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giovedì 28 aprile 2016

Tra il 25 aprile e il 1° Maggio: quando la memoria è libertà.

1.
Il bambino sul treno accanto a me  solleva gli occhi dal cruciverba e chiede al papà “Chi è l’indimenticato Troisi?”
“Massimo!” esclama quest’ultimo associando al nome risate, dolcezza e limonate nel buio del cinema parrocchiale.
“E chi è?” lo gela il bambino a cui ‘indimenticato Troisi’ pare al più un ossimoro.
2.
Entro in libreria mentre Veltroni presenta un libro di Proietti esaltandone la capacità d’innovare nella tradizione del teatro. Poi lo accosta a altri ‘mostri sacri’ fino a citare l’immenso Sordi. Lì, quasi scosso,  racconta che il giorno prima davanti a 400 ragazzi di una scuola romana che stentavano a tenere il filo delle sue memorie ha chiesto quanti conoscessero Sordi e solo 5 o 6 alzarono la mano. Sordi chi?
3.
Troisi e Sordi passano, vabbé, forse ce ne faremo una ragione, ma la settimana tra il 25 aprile e il 1° Maggio è così densa di storia e memoria da non poter passare senza dare stimoli. 
Sette giorni racchiusi tra l’anniversario della Liberazione dalla dittatura fascista, sconfitta con la sua prospettiva di guerra e ingiustizie, e la festa dei Lavoratori, anniversario simbolico delle lotte per la liberazione da una vita che non sia solo sangue e sudore ma anche comunità, soddisfazione e costruzione di futuro.
Sarebbero centinaia gli spunti e i significati con ricadute attuali. Il messaggio di Mattarella che sottolinea come E’ sempre tempo di Resistenza  ne è buona sintesi. 
Democrazia e Lavoro sono al centro di qualsiasi discussione sul nostro destino, sulla riforma della nostra Costituzione, sulle regole del vivere civile. Fanno filotto col destino del pianeta e credo appropriato che l’Earth Day sia il 22 Aprile, così vicino alle altre date.

Un po’ mi rode che tutto questo non abbia domicilio nei talk show e forse anche poco nelle aule o nelle famiglie.
Un’idea positiva e costruttiva che nasca dalla memoria, anche dalle peggiori, non era di certo al centro delle intuizioni dei copywriter annegati negli Spritz e sfondati di apericene che hanno concepito l’immagine barbara qui accanto (da Il Venerdì di Repubblica del 22 aprile) in cui il povero Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo viene hackerato per promuovere un primo maggio sugli sci per chi vive nel cachemire distaccato dalle miserie del popolo da cui al massimo può estrarre qualche figa per allietare il doposci. 
Un messaggio costruito su una vena creativa aderente ai canoni di Made in Sud e Colorado Café sintetizzabile con “’fanculo a tutti i lavoratori, ai loro diritti, alle loro lotte pulciose: io sono io perché scio a Cortina e voi godetevi pure il picnic con fave e salame.”
Non so se gli eredi di Pellizza da Volpedo abbiano concesso i diritti di violenza sull’immagine.

Davanti a cose così mi sento piuttosto  inerme: non posso invocare vergogna in chi pensa, produce, vende, compra forme svuotate di senso come questa se in loro non c’è capacità di indignazione.
"Cosa c'è di male a scherzare?" mi aspetto, con lo stesso tono di chi dice "Cosa c'è di male a non pagare le tasse? A lasciare il frigo usato accanto al cassonetto? A consentire ogni nefandezza sociale a mio figlio? A votare XY che mi ha garantito il lavoro?"
Tutto è ritenuto ugualmente possibile perché non c’è memoria di conseguenze a gesti simili, se non di quelle poche e meschine accadute a se stessi, non c’è senso della Storia né dunque di Futuro.

giovedì 21 aprile 2016

Addio a quel geniaccio di Prince.

Prince era un genio, io non lo sono di certo.
Mi piaceva tantissimo e forse neppure saprei dire perchè.
Forse perchè sapeva di essere un genio.
Ho visto un suo concerto a Milano nel '91 e potrei raccontare per ore il tema della serata per ognuno dei miei cinque sensi.
Anni fa, ho scritto un episodio del mio libro "Mangia!" (FBE Edizioni) in cui lui c'entra parecchio e mi fa piacere riproporlo per chi ama le piccole storie.

