  con i propri miti.
  5. Saremo a Disneyworld, così come a Petra o Las Vegas, nella tomba di Tutankhamon senza andarci. Non come degli spettatori di un superfilm ma stringeremo la mano a Topolino così come potremo sfiorare le colonne o puntare davvero alla roulette.
   

Coniugando sistemi che autoapprendono e VR, per molti sarà superfluo uscire di casa e il fenomeno che oggi riguarda già adolescenti drogati dai videogiochi si potrebbe diffondere a molti. Per tante ragioni diverse credo che sarà difficile per molti evitare la dipendenza da applicazioni simili, che coprono bisogni e sogni per tutte le età della vita.

Abbiamo tempo per educare noi stessi e i nostri figli a un uso virtuoso di questi strumenti, per migliorare la vita e non per dotarsi di una vita migliorata artificialmente. Se non ci toglieremo più la maschera VR sarà solo perché riterremo la nostra vita non abbastanza ricca, condizione in cui prima o poi passiamo tutti, e preferiremo passare il suo comando a palinsesti artificiali. 
Ovviamente più povera è la vita, più sarà necessaria la droga, o il visore che sia.

La nostra vita di comunità, l’educazione, la cultura, l'etica dei progettisti saranno cruciali per farci usare la VR come una vera opportunità evolutiva.

sabato 30 gennaio 2016

Ero al Family Day '16 al Circo Massimo: ve lo racconto, purtroppo.

Lo ammetto, mi preoccupa essere qui a scrivere un post sul Family Day Circo Massimo 2016. Ci sono stato, ho osservato, ascoltato, parlato con alcuni per sentire le loro argomentazioni. Ho passeggiato a lungo per il Circo Massimo, un po' attonito e sempre più preoccupato per la deriva neo-neo fascista che questa cosa sta prendendo andando a raccogliere i brandelli di una destra vuota se senza nemici e di una Chiesa impaurita dal Papa e dal futuro.
Il colpo d'occhio della conca del Circo Massimo era notevole. Facevano bella figura, posizionati a metà dello spazio le falangi della destra sempre più organizzata, con le loro bandiere italiche e i manifesti con font runici. Poi, qui e là, c'erano tutti i movimenti fondamentalisti cattolici, qualche residuo di Comunione e Liberazione e alcune sigle inquietanti tipo Alleanza Cattolica a cui mancavano solo le croci uncinate. Poi dal palco è partita “Mamma son tanto felice” cantata dal vivo con musichetta così fascisteggiante che ti aspettavi fosse seguita da “Faccetta nera”, che molti dei presenti avrebbero di certo gradito.

Sono rimasto ammirato per la perfetta organizzazione. Truppe arrivate con pizza e mortazza dagli  oratori della cintura romana. Tanti bambini e gruppi parrocchiali, portati lì come truppe cammellate, perlopiù bloccati sui loro cellulari, poveracci (non per i cellulari). Moltissimo Veneto, impressionante davvero. Mi hanno profondamente indignato i gonfaloni regionali come quello della mia Liguria che chiarivano bene come per un 10% dei presenti quella lì fosse solo carne da voto a cui non dover rendere conto delle proprie abitudini sessuali e familiari ma solo da tranquillizzare contro nemici inesistenti. E mentre io giravo, loro urlavano forte “Questa è la vera piazza: le altre sono artificiali, create dai media.
Nell’aria risuonavano decise frasi come “Combatteremo fino all’ultimo!”, “Siamo qui a sguainare la spada di Chesterton!”; “Noi i figli li facciamo e per questo vinceremo! E la civiltà vincerà in Italia, e dall’Italia in tutta Europa”; “Chi tocca l’anima dei bambini instillandogli idee sessuali contro natura ne risponderà a Tribunale degli Innocenti”; “Difendiamo i nostri figli!” (senza mai chiarire bene da che o da chi, a parte che dalle loro paure); "L'Italia è sempre stata avanti nei diritti civili e ha depenalizzato l'omosessualità nel 1866" (Mussolini, si sa, ha mandato gli omosessuali ai campi di concetramento in pieno Medio Evo).

