Ci sono delle possibilità teoriche che quando si verificano
mettono in discussione i fondamenti del pensiero.
Non so voi ma io ho dei luoghi dove non vado e non andrei
per una forma di obiezione passiva a quello che lì succede. Sono ben conscio
che di paradisi in terra non ne esistano e che l’Italia è l’ultimo posto a
qualificarsi come tale, tuttavia ci sono contesti dove l’ingiustizia è talmente
istituzionale e conclamata che anche il solo fatto di recarmici come turista mi
darebbe disagio e imbarazzo, quasi fosse una connivenza con chi quel sistema
organizza e da quel sistema si arricchisce.
Questo valeva, ad esempio, per il Sudafrica ai tempi dell’apartheid;
vale tuttora per Israele e la sua politica; mi impedisce di
considerare la Cina una destinazione ludica; vale da un po’ di anni per la
Turchia dove un regime dittatoriale rade al suolo i diritti del proprio popolo
e di molti attorno.
Tutto è limpido finché di questo ne faccio una riflessione teorica,
tanto per supporre, poi accade che… un amico caro che non vedi mai e con cui
vorresti tanto passare più tempo ti propone “Ho un posto libero per andare
assieme 5 giorni a Istanbul, in un hotel storico, è già tutto pagato, devi solo
dire di sì.”
Lì comincia il mal di pancia: mai stato a Istanbul,
desideroso di passare tempo con l’amico, affascinato dall’Oriente e dalla
cultura bizantina, sento già i profumi e il bel rumore dei mercati.
Ci si aggiunge che durante una docenza incontro una corsista
turca a cui confido il mio disagio nel rispondere all’invito. Lei obietta con
un dolcissimo sorriso, “Ma in questo
modo isoli le persone. Il turismo ci fa vivere ed è il nostro unico contatto
col mondo esterno. Noi non siamo Erdogan.”
E il mal di pancia continua, qualcosa è lì bloccato senza
andare né su e né giù. So che la complessità della geopolitica è tale da non
poter mai considerare le cose del tutto bianche o nere. Un altro amico mi obbietta
che Erdogan è l’unica soluzione ragionevole ai problemi di quella regione ben
diversi dai nostri. So anche che però questo accomodare tutto con la ragioni
pura rischia di creare un alibi a tutto.
Alla fine ho detto di no, ringraziando di cuore per l’invito.
Le mie vacanze possono essere avventurose, e ne ho fatte parecchie di quel tipo, però
non ignave.
Non sei un giornalista né un fotoreporter, né ci devi andare
per lavoro, mi sono detto.
Lì non si divertono, e io non mi divertirei a
scattare foto e comprar souvenir.
La parte più egoista di me se ne è pentita il giorno stesso che
ho deciso, la parte più riflessiva si è compiaciuta, giacciono
tristi e sconsolate.
Mi sento a volte come uno che così giudica senza conoscere,
poi mi convinco che la conoscenza non debba essere solo quella diretta, sempre e comunque
parziale; poi mi dico che tutto è sempre parziale e soggettivo; poi aggiungo
che vista la quantità di giornalisti e scrittori tenuti illegalmente nelle
carceri turche, la mia rinuncia alle magnifiche moschee del Bosforo è il minimo
sindacale per manifestare la mia opposizione a quel regime.
Insomma sono qui a lacerar la mia giacchetta comoda, e anche
solo per scrivere questo post ci ho messo un mese. Però serviva a capirmi, per
chiedere aiuto a chi sulla complessità abbia per caso qualche idea utile a fare
delle scelte.
Andrea ti capisco, sono oltre 20 anni che non riesco a vistare la Turchia e sempre per i tuoi stessi motivi. Eppure è il viaggio che più desidero fare.
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