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giovedì 27 dicembre 2012

E se il 2013 fosse l'anno della svolta...

Mi piacerebbe chiudere il 2012 con un messaggio di ottimismo perché sento, vedo, che dalla crisi si uscirà, in qualche modo. E i segnali cominceranno a manifestarsi presto.
Fuori dal tunnel ci scopriremo  però molto diversi. Questi anni stanno cambiando gli atteggiamenti e le abitudini, il modo di vivere ma anche di sognare, come mangiamo, viaggiamo, immaginiamo. C’è chi ne è travolto, giace attonito e va aiutato a rimettersi in piedi. C’è chi si è aggrappato a quello che ha incattivendosi. C’è chi sta imparando molto su di sé e il nuovo mondo e sta già ripartendo verso direzioni sconosciuto per definizione. Io forse non sono abbastanza giovane per considerare a crisi del tutto una opportunità ma neppure così arreso da vederne solo le conseguenze tragiche.

Ogni volta che leggo di qualche migliaio di lavoratori messi in cassa integrazione perché si vendono meno automobili (o camicie, o cucine, o filetto di Angus) da una parte sono in pena per loro, ne conosco le difficoltà a reinventarsi per guardare il futuro a testa alto e pagare il mutuo, so bene che le crisi lavorative travolgono i matrimoni e le famiglie, azzerano la stima e l’autostima; dall’altra sono affascinato dalla prospettiva di un mondo con meno auto, o camice inutili, o fornelli supermoderni dove nessuno cucina mai.
I segnali del cambiamento arrivano dalle piccole cose  di ogni giorno. Mi sono trovato a discutere di banalità come schiuma per radersi e dopobarba e i presenti concordavano come siano entrambe cose del tutto inutili (“Basta un po’ di normale sapone messo sul viso, e alla fine sei pure profumato”); ho diversi amici che sono passati con grande soddisfazione al car sharing e non torneranno di certo indietro; c’è chi realizza scaffali e mobili per gli amici in cambio di una cena, quattro sorrisi o sei ore di babysitting; chi fa lo stesso coi siti internet; la disposizione a far circolare i vestiti usati dei bambini supera i confini delle famiglie; ho conosciuto un gruppo di ragazze che si vede per fare la maglia assieme (vabbè, lo chiamano crowdknitting, ma il succo è quello); le vacanze si fanno sempre più in casa di qualcuno e con qualcuno, rinunciando ai lussi degli hotel per riscoprire il piacere delle amicizie coltivate anche lavando i piatti assieme.

In molti di noi sta nascendo un gran bisogno di vedersi e parlare, riflettere sugli errori, chiedere consigli, scambiarsi soluzioni, ecco, forse questa è la vera rivoluzione. Perché è chiaro che da soli si perde, non si comprende il presente e non si può affrontare il futuro. Il percorso è lungo e la meta resta in movimento: se perdiamo tempo a sgambettarci a vicenda ci sarà sempre qualcuno che ci supera. Collaborare è la parola chiave. Lo so, suona un po’ da Alcolisti Anonimi, ma sta cominciando a funzionare. In questo quadro la tecnologia aiuta anche, e quello che sembrava fino a poco fa un mondo rintanato nel virtuale, è grazie al virtuale che sta nascendo un nuovo valore alle attorno alle amicizie che fa anche aumentare il valore reale di ciascuna.
Questa voglia di fare/stare assieme trova un corrispettivo anche nel mondo del lavoro. Le comunità professionali sono ormai solo delle gabbie e 10 ingegneri (o architetti, barman, giornalisti, web designer, psicologi, insegnanti…) messi assieme da soli fanno danni (a se stessi e agli altri). Le chiavi di lettura di realtà e necessità sono talmente complesse che solo unendo diverse competenze, ansie, motivazioni e talenti si può immaginare anche il lavoro che verrà. Capita sempre più spesso che allo stesso tavolo ragionino tecnici, filosofi, artisti e redattori per definire le caratteristiche dei prodotti e delle esperienze che essi dovranno trasmettere. Direi che questa cosa buona è.