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Con Isabella ci eravamo dati appuntamento davanti al portone di Roberto. Di lì a poche settimane saremmo stati entrambi laureati e quella sera lui ci aveva convocato per darci il regalo. Ci presentammo a mani vuote su sua esplicita richiesta: desiderava tenere sotto stretto controllo ogni minimo dettaglio.
Suonammo all’ora convenuta.
Roberto ci aprì indossando un impeccabile grembiule in tessuto di Fiandra. Disse subito: «Scegliete un colore: porpora o giallo?»
Isabella volle il porpora. A me il giallo andava benone.
La tavola era apparecchiata con tovaglie di lino, bicchieri di cristallo, sottobicchieri in rame e posate preziose, per due persone.
Ci sedemmo. Davanti a me c’era un iris giallo e un calice di champagne. Per lei, un iris porpora e un cassis alle more, rigorosamente porpora anch'esso.
«E tu non mangi?», chiese Isa a Roberto.
«La serata è vostra. Qualcuno deve fare il lavoro in cucina.»
Avremmo pasteggiato senza di lui. Avrebbe fatto avanti e indietro dalla cucina per tutta la sera. Cominciò portando pane, acqua e vino porpora per lei, vino bianco (giallo) per me. Poi la cena prese il via e io ebbi pennette allo zafferano mentre a Isabella fu servito un risotto ai mirtilli.
La conversazione divenne subito frizzante. Avevamo da raccontarci cosa ci aspettavamo dall’avere finalmente una laurea in tasca, delle vacanze che stavano per arrivare. Ridemmo dei fidanzati assenti che Roberto ci aveva rigorosamente vietato di portare e che essendo sabato sera erano piuttosto incazzati.
Al momento giusto arrivò una trota gratinata al forno per me e un piatto di arrosto alle prugne per lei. Rabboccammo varie volte i bicchieri e provammo, senza successo, a coinvolgere Roberto nella discussione. Si defilò dalla sala schivando ogni lusinga. Col passare del tempo fu lui a guadagnare spazio nei nostri discorsi. Pur essendone i protagonisti diventammo il pubblico della cena da lui progettata.
«Finito?», riapparve molti bocconi e molte parole dopo, intenzionato a portare via i piatti e preparare la scena al dolce che, sapevamo, non poteva mancare.
Sorridemmo, abbandonati alle volontà dell’amabile burattinaio.
Mi posò davanti una coppa di gelato all’arancia guarnita da una semisfera di caramello intrecciato. Per lei ci fu una vaschetta di porcellana in cui era adagiato un aspic alle more con violette candite.
Affondammo i nostri cucchiai. In silenzio. Molte volte.
Mentre mi inebriavo di quella delizia, lo immaginavo in cucina appoggiato al tavolo che ascoltava il nostro silenzio sapendo di aver ottenuto quel che voleva. Sapeva di averci regalato quello che desideravamo, pur non sapendolo: una serata di sogno e verità.
Sbriciolai il caramello nel gelato mentre lui certamente godeva dell’averci rapito dalle nostre vite per tenerci in ostaggio nel suo mondo fatato.
Riprendemmo a parlare dopo il dessert.
Quando rientrò in sala, avevamo appena deciso di andare assieme a vedere Prince a Milano. I nostri rispettivi partner storcevano il naso davanti ai virtuosismi funky di quel geniaccio della musica nera che invece, scoprimmo quella sera, mandava un visibilio sia me che Isabella.
Roby sparecchiò e ci disse «È il momento del regalo».
Lo guardammo perplessi, «La cena è stata il più bel regalo che potessi farci!»
«C’è dell’altro. Cercate…»
«Dove?» chiesi.
«Davanti a voi.»
Davanti a noi non c’era nulla che assomigliasse a una scatola o a un pacchetto. Isabella alzò il suo calice e prese in mano il sottobicchiere. Lo girò. «A me piace regalare emozioni. Roberto». Era inciso sulla basetta di rame. Il mio era identico. «Bellissimo, grazie”, disse Isabella.
«È solo il biglietto. Cercate ancora.”
Non era rimasto davvero nulla, solo i vasetti di cristallo che contenevano gli iris.
«Ci regali il vasetto?», chiesi.
«No, quello è di mia madre. Ma ci sei abbastanza vicino.»
Afferrai il fiore. Spostai i suoi lunghi petali e capii: un taglierino affilato aveva aperto un nido nel pistillo e dentro c’era qualcosa.

Con dita ansiose sventrammo i nostri fantastici iris finché vennero alla luce due strepitose ametiste. Ovviamente gialla per me e porpora per Isabella.