mercoledì 27 gennaio 2016

Vi anticipo il mio intervento di 180 secondi al RomaPuoiDirloForte

Oggi 28 gennaio, in Galleria Alberto Sordi sono invitato a portare la mia briciolina di idee al prossimo governo di Roma. Ho 180 secondi, sono pochissimi e sfidanti. L'iniziativa si chiama Roma puoi dirlo Forte! 
Questo intervento è stato costruito anche grazie a due giorni di crowdsourcing di idee sui social network. Strumenti come questi potrebbero supportare un’amministrazione capace di ascoltare.

Nel giorno in cui mi hanno invitato a intervenire, sotto il ponte della stazione Tuscolana sono apparse delle belle righe per delimitare la corsia riservata alla bici: le hanno fatte i cittadini. Andatele a vedere, sono meglio delle opere di Bansky. E' illegale farsi le righe? Possiamo discuterne... Perché i cittadini sanno cos’è la mobilità e se volessimo davvero risolvere il problema avrebbero mille contributi da dare.
Da qui la prima parola che porto alla vostra attenzione è MANUTENZIONE.

Amministrare una città significa fare Manutenzione, di tutto: delle infrastrutture materiali e immateriali, dei diritti, dei doveri, delle competenze, dell'organizzazione, della memoria. Manutenzione è rilevare i cambiamenti per un adeguamento tempestivo ad essi. La manutenzione fa funzionare il presente. È un obiettivo di minima, necessario, invocato dalle liste civiche, dai 5 Stelle, è il #torneràpulita di Storace, tutti sicuri che sia la risposta a chi ormai dalla politica non si aspetta niente di più.
La manutenzione da fare non ‘per’ i cittadini ma ‘con’ essi. Vediamo tutti come i Retaker stanno ridefinendo il concetto di cittadinanza attiva, i tanti gruppi efficaci nell’aiutare i migranti, che tengono aperte biblioteche o puliscono parchi. Non sono tappabuchi, sono cittadini impegnati e hanno molto da dire a chi sa ascoltare.

A me però un presente migliore non basta, voglio vivere in una città che guardi al futuro e credo che la politica abbia anche l’imperativo morale di sostenere INNOVAZIONE.
L’Innovazione non può essere imposta. Non si può dire a nessuno INNOVA!
Il Comune deve favorirla, semplificare la vita a chi la fa, liberare spazi per imprese e coworking, dare chance anche a chi ha fallito. Occorre coraggio, perché non ci può essere innovazione senza il fallimento. Occorre saper ascoltare per decidere. L’innovazione si fonda sulla diversità, è mettere a proprio agio i diversi, e questo deve essere un impegno di un Comune che guarda al mondo.

Da un punto di vista sistemico è interessante il modello della Cabina di Regia su Fondi EU della Regione. Il Comune è ora organismo intermedio per la gestione dei Fondi strutturali regionali, 260 milioni in 7 anni, occorre evitare i progettini e creare un ecosistema favorevole all’innovazione.
Ho chiesto all’assessore di Bologna come ha fatto a varare il Regolamento diPartecipazione per la Cura e la Rigenerazione dei Beni Comuni che ha ripensato i rapporti tra comune e cittadini attivi. Mi ha detto che la pressione dall’interno era tale che non poteva sottrarsi ad ascoltare l’esterno. Perché nessuna pressione 'da sotto' sarà ascoltata come quella dei dipendenti comunali che sono cittadini e sognano, riciclano, consumano, partecipano a social street, vanno in bici, hanno figli che non vogliono emigrare per trovare lavoro. ASCOLTO è dunque l’ultima parola che mi sta a cuore.