Sono da sempre un ottimista, lo so, continuo a esserlo anche quando mi sfugge il perché.
L’anno che sta arrivando tra poco passerà, lo so, ma ci si sta preparando assieme è questa la vera novità.

martedì 25 dicembre 2012

La Mia Austria - Christmas Version

L’Austria non è un paese per diabetici e se questo è vero tutto l’anno lo è maggiormente nel periodo natalizio quando la potenza espressa da burro e zuccheri raggiunge il suo massimo. Un abbondante decennio di frequentazioni mi ha permesso di sperimentare e analizzare gran parte degli usi e costumi del periodo legato alle feste natalizie e di poterne qui esprimere un compendio a uso di vacanzieri curiosi e apprendisti antropologi:

·         In Austria i biscotti di Natale non sono un semplice complemento al caffè ma le loro ricette fanno parte del patrimonio familiare come e più delle stufe di maiolica ottocentesche. Quando Frau X incontra Frau Y per farle gli auguri, le porta una scatoletta con i 5 tipi più diffusi nel Paese, i 5 regionali, le 5 creazioni tipiche della sua famiglia. Frau Y risponde al colpo con altrettanto vigore e sfodera ricette millenarie e qualche pezzo più introvabile del Gronchi Rosa. Io che a Natale sembro il passerotto caduto dal nido apro infinite volte il becco per le decine di Frau che conoscono questo mio punto debole (a danno del punto-vita che rimane insaccato in comodi maglioni extralarge).

·         In Austria a Natale i negozi sono chiusi. E anche a Santo Stefano. E il sabato, tutti i sabati, chiudono alle 18; e la domenica, ogni domenica, sono sprangati. Pochi si lamentano, i più se la godono. Se la godono soprattutto le famiglie che possono stare assieme e gli amici che possono programmare escursioni sulle loro belle montagne. Siccome qui le case hanno tutte il frigo e gli scaffali, i loro negozi possono anche stare chiusi un giorno la settimana, da noi no, chissà perché.

·         In Austria ci sono i mercatini di Natale: sfilate di casette in legno che vengono benissimo nelle foto e danno un alibi perfetto alla spesa compulsiva. Sono gestite da esseri selezionati la cui resistenza al freddo è oggetto di studio. Camminare nelle piazze e nelle vie che sembrano presepi diventa un piacere, spesso accompagnato da musichette natalizie. Vendono prevalentemente oggetti inutili, piuttosto cari e di facile rottura. I più interessanti sono quelli che spacciano pinte di Gluwein (il nostro vin brulé) e mantengono calde le anime.

·         In Austria amano la forma: i pacchetti dei loro regali sono spesso più elaborati e interessanti del contenuto. I biglietti sono fatti a mano con evidente spremuta di neuroni e uso del tempo. Quando ricevi qualcosa hai la sensazione che non sia il prodotto di una carta di credito usata all’ultimo momento e di un pacchetto fatto da un commesso sottopagato che vorrebbe invece fare il lavoro per il quale ha studiato.

·         In Austria non strappano la carta dei pacchetti: è normale riciclarla millanta volte. Il pacchetto viene aperto con cura, staccando lo scotch, poi il foglio viene piegato e stirato con attenzione. Vi assicuro che si può fare.

·         In Austria non vale la pena passare Capodanno: mangiano poco e bevono tanto, questo riassume lo spirito della festa. Alle nove il cibo è finito, l’alcool è invece infinito e aiuta assai a arrivare a mezzanotte. Di memorabile posso segnalare solo il valzer di Strauss trasmesso in diretta nazionale dal primo canale radio e che, allo scoccare del nuovo anno, fa ballare e baciare tutto il paese.
Se vi interessa l’Austria, sia per godervi i panorami che altro, per capire cosa fare e non fare, vi suggerisco la lettura di:
1)      La Mia Austria – Cosa mi piace.
2)      La mia Austria – Cosa non mi piace.

mercoledì 19 dicembre 2012

Quando i matrimoni diventano una questione privata.


