Molti applicano schemi totalmente
differenti da quelli del qualunquismo o dal semplicismo delle inchieste di molti media. Viene fuori con forza una crescente voglia di assumersi le proprie
responsabilità unita però alla demotivazione legata alla solitudine.
In tanti vorrebbero, ad esempio, fare la raccolta differenziata, usare la bicicletta, scambiare il proprio tempo, privilegiare i negozi di quartiere, partecipare alla vita sociale e culturale, interagire in modo differente, intelligente e costruttivo con i turisti piuttosto che con gli immigrati o i fuorisede. Ma in pochi lo fanno. Dicono di non saperlo fare, che si sentono soli, non si sentono sicuri. Lo farebbero, se ciascuno facesse la propria parte.
In tanti vorrebbero, ad esempio, fare la raccolta differenziata, usare la bicicletta, scambiare il proprio tempo, privilegiare i negozi di quartiere, partecipare alla vita sociale e culturale, interagire in modo differente, intelligente e costruttivo con i turisti piuttosto che con gli immigrati o i fuorisede. Ma in pochi lo fanno. Dicono di non saperlo fare, che si sentono soli, non si sentono sicuri. Lo farebbero, se ciascuno facesse la propria parte.
Percepisco questo desiderio, la voglia di non sentirsi soli in
un’opera di ricostruzione dei valori della socialità da moltissimi ritengono necessaria, e l’intuizione che necessario collaborare. Già, perché esiste una intelligenza collettiva che contiene le
risposte al disagio e a molti degli effetti della crisi. Risposte e soluzioni però che
sono frammentate nelle esperienze e nei contributi dei singoli.
Ecco, grazie alle storie di molti mi sto convincendo come nella
modernità liquida in cui la certezza del tempo indeterminato non è più nelle
relazioni, come nei lavori, e neppure nei mobili o nelle idee, un ruolo nuovo richiesto alla politica sia quello di facilitare i processi di collaborazione tra
persone (e tra istituzioni, e tra imprese, ...). Intendo dire immaginare luoghi che siano per vocazione destinati a
creare socialità. Parlo sia di luoghi
fisici, spazi pubblici dove non si sia “destinatari di servizi” o “utenti”
ma co-progettisti e protagonisti di scambi di idee, talenti, tempo. Che spazi virtuali, e dunque piattaforme on line dove condividere e/o scambiare tempo, talento,
libri, auto, spazi verdi, parcheggi, attrezzature, ricette, consigli medici,
camere sfitte, libri, energia pulita. Tutto per mettere a contatto persone che si
scoprono affini, magari anche grazie ai facilitatori che includano i più deboli, che
spingano al dialogo tra generazioni e tra generi, che sorveglino il rispetto
della legalità e dei valori democratici e della libertà di espressione. Un
dialogo anche mirato a comprendere i problemi, raccogliere segnalazioni, sviluppare
soluzioni, indicare percorsi a chi amministra.
Credo che siamo chiamati a un grosso salto di qualità nelle
modalità del vivere collettivo con l’individuazione di nuovi modelli di
relazione che funzionino in un tessuto urbano complesso.
Sono cose che nel mondo, quello che va a velocità ben più
rapide della nostra si fanno da tempo. Molte soluzioni sono lì, e le vede chi viaggia,
chi fa l’Erasmus, che anche solo passa un weekend a Parigi, Londra o Vienna, luoghi che cambiano perché cambiano i
comportamenti dei cittadini. Nel mio piccolo, sono ancora turbato dalla scelta di Shangai,
definitasi Sharing City individuando 20 ambiti nei quali la collaborazione tra
cittadini ridefinisca l’economia. Un approccio questo che fa sembrare il concetto di
Smart City, tanto sbandierato, già obsoleto e utile solo a riempire qualche convegno
finanziato con soldi pubblici.
So bene che siamo in Italia, nel 2013, e non mi illudo
che il senso civico, il rispetto delle regole, o l’amore per il prossimo muovano le masse verso la tutela
del bene comune o – meglio ancora – nella messa in comune. Il senso civico è
stato massacrato da decenni di irresponsabilità istituzionalizzata e – tolto l’omicidio
– ogni reato contro la collettività è depenalizzato nei fatti dal “tanto lo
fanno tutti”. L’Italia non può improvvisamente scoprirsi virtuosa. Ma questo nuovo coinvolgimento si può
generare educandoci. Magari non più con le trite campagne di informazione e sensibilizzazione ma con processi di experience design e gamification
e vedrete che funziona. Lo so, pare surreale far provare alle persone "quanto è emozionante fare qualcosa di utile" ma è ormai una via necessaria.
Immagino anche ad esempio incentivi alla partecipazione collettiva, come ingressi gratuiti musei o eventi, campagne di fidelizzazione, omaggi da sponsor, questo per chi suggerisce soluzioni, segnala inefficienze, presta il suo tempo, partecipa, si iscrive, ragiona, scambia, per il bene della Società. Verso una Società per Buone Azioni.