Se Roma sarà un bel posto dove vivere, nessuno la batterà come posto dove lavorare, viaggiare, ritornare… io vorrei che il medico mi dicesse che devo andare una volta all’anno a Parigi o Londra, invece quando invito gli amici qui rispondono “Sono già venuto 5 anni fa”.

Cosa sposta la prospettiva? I murales a Tor Marancia e a Furio Camillo. I festival del Cinema, le proiezioni a Via dei Fori, la Maker Faire, le mostre. E poi le persone e le imprese che si fidano del territorio perché il territorio si fida di loro, anche se non ancora della politica.

(Alla fine i secondi sono stati meno di 100 e il mio intervento è venuto fuori così )


lunedì 25 gennaio 2016

Quando 'partire' si coniuga al futuro imperfetto (caso 13)

Sabato pomeriggio c’è stata la festa per la partenza di Vittoria.
Vittoria ha 9 anni e va negli Stati Uniti, da qualche parte sulla costa Est. Abbiamo organizzato la festa per tutta la classe, perché i bambini si salutassero come si deve dopo tre anni passati assieme sui banchi.
È la terza compagna che lascia la classe in due anni perché i genitori in Italia non riuscivano a far quadrare i conti. Vittoria in USA ha dei parenti, il padre si lancia nella ristorazione, la casa si trova, l’azienda si apre in una settimana, se sei bravo i soldi sbucano fuori. E anche se non fosse esattamente così, occorre crederlo per trovare lo slancio.
All'età di 9 anni non vi è la cognizione del tempo e il ‘partire’ è solo un verbo della terza declinazione. Per i bambini gli Stati Uniti valgono Bologna o un quartiere qualsiasi della nostra grande città. Si salutano come ogni giorno perché è normale che gli amici si rivedano. Noi sappiamo che sarà difficile, se non impossibile però non glielo chiariamo, è come dirgli che Babbo Natale non passerà più.

Per un po’ circoleranno foto e auguri di buon compleanno, dalla prossima festa di Carnevale ci collegheremo via Skype e con un megaselfie. Forse tra un paio di anni Vittoria tornerà per le vacanze e andrà a fare un saluto agli ex compagni che stenteranno prima a riconoscerla, poi annulleranno in un attimo la distanza dei chilometri e degli anni di separazione, infine scopriranno come ci sia qualcosa di diverso se sei cresciuto di dieci centimetri e ti mancano esperienze condivise.
Intanto noi genitori guardiamo Pietro e Serena, i genitori di Vittoria, e ci immaginiamo nei loro panni perché in parte li vestiamo tutti i giorni. Vestiamo la stessa difficoltà a far quadrare i conti col presente, le ansie legate a decisioni importanti da prendere, le acrobazie nell’immaginare il futuro dei bambini al punto a volte da volerlo negare.

Mentre ci stringono le mani raccomandandosi di chiedergli l’amicizia su Facebook li accompagniamo col cuore, perché desideriamo come loro di rimanere e comprendiamo le ragioni del partire. 
Abbiamo forse qualche ragione in più per stare, qualche euro di più in tasca, qualche peso di più nella testa.

Però vogliamo davvero tutti che sulla East Coast ci sia almeno il sapore di quello che qui non potevano avere.


giovedì 21 gennaio 2016

Ettore Scola, quando presiedeva la Giuria di cui facevo parte alla Festa del Cinema di Roma

È stata senza ombra di dubbio una delle più sensazionali settimane della mia vita.
Il Comune aveva lanciato un bando pubblico per costituire la giuria del 1° Festa del Cinema di Roma. Si trattava di vedere e commentare 8 film. Partecipammo in più di 3000. Venimmo preselezionati in circa 300. A gruppi di 30 alla volta fummo convocati per un colloquio collettivo con giochi di ruolo.
Lì incontrai per la prima volta Ettore Scola. Ci accolse uno per uno, assistette curioso ai nostri tentativi impacciati di passare la selezione. Osservava e prendeva appunti con i suoi assistenti.
Poche settimane dopo ricevetti la notizia: ero tra i 50 prescelti.
All’epoca dirigevo un’azienda piuttosto grossa e rampante. Faticai abbastanza a ottenere una settimana di  ferie in novembre. Poi il circo ebbe inizio.