Istat ci dice oggi che quest’anno il numero dei matrimoni civili ha superato il numero di quelli religiosi.
A ruota c’è l’economista che sottolinea come ci si sposi meno in chiesa perché c’è la crisi economica e manchino i soldi per festoni di dubbio gusto; il prete dice invece che la società si secolarizza; l’opinionista richiama ai bamboccioni e dei choosy che non se ne vogliono andare di casa. Presto ci sarà chi darà la colpa alle allergie ai pollini dei bouquet, qualcuno porrà il problema dell’estinzione dei wedding planner, o sosterrà che per impennare la religiosità basterebbe non far pagare l’IMU alla chiesa cattolica.
Secondo me il succo sta più nel fatto che una volta ci si sposava in chiesa per tradizione e consuetudine e che oggi, vivaddio, chi lo fa magari ci crede un po’ di più, nonostante la Chiesa stessa. Forse questa si chiama ‘secolarizzazione’.
Non posso trattenermi però dal commentare la “barriera all’ingresso” rappresentata dai corsi prematrimoniali obbligatori, che è anche specchio di molte delle ragioni per cui si esita a sposarsi in chiesa.
Oggi le coppie di promessi sposi si consigliano a vicenda i preti che “ti mettono un timbro e via”, a cui basta una chiacchierata distratta per darti l’autorizzazione o fanno i corsi-weekend negli eremi umbrotoscani con wellness centre incluso.
Io, nell’entusiasmo della decisione matrimoniale, ho preferito invece seguire un corso in 14 puntate obbligatorie nella parrocchia vicino a casa. L’ho fatto un po’ per capire se io o la Chiesa fossimo cambiati dall’ultima volta da cui me ne ero allontanato, e un po’ per “conoscere gente del quartiere, della nostra età, con interessi simili”. 
  • A tenere il corso era un prete coadiuvato da quattro coppie di diverse fasce di età. La loro saggezza e comprensione della realtà cresceva cogli anni e se la coppia più giovane era di integralisti talebani e irresponsabili, la coppia settantenne aveva la lucidità per porsi delle domande e, talvolta, di ascoltare anche le nostre opinioni.
  • Infatti, la regola era che siccome eravamo 12 coppie non avevamo diritto di parola perché “Se qui ognuno dice la sua non svolgiamo il programma e il tempo (14 fantozziani incontri 14) non basta”.
  • Il programma, appunto, tutto incentrato sulla metafora evergreen del ‘cammino’ che aveva in Abramo il camminatore modello. Per 6 incontri su 14 ci hanno parlato solo di Abramo e delle sue camminate, tralasciando del tutto temi ritenuti ovvi o secondari come l’educazione dei figli, la responsabilità dei coniugi, il rapporto coi suoceri, le difficoltà della vita a due.
  • Ci sembrò di essere tornati alla realtà una sera quando, esausti dopo le camminate di Abramo, c’era in agenda ‘Quale è il regime dei beni più idoneo al matrimonio?’. Senza indugi, con le certezze tipiche e razionali del kamikaze nipponico, ci è stato romanticamente consigliata la ‘comunione’ dei beni perché “la parola stessa suona meglio”. Ma a qual punto eravamo a metà del percorso e andarsene metteva a rischio la possibilità stessa di sposarsi.
  • Esilarante fu l’incontro sulla procreazione responsabile in cui delle diapositive raffiguranti le mirabolanti evoluzioni elastiche del muco vaginale, vennero usate per raccontare quella dell’ape e del fiore a un gruppo di coppie 30-40 enni che nella maggior parte convivevano da anni, un paio avevano già matrimoni alle spalle, figli sparsi, e una allattava direttamente durante gli incontri.
  • Surreale l’incontro sulla sessualità in cui il solo fatto che molti di noi praticassero da decenni la materia con slancio, soddisfazione, rispetto, fantasia e scarsa attitudine alla procreazione irresponsabile ci ha rubricato tra i materialisti e i peccatori. Solo la necessità di avere ‘il pezzo di carta’ ci ha a quel punto impedito di mandare la sacra truppa evangelizzatrice a svolgere attività in luoghi più oscuri e maleodoranti..
In quel cammino penitenziale di avvicinamento al matrimonio l’atteggiamento ‘didattico’ è forse stato quello che maggiormente ha urtato molti di noi. Lo stesso che poi ci ritroviamo tutti i giorni, di chi ti tratta come un bambino non vedendo il trave nel proprio occhio, e parla ponendosi su un piedistallo immaginario noto solo lui (e sembra più un fissato che nega le evidenze della vita che un profeta (poi magari sono la stessa cosa)).

lunedì 17 dicembre 2012

La festa di compleanno: Complementi di educazione per genitori adulti (caso 4).


