Sono nato in una grande città operaia regolata dai ritmi
dell’altoforno e dagli orari di arrivo delle navi da scaricare. “Ci sono i
portuali in sciopero” o “L’Ansaldo è scesa in piazza” erano pronunciate un’ottava
sotto, col rispetto dovuto alle celebrazioni in cattedrale. A cui assistere
deferenti se non si era gli officianti.
Il lavoro e le sue forme di lotta erano celebrati come
necessari e preziosi. Lo sciopero era parte del lavoro come gli attrezzi, la
tuta, il sindacato, gli infortuni. Era il mondo di tutti noi e tutti guardavamo
a un futuro per le nostre famiglie in cui crescesse la qualità del lavoro, i
meritevoli fossero premiati e i deboli sostenuti.
Anche negli anni ’90, quando robotica e informatica hanno
rivoluzionato le professioni e i mercati, provocando parecchi licenziamenti e
prepensionamenti la reazione è stata composta e dignitosa, come davanti a una
catastrofe naturale e un nuovo paesaggio sconosciuto da far colonizzare ai
propri figli il cui dovere diventava ancor più studiare per interpretare il
mondo.
Da qualche anno le cose sono cambiate. C’è stato un momento
in cui il lavoro e il suo controvalore economico hanno perso ogni relazione,
troppo per alcuni, briciole per altri; in cui gli imprenditori più bravi hanno
maggiori difficoltà a creare ricchezza di una pletora di parassiti assistiti.
Forse c’entra il Crollo del Muro e la liberazione di forze
che prima erano contenute dalle ideologie contrapposte di chi credeva di Dio o
nella Comunità come fini ultimo del sacrificio di oggi per il bene di domani. Di
certo non è facile realizzare di essere rimasti senza Dio ma ancora più difficile
è essere senza lavoro. “'Io non credo
nell'inferno, credo nella disoccupazione” afferma deciso Dustin Hoffman in
‘Tootsie’ quando per lavorare deve fingere di essere donna e riassume la
lacerazione tra talento e opportunità che è propria ormai di un paio di
generazioni.
È offensivo essere chiamati a fare sacrifici quando i
privilegi di pochi sono sotto gli occhi di tutti. Infatti e sempre più evidente
è l’assenza di vergogna, forse conseguenza dell’assenza di un Dio o di una
Comunità a cui rendere conto dei peccati commessi così come delle buone azioni.
Li percepisci attorno a te i privilegiati, gli strapagati, i
raccomandati, i cassintegrati professionisti, i riciclati, costruire muri,
abbonarsi al ricorso al Tar e alla Corte di Strasburgo, sbracciarsi per dire
che loro “non ci stiamo!”, che “vogliamo solo il rispetto delle regole e dei
patti” anche quando sono arbitrari, iniqui, fonti di mercimonio. Li immagini in difesa, con l’elmetto sulla
testa e sul culo e l’avvocato carico nella fondina, nelle loro trincee scavate in
Alitalia, alla Camera dei Deputati, al Teatro dell’Opera, in mille società
miste municipalizzate speciali parapubbliche.
Assisto attonito alla fine del sindacato, ucciso per sua
stessa mano e cecità; osservo disilluso i politici urlare annunci di riforme afoni
di significato; mi irritano i cento dirigenti che danno la colpa dei propri
errori e inerzia alla crisi o alla congiuntura strale; seguo col pensiero le
avventure di chi se ne va all’estero a coltivare i sogni, di chi torna a
quarant’anni a vivere coi genitori senza più sogni, di chi, sopraffatto, chiude
sconfitto la propria battaglia terrena.
Se obietti a tanta supponenza, ti si rivoltano contro con frasi
da fiction di basso costo come “Chi sei tu per parlare?” “Lo fanno tutti” “E’
sempre stato così”.
Io sono solo uno che paga tutte le tasse, si costruisce ogni
giorno un curriculum meritato fatto di sbagli e di successi, pagandosi la propria
formazione per stare sul mercato, e che non crede nella vita eterna e dunque
preferisce che i peccati altrui che rovinano la vita mia, dei miei figli, dei
miei amici, di mille sconosciuti respinti, vengano redenti qui, in contanti e
subito.
Salve signora signore
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