Fummo subito fuori. Mia mamma mi guidava in avanti con la
mano sulla cartella, quasi a dirigermi, per non perdere il contatto. Superammo velocemente il vicoletto buio che costeggia
la scuola. Lei si guardava intorno, tesa. “Cosa è successo?” riuscii alla fine
a chiederle. “Hanno rapito il Presidente e ucciso gli uomini della sua scorta”. Il
cielo era grigio, stropicciato dal vento, era strano essere lì in una giornata feriale a quell'ora, e a me la cosa successa sembrava una
enormità. Pistole, morti, il Presidente sempre serio e in bianco e nero visto in televisione. Le fui subito grato della verità. Ma di cosa aveva paura la mamma? Di cosa
avevano paura tutti? Perché avevano paura i grandi? Del colpo di stato, questo però lo capii
col tempo. Stava succedendo una cosa talmente enorme che nessuno in Italia sapeva cosa
sarebbe successo dopo. Neppure chi lo aveva rapito. Neppure chi lo avrebbe
cercato. Né chi non lo avrebbe cercato. Forse solo lui sapeva da subito che poi, il 9
maggio sarebbe arrivato. Lui che era intelligente, forse uno dei pochi politici della nostra storia guidato da una strategia e non dalla tattica meschina del potere quotidiano.
L’anno dopo, facevo la terza, mentre camminavo verso la
stessa scuola, sentii le raffiche dei mitra. Accelerai il passo. Sparavano nel bar a cinquanta metri
da me e i due carabinieri Battaglini e Tosa venivano massacrati dalla stessa
furia inutile e cieca mentre facevano colazione. Nello stesso periodo, l’ingegner Bonzani, papà simpatico di miei carissimi amici fu gambizzato a
cinquecento metri da lì. All’inizio del ’79 fu ucciso Guido Rossa,
un militante del Pci convinto fino in fondo della decisa opposizione del partito alle BR e alla loro linea, che denunciò un attivista che faceva volantinaggio a cinque punte in fabbrica e diede così una lezione di coraggio e eroismo all'Italia intera.
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