L’Economia
Collaborativa non è più terreno di collaborazione quando la corsa al posizionamento
dei suoi attori istituzionali scatena gomitate nella competizione per l’accesso
ai nuovi fondi disponibili.
Non mi stupisco, non mi scandalizzo, disperde energie ma lo trovo fisiologico ma
non riesco a esimermi dal commentarlo.
Chi sarebbero poi questi ‘Attori Istituzionali’ deputati a rappresentare la Sharing Economy? Qui viene il bello, pur non esistendo in
natura nascono in questi giorni come funghi, uno dopo l’altro.
La filosofia alla base dell’innovazione sociale e
dell’economia collaborativa porta soluzioni sostenibili a
problemi concreti; soluzioni spesso diverse come sono diversi i territori e le
comunità; esperienze dove il ‘fare’ vinca sempre sul ‘teorizzare’ e sul ‘mettere
a sistema’.
Personalmente, nel 2011 ho cominciato a realizzare come la
crisi stesse cambiando le persone e il loro ordine di valori e priorità e come l’unica
via per uno sviluppo sostenibile sul lungo periodo fosse quella di perseguire strategie fondate sull’Innovazione Sociale in cui collaborazione e
partecipazione creassero valore per i business come per i territori. Passavo ore
nello studio dei casi, di riflessione sulle prime stentate applicazioni dell’idea.
Poi alcuni amici mi hanno coinvolto nell’esperienza concreta dell'avvio di Impact Hub Roma che mi ha messo in contatto con
nuovi modelli organizzativi, finanziari, produttivi sempre più aperti allo
scambio e all’innovazione.
Ho nel frattempo sperimentato la forza di logiche social e partecipative nelle mie
attività quotidiane. Ho imparato sulla mia pelle che le ‘buone
prassi’ non significano quasi nulla e che è importante invece coccolare e
alimentare i ‘segnali deboli’ che arrivano.
L’impatto più forte che tutto ciò è stato sul mio lavoro, quello di sviluppo di progettazione di servizi per l’occupabilità e per lo sviluppo locale, ambiti che ho reindirizzato
in una nuova prospettiva.
Ancora fino all’anno scorso ai rari eventi in materia di Economia Collaborativa, come la Smart City Exibition o la Oui Share Fest, cercavo segnali utili a ripensare il mio intervento e tra i pochi presenti con fatica si cercava
di separare la lana dalla seta, la CSR dalla creazione di valore condiviso, il
marketing dall’innovazione, costruendo anche una terminologia comune.
Da pochi mesi il fenomeno è esploso ed è un
proliferare di eventi e convegni con panel professionali dove in migliaia vagano tra la ricerca
dell’illuminazione e quella dell’informazione.
Tutto è diventato Social
Innovation e centinaia di persone e organizzazioni ti dicono che “loro la fanno da sempre” e che
la loro è più “Innovation” di quella degli altri. Ci si accapiglia per decidere
se quello che fanno gli altri è Sharing Economy o solo una furbata.
C’è già chi
è sul mercato per vendere a qualche migliaio di euro qualche “metodo” per fare
innovazione sociale, chi promuove percorsi di cambiamento in 5 o 7 fasi che ricordano la fuffologia organizzata de La
Profezia di Celestino. Dilagano i Summer Camp con le loro irritualità postideologiche
organizzate che già sanno di nuovo conformismo.
I casi concreti, i successi e gli insuccessi reali latitano (o sono sempre gli stessi) e ho la sensazione che la loro iper
esposizione mediatica rischi più che mai di soffocarli nella culla.
Ci sono poche idee in giro, poco coraggio e poca possibilità di pensare in grande. Nessuno misura impatti e sostenibilità delle azioni, nessuno protegge le creature neonate dalla furia dei monopolisti.
Ci sono poche idee in giro, poco coraggio e poca possibilità di pensare in grande. Nessuno misura impatti e sostenibilità delle azioni, nessuno protegge le creature neonate dalla furia dei monopolisti.
I casi di vero successo non
hanno forza per comunicarsi e chi ha denaro o contatti si accredita comunicando fumo al
sapore di futuro.
Per anni ho combattuto contro il “Modello danese” dei servizi
per impiego ritenendolo impraticabile in Italia e già mi trovo a storcere il
naso davanti a quello olandese sulla Sharing Economy (ma anche quello milanese
o bolognese che perdono significato altrove).
Nessuno è però impazzito, il fenomeno è noto: è semplicemente nato un mercato.
Detto fuori metafora: ci sarà un botto di soldi su questi temi, soprattutto denari pubblici.
Detto fuori metafora: ci sarà un botto di soldi su questi temi, soprattutto denari pubblici.
I
nuovi Fondi Strutturali presto a disposizione dei territori contengono una litania di termini come ‘Spazi di coworking’, ‘Innovazione sociale per i territori’, ‘Tecnologie abilitanti’, ‘Co design dei servizi’ messi lì da
consulenti e pochi funzionari illuminati per dare sapore ai Programmi Operativi
ma col rischio di rimanere etichette senza conseguenze reali. Non mi stupirei se da domani il prefisso ‘Smart’
venisse associato anche alle slot machine e ai corsi di tango.
Si tratta centinaia di milioni di Euro per i prossimi anni, su
tutto il territorio e dunque il mercato spinge chi fino a ieri ha fatto corsi per
estetiste o web designer a virare su qualcosa tipo ‘Social Innovation Empowerment and Strategic Thinking’ di
fantozziana memoria. Le società di consulenza turbocapitaliste riscopriranno il valore della famiglia o dell'usignolo palustre. Chi ha fatto cucine le farà ‘Smart’, chi ha gestito balere per anziani le renderà ‘attività resilienti’, le Pro Loco si
chiameranno ‘Living Lab’, ignari NEET
si baloccheranno col mito delle Start Up
fino a finire tra le grinfie degli strozzini e nel frattempo tre quarti della
saggistica si contenderà nel titolo la parola ‘comunità’ o ‘collaborazione’
per descrivere un mondo piccolo e troppo autoreferente.
Paradossalmente una
destinazione del denaro fortemente etichettata nel senso della Sharing Economy
o della Social Innovation diventa facilmente fattore di rallentamento del processo di
cambiamento e porta alla creazione di ‘riserve di caccia’ che già si stanno ben
delineando.
Sento parlare già di professioni della Sharing Economy come
se questa dovesse per forza crearne (perlopiù le distrugge perché diminuire il
consumo di risorse farà scendere il lavoro ben retribuito. Tuttavia si crea altro:
valore sociale, relazioni, nuovi rapporti tra generazioni).
Mi pare che le
uniche professioni nuove che si vedono in giro sono quelle degli ‘Evangelizzatori dell’Economia Collaborativa’.
Questa spinta all’istituzionalizzazione mal si adatta alla
natura poliforme di un approccio al mondo fatto di collaborazione tra pari.
È
pericoloso etichettare o etichettarsi come “Quelli che…” fanno Innovazione
Sociale o Economia Collaborativa ma manterrei le vecchie categorie di Artigiani,
Produttori, Amministrazioni Pubbliche, Clienti, Contadini, Politici, Educatori, etc… piuttosto c’è da
ragionare sul nostro modo di interpretare la relazione col mercato e con le
risorse, il nostro senso di responsabilità, la nostra attitudine alla
sperimentazione e alla collaborazione.
Per hanno in Europa hanno provato a sviluppare l'Industria Creativa e Cuturale e ora stanno facendo una virata totale e parlano di spillover, di contaminazione verso gli altri settori e non di un settore a parte. La vedo come unica via efficace anche per l'Economia Collaborativa.
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