Sono partecipe a questi riti da abbastanza anni da poterne scrivere con una certa competenza.
Se avete figli piccoli, che non sono ancora in grado di gestirsi da soli le feste degli amici vi tocca sovrintendere alle incombenze che si celano dietro la partecipazione a una festa di compleanno.
Per me, ignavo e di memoria autoreferenziale, una festa di compleanno per bambini si riassume in “Invita i tuoi amichetti del cuore a casa, che giocate un po’, i loro genitori si godono un pomeriggio libero, e poi ti faccio una torta con le candeline”. Essenziale, logico direi. Datato, eversivo, destabilizzante, secondo i moderni canoni della socialità minorile che prevede innanzi tutto la logica dell’Evento Memorabile, condizionata da volontà emulative della casa reale, rinforzata da sensi di colpa genitoriali che acconsentono la cessione del fondoschiena già alla richiesta del dito.
Si tratta ormai di format veri e propri di cui si possono esaminare gli elementi fondamentali con una certa facilità:
  • Gli invitati: devono essere tutti quelli a cui si deve rendere conto (definiamoli pure gli azionisti di riferimento). Si intende come minimo tutta la classe, incluso quei 3 o 4 di cui il pupo neppure ricorda il nome, dei 5 che non sopporta, più i fratellini e le sorelline degli invitati, più le maestre. Poi non sia mai che l'esclusione di un teppistello egocentrico oggi comporti minori opportunità lavorative tra venti anni quando il teppista di cui sopra sarà senz'altro consigliere provinciale o dirigente di municipalizzata.
  • La location: il business delle location per le feste dei bambini è in continua espansione. Ludoteche, paninoteche, altroteche, associazioni, sale parrocchiali multifunzione, tutto è buono e tutto va quotato dai 200Euro in su a secondo degli optional richiesti. Siccome parecchi di questi spazi sono anonimi e al piano strada, è escluso che un genitore responsabile lasci il suo pupo lì per andare a fare qualcosa di più adatto alla propria età e gli spazi stessi devono dunque prevedere luoghi e intrattenimenti per papà e mamme,
  • L’animazione: un obbligo masochista. Un esercito di professionisti precari  opera  rigorosamente in nero per animare l’accozzaglia di minorenni coinvolti in questi eventi. Sono necessari, anche perché metà degli invitati non ha relazioni reali col festeggiato e l’altra metà si annoia perché da lì sono stati banditi i videogiochi. Gli animatori sono giovani e meno giovani con nozioni di teatro e giocolieria. I più bravi fanno bolle di sapone del diametro di Giuliano Ferrara o sanno a memoria i nomi di tutti i 27 bambini al quinto minuto di festa. I migliori se li consigliano tra le mamme come si fa con le diete e le gelaterie. Li guardi e hai la sensazione ti faranno anche da badanti precari tra una ventina d’anni.
  • I regali: in media si risolvono in un’accozzaglia di banalità viste in spot televisivi o acquistati per autodefinire lo status del regalante. Da un po’ di anni si è instaurata la tradizione di aprire i regali tutti assieme, in pubblico, in un rito tribale di cattivo gusto in cui tutti ripetono all’unisono  “Scarta la carta!”. Di ogni pacco è annunciato il donante e l’apertura è seguita da commento dell’animatore che cerca così di distrarre il festeggiato dalla insulsaggine del dono. Tale pratica crudele oltre a mettere in concorrenza diretta chi fa i regali, evidenzia a tutti le 3 identiche bamboline ricevute e il libro riciclato dal regalo di natale ricevuto da uno dei presenti. Una nuova piccola follia che sta prendendo piede è quella di regalare agli invitati qualcosa, un ricordo, una specie di bomboniera (che da sé dimostra come tali feste siano da inquadrare nella logica dell’evento familiare e non della festa tra bimbi).
  • Il cibo: è progettato per degli esseri ritenuti incapaci di intendere e volere, condizionati dalla tv e vogliosi di affetto non corrisposto. C’è normalmente tutto ciò che in condizioni normali vieteresti ai tuoi figli: patatine, pizzette gommate, popcorn, coca, fanta, e caramelle colorate di evidenza inquinante. Non c’è altro di commestibile e la torta il più delle volte è la proiezione ipertrofica dei sogni infantili di una madre lasciata sola nell'impresa di organizzare l'evento e a cui solo gli zuccheri fanno ormai svolazzare gli ormoni.
  • I genitori: non potendo eclissarsi, approfittano della presenza degli educatori per dimenticarsi all’istante del  figlio, negarne la paternità se il frugolo spacca lo zigomo alla festeggiata, chattare su What’s Up con l’amica che si è appena rifatta naso e fianchi, sparlare delle maestre, strafogarsi di pizzette di gomma come antidoto alla depressione, guardare nel vuoto sapendo che fuori di lì è possibile un mondo migliore.