Ci muovevamo sempre in gruppo per 12 ore al giorno. Tre-quattro proiezioni, più le riunioni di giuria per stabilire i criteri e votare. Spesso raggiungevamo le conferenze stampa con gli attori, ci perdevamo in interminabili discussioni tra di noi. Sì, ogni accesso al mondo esterno era precluso, incluso giornalisti e familiari.
Ettore Scola era con noi, sempre col polso della situazione, carino quando poteva esserlo, fermo quando le ambizioni cinefile di qualcuno soverchiavano la logica o le regole della buona educazione. Indagava i nostri punti di vista e misurava curioso la distanza che ci separava, come generazioni, culture, punti di vista.
Ci furono due incidenti gravi in giuria (un piede e un braccio rotti), varie influenze anche serie (incluso io), ma nessuno mollava. I feriti ritornarono ingessati dopo poche ore all’ospedale e la Tachipirina scorreva a fiumi e giorno dopo giorno la convinzione di essere fortunati di sommava alla responsabilità dell’essere giusti e concentrati.

Gli aneddoti sarebbero mille, inclusa la cena notturna al Bioparco riservata alla giuria, dopo la visita alle tigri. Ricordo una bella discussione con Veltroni-cinefilo, l'incontro imbarazzato con la bella attrice francese che pochi minuti prima avevo visto sullo schermo in posizioni ginecologiche, l'orchestra di Santa Cecilia che suona il motivo di Star Wars, il silenzio di tutti quando in sala faceva buio. 

Dal giovedì pomeriggio cominciò a montare la tensione legata all’assegnazione dei premi. Lì fu chiaro che tra la maggioranza dei giurati e Scola c’era pochissima identità di vedute. E si discusse, allo sfinimento, fino a dover chiedere alla sicurezza di rimanere oltre l’orario di chiusura dell’Auditorium. Andammo a oltranza per ore. 

Solo la discussione per il premio alla Miglior Attrice trovò tutti concordi: erano tutte scarse e votammo la meno peggio in pochi minuti.

Di Scola porto con me un insegnamento di assertività e autorevolezza assieme che ho sempre presente quando devo gestire dei gruppi. Ancora ricordo la sua attenzione al risultato, rispettando ogni pensiero di noi pischelli, onorando allo stesso tempo la sua esperienza e l’incarico.  
Votammo dunque convinti lo Shakespeare in chiave  russa Izobrajaya Zhertvy di Kirill Serebrennikov (credo mai uscito in Italia) inventammo un premio speciale della Giuria a This Is England di Shane Meadows che uscì dopo molti anni e che trovò doppia giustizia nella bella serie prodotta in questi anni. Premiammo poi Giorgio Colangeli come miglior attore per L'aria Salata di Alessandro Angelini dando visibilità a un grande attore. 
Facemmo quello che nessuno di noi 50 avrebbe mai pensato di fare nella vita e lo facemmo, con sicurezza e passione, accompagnati da Ettore Scola.

martedì 12 gennaio 2016

Leggere senza genere né generi.

Il caso monta poco prima di natale dopo l’incauta affermazione del direttore della libreria La Feltrinelli di Bologna riassumibile in “Non leggo libri scritti da donne”.
Era comunque già da tempo che anche come autore mi confrontavo con le questioni di genere legate all’editoria.

Il mio romanzo tratta di un uomo lasciato da una donna all’improvviso. Di lei sappiamo poco. Forse si è stufata, dei due è la più coraggiosa, non ha un amante, e di lei non vi racconto molto altro perché mi interessa seguire la storia di lui, che è il protagonista.

Il manoscritto ha ricevuto per oltre due anni molti apprezzamenti dagli editor e simmetrici lapidari commenti dagli uffici marketing. 
Una sintesi delle risposte ricevute è:
  • Trovati un editore piccolo stavolta, perchè la narrativa è letta al 70% da donne, gli uomini rappresentano il 70% dei lettori di saggi e biografie. Sappilo. (per inciso, il libro va verso la seconda edizione, con soddisfazione mia e dell'editore che ha investito)
  • Tutti cercano in quello che leggono conferme e evasione, non si vuole essere messi in discussione. La storia di un uomo lasciato all’improvviso dalla moglie ‘solo’ perché lei è cambiata e lui no spaventa le lettrici che difficilmente accettano la sfida perchè hanno difficoltà nell'empatizzare sia con con lui che con lei. Passerebbe forse se l’autore fosse donna ma non uomo come te.
  • Questo vale anche al cinema: pensaci, sono pochi i film in cui lui rimane solo (tipicamente vedovo perché nessuna lascia Raul Bova o Alessandro Gassman) e poi comunque si rifà una vita con un’altra donna e non immaginando la vita in montagna con venti vacche  

Ero già dunque turbato da queste schematizzazioni quando il direttore di Feltrinelli Bologna ha detto la sua. Stufo marcio di semplificazioni, come immagino altri, ho fatto mente locale alla mia libreria e al mio passato da lettore.

Leggere, così come frequentare, le donne mi è sempre sembrato il modo migliore per avere un punto di vista non scontato né accondiscendente sulle mie azioni e sugli interrogativi che mi pongo.
Nell’adolescenza mi ha illuminato la narrativa giornalistica di Oriana Fallaci, il suo sguardo al mondo. Ciò è culminato con la scelta di portare “Un Uomo” alla maturità contro il volere della prof che si era illusa che i miei apprezzamenti per Svevo me lo facessero scegliere. Alice Sebold e il suo “Amabili resti” ha avuto un ruolo di forte ispirazione, direi di insegnamento, per il mio “Il Donatore”. Le “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar è dentro di me quando devo dare il senso a termini come ‘amore’, ‘bellezza’, ‘potenza’, o materializzare i rapporti tra generazioni.
Nel 1999 viaggiando da solo in Nuova Zelanda ho comprato un libro che pareva di discreto successo nelle librerie locali, mai visto in Italia. Mi fulminò per intelligenza, bellezza e gusto per la lingua. Tornato in Italia lo suggerii agli occhi più attenti e curiosi. Si trattava di “Harry Potter and the Philosopher’s Stone” di tale J.R.Rowling il cui sesso a quel tempo mi era sconosciuto.
In me c’è poi Amelie Nothomb e la sua “Metafisica dei tubi”, Jhumpa Lahiri e il suo “L’Omonimo”, e la Allende. In Italia adoro l’intelligenza di Valeria Parrella e la modernità di Michela Murgia.
E' poco, lo so. So di avere lacune infinite. 
Alcuni anni fa mi sono imposto di leggere i classici del ‘900 e ne ho provato soddisfazioni infinite. In questi giorni mi sono convinto che il 2016 diventerà l’anno in cui molte nuove autrici entreranno nei miei pensieri.   

Sono tra quelli che ancora i libri li compra, nuovi e di carta (perché è giusto, perché l’editoria deve vivere, perché sono feticista e altro). Visti i prezzi, sono dunque un po’ spiazzato davanti a un’offerta drogata dal marketing e dall’effetto Che Tempo Che Fa. Non ho dubbi nell’avvicinarmi alla Morrison o alla Munro, parecchi con altri autori e autrici.

Dopo questo impegno pubblico, accetto suggerimenti e opinioni in merito. Ne faccio tesoro e magari poi li giro al direttore della Feltrinelli di Bologna