Con la classe del corso di digtal storytelling che tengo a Genova, sono stato pochi giorni fa alla tanto attesa mostra Paganini Rockstar, al Palazzo Ducale. Megaproduzione locale di ambizioni almeno europee.
Il primo, grande, calo di tensione è arrivato già all’ingresso
quando la signorina in tailleur – consapevole della eresia che stava dicendo –
ci ha invitato a “non fare foto e video, per favore.” Le ragioni erano di copyright e dintorni: posso anche capire ma non devono diventare un mio problema e sono tutte cose
risolvibili volendo e pagando. Sono anche le ragioni per cui sui social si
parla poco e niente della mostra (e forse anche perchè per 2 ore siamo stati quasi gli unici visitatori).
Di colpo siamo tornati in Italia, in periferia, in mano a chi
non ha capito nulla del pubblico e di quello che cerca. La partecipazione
attiva è la prima cosa che determina il successo e scattare foto per raccontare
è il top (anche perchè poi poco è arrivato in tal senso) …. Con molti corsisti rassegnati entriamo.
Il primo exibit è il più bello di tutti: su uno schermo parole
vanno alla velocità delle battute dei “Capricci” di Paganini. Siamo davvero senza
parole.
Approcciando poi i testi sui muri invece ne troviamo troppe:
migliaia di parole, verbose e adatte a altri scopi, sicuramente scritte da
esperti di musica ma da inesperti di allestimenti e incuranti dei livelli di attenzione
e di diottrie di noi umani paganti.
Poco oltre la cosa più malriuscita, che purtroppo si ripete
per tutta la mostra. Lungo il percorso ci sono numerose ampie pareti specchiate.
Vi sono attaccate, come lavoretti scolastici, centinaia di testi, foto,
talvolta con finestrelle video che hanno tutte la stessa caratteristiche:
caratteri piccolissimissimi, testi lunghissimi, in contesti buissimi. Poi sarebbero davvero la cosa più interessante perché costruiscono la relazione tra Paganini e Jimi
Hendrix. (Quei pochi che sono riuscito a leggere hanno confermato quest’ipotesi)
Ho scritto ‘come lavoretti scolastici’ perché diversi dopo meno di un mese di mostra si stavano staccando per colpa di un biadesivo acquistato
in saldo, sotto gli occhi del molto personale che forse è più preoccupato di
chi fa le foto piuttosto di che cosa fanno le foto della mostra.
Meglio riuscite le proiezioni su grande schermo: magnifico
Bolle che balla su musiche di Paganini, interessante Morgan che ne analizza la
musica, e simpatica la Nannini che racconta il suo rapporto col palco. Noiose e
ripetute nei format le interviste-testimonianza a una serie di esperti paludatissimi
che dicono la loro in un set statico, statici loro e monocorde le loro
narrazioni.
Progettate malissimo le postazioni touch dove puoi sfogliare
centinaia di pagine digitali di testi e diari che dovrebbero
essere interessanti ma sono illeggibili: sarebbe bastato evidenziare o animare
delle parti per moltiplicare il nostro interesse.
Il calo della libido
da mostra è totale nella sala dove sono mostrati sotto vetro un violino e
una chitarra elettrica smembrati in parti (niente di prezioso, kit acquistabili
su Amazon). Sono in legno. Vorresti toccarli, sniffarli fare esperienza emotiva
del rapporto con tutto ciò ma niente.
Lì accanto, una delle poche cose che ha animato gli
studenti: una chitarra elettrica e un violino elettrico a disposizione di
tutti. Ovviamente molto graditi a chi suonicchia
qualcosa, zero agli altri che magari avrebbero invece apprezzato un tutorial o
qualcosa del genere.
In chiusura c’è una piccola parte dedicata a Jimi Hendrix
che è quello che ti aspetti: un fantastico videowall dove suona, qualche bell’abito
di scena e un’intervista a Ivano Fossati che ne giustifica l’accostamento con
Paganini e gli toglie un po’ la scena.
Molte cuffie per ascoltare interviste e musica, tutte di bassa qualità. Dopo la
mostra dei Pink Floyd dove avevamo tutti una cuffia Sennheiser da 70 euro, lo
standard deve essere posto a un livello decisamente più alto
Il merchandising…
penoso come quasi sempre in Italia: la tazza, il catalogo e il magnete da
frigo, nient’altro.
Insomma, una mostra
con ambizioni pop ma senza il coraggio di osare davvero. Con di certo alto
budget ma con poca attenzione a noi visitatori. Con idee ancora poco chiare di
come si storicizzi e racconti la musica, la fama, la fatica. Allestita in modo
discontinuo e disomogeneo. In bilico tra varie idee di fondo, con forse troppe
mani e teste che hanno detto la loro senza mai voler litigare e dunque senza accordarsi su un tono che mettesse al
centro le nostre orecchie, i nostri cuori, i nostri sogni. Un discreto punto di partenza per porsi mete più ambiziose.
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