In casa mia, a ogni compleanno, c’è la conta tra me e mia moglie per chi debba accompagnare i pupi sul luogo del fattaccio. Si sprecano i “Vai tu, stavolta?” e gli occhi da cane bagnato, si millantano le più improbabili scadenze lavorative, il tutto per arrivare a qualche compromesso. Si lo so, alla fine va un po’ più spesso lei, ne prendo atto. So che la vita la premierà perché, come ha dimostrato Darwin, si salveranno solo coloro che hanno maggiori capacità di adattamento.


Ultimi in materia:

giovedì 13 dicembre 2012

Da oggi in un mondo senza Maria Assunta.


Quel momento doveva arrivare. Lo aspettavo, con qualche brivido. Talvolta provavo anche a immaginarmelo. E ora: eccoci. Poteva essere lei, o lui, o io; in questi conteggi l’ordine è solo la natura del caso. La prima è stata Maria Assunta.
È la prima anima del mio gruppo di amici ‘storico’ che viene a mancare, e per me oggi qualcosa cambia. E' stravolta la vita dei suoi figli, dei suoi fratelli, dei suoi cari che dovranno crescere in un mondo improvvisamente diverso, crudo, meno affettuoso e per molti aspetti incomprensibile.
E mentre, piangendo, scrivo, realizzo che per me finisce quell’invincibilità che in verità non ci appartiene ma che ci cuciamo addosso in gioventù nell’illusione che il futuro non sia che un presente ripetuto all’infinito, con le stesse regole e le stesse certezze.
Maria aveva la mia età. Siamo stati compagni di scuola e di lì in poi abbiamo condiviso molti momenti e molte attività fino a oltre i vent’anni. Feste, campi estivi, scherzi, incontri più seriosi.
Poi le nostre vite si sono dipanate in direzioni autonome andando ulteriormente a arricchirsi di altri incontri, di amori, di figli. Non la sentivo da un po’ ma sapevo che era lì, come lì è tutto quello che gli anni hanno messo da parte per farci adulti. Rivedendoci, a distanza di anni, a noi bastava un sorriso e la vecchia consuetudine risintonizzava i nostri gesti e le nostre domande.
Credo che sia una ricchezza  senza pari quella di poter guardare a un certo gruppo di amici usando naturalmente il ‘noi’ per raggrupparli nello spazio e nel tempo.
No, non sono quelli 'più amici degli altri' (di quelli venuti dopo, incontrati sul lavoro, conosciuti nei viaggi o al corso di ballo) ma sono diversi perché hanno avuto parte di quel momento irripetibile che è la scoperta di noi stessi e della vita.
Per me Maria era in quel ‘noi’. Era una ragazza, pardon, una donna intelligente e autonoma. Sebbene tutti si sia ‘diversi’ per definizione, per me lei era più ‘diversa’ delle altre. La ricordo fiera e decisa anche quando le sue scelte di testa o di cuore facevano scalpore nel perbenismo che smorzava ogni acuto del nostro microcosmo di allora. Grazie a lei e a altri facenti parti di quel ‘noi’ così importante ho fissato i miei valori, definito i miei punti di vista, capito cosa avesse davvero senso e cosa fosse solo conformismo, cosa meritasse la mia rabbia e cosa solo una distratta alzata di spalle.
Da oggi c’è il primo vuoto in quel ‘noi’, uno spazio incolmabile e allo stesso tempo per sempre inviolabile. Perché se il senso del sacro ha qualche ragione di esistere, per me è proprio quella di farci riconoscere l’unicità e il valore perenne di ciascuno.
Maria mi manchi.

domenica 25 novembre 2012

Perché tanta attenzione attorno al cibo e alla cucina?


Roberto, una delle persone che più hanno influenzato la mia predisposizione al cibo fatto e mangiato, mi ha chiesto “Ma, secondo te, perché oggi c’è questa attenzione spasmodica alla cucina e al cibo?”. Roberto ama la dialettica, le domande retoriche e anche quelle a trabocchetto ma stavolta era onestamente interessato.
“Lo chiedi tu, a me?” avrei voluto rispondere, “tu che mi hai fatto capire 30 anni fa che per un uomo il cucinare non è affatto disdicevole ma addirittura opportuno?”
“Non rispondermi subito”, ha aggiunto, “poi ne parliamo”. E di questa utile non-fretta lo ringrazio. La domanda è rimasta lì, appesa nel fresco di quest’autunno soleggiato, e ora le parole cominciano a scendere, vogliose di essere fissate su carta.
Nella Società dell’Incertezza (cfr