Scopro adesso che si chiamava Ponte Morandi, per me è sempre
stato il Ponte della Nonna Angela.
Sotto le enormi campate c’è tuttora un quartiere di case
popolari in larga parte destinate ai ferrovieri emigrati dal sud, arrivati
negli anni ’40. Come i miei nonni, appunto. In quei 70 metri quadri hanno
vissuto per 50 anni e i loro 13 figli hanno costruito le basi della vita al
nord.
Me lo ricordo fin da piccolo. Saprei disegnarlo a occhi chiusi.
Si vedeva da lontanissimo e avvicinandosi a piedi avevi modo di capire quanto
fosse fuori misura ed imponente. Per me era come la presenza preistorica di una civiltà
aliena, altissimo sopra le case, espressione di uno stile architettonico particolare.
Unico nel suo genere. Forse bellissimo. Di certo l’orgoglio del quartiere e
della città.
Era la forma più particolare e maestosa che avessi mai visto:
nella mia classifica di bambino si giocava il primato solo con le linee della Michelangelo e della Raffaello, transatlantici di bellezza
assoluta, miti dello stesso periodo storico. Per me era il design, la simmetria, la forza della bellezza al servizio dell’uomo.
Crescere lì, a pochi metri, attraversarlo sopra e sotto migliaia di volte, per lavoro, per andare al mare, a trovare amici, in Francia, sulle Alpi, all’aeroporto,
dagli zii, dalla mia amica Pina, ha significato per molti (per me) trasformarlo in una icona del quotidiano. Era un vero simbolo. Cento volte
più presente, possente e significativo dell'irraggiungibile Lanterna.
Era da sempre in manutenzione, ristrutturazione o quello che
volete. Bastava avere un amico nel settore per sentirsi dire “E’ fatto in calcestruzzo precompresso, non
resiste. Va continuamente sistemato. È più complicato tenerlo su di come
sia stato costruirlo.” Siccome sono un positivista ho sempre pensato che tutto
fosse sotto controllo. Mi sbagliavo.
E ora? Voi che non
siete di Genova, non potete capire la domanda. È caduto un ponte, suvvia…
No, è stata tagliata
l’aorta della città, la strada che rendeva possibile attraversarla,
collegarla con i mercati, portare i turisti, muovere la vita. Il ponte è caduto
sulla ferrovia che porta le merci da/per il porto che rischia di strozzarsi e
di perdere in un attimo il ruolo che verrà in pochi giorni ridistribuito in
Italia e all’estero. Se una città non si
muove perde qualsiasi ruolo e opportunità.
Metteteci pure che Genova non è servita dall’Alta Velocità,
ha un aeroporto che non è mai decollato, indicatori della qualità della vita
molto peggiori del resto del nord, un continuo saldo negativo degli abitanti, è gestita senza idee da molti anni, la principale banca è a pezzi, ha un territorio devastato da anni di incuria, ecco che la sfida diventa
epocale. Genova non può farcela da sola.
Ci sono tantissimi talenti, energie capaci di affrontare
anche questa, di farsi forza. Ci sono imprenditori validi che guardano all’Italia
e ai mercato mondiali. Molti di loro non hanno ragioni di rimanervi se non
quelle affettive e di legame con territorio. Se questo disastro non ha anche l’effetto
di un elettrochoc allora davvero la fuga di tutto quello che ancora si muove
rischia di diventare inevitabile. Invece
la città deve diventare attrattiva, per chi studia, chi lavora, chi
viaggia, chi cerca un posto diverso da ogni altro. Attrarre per evolvere, per innovare, per non spegnersi.
Che il ponte vada ricostruito subito è indubbio. In questi 3-4 anni sarà imperativo ripensare il rapporto tra città-abitanti-territorio. Che quest’elettrochoc attraversi l’Università,
le categorie, i molti immigrati, i zeneizi
doc, chi ha il materasso infarcito di euro e chi porta in dote solo le braccia,
fino a chi fino oggi si stava chiedendo la ragione vera dell’essere proprio lì
ora. Stop al mugugno.
Questa non è un’alluvione
in cui con fatica tremenda si cerca di riportare le cose a come erano prima.
Questo è un punto di non ritorno.
In un sera così dolente mi permetto di essere ancora
positivo: Genova ce la può fare, Genova non deve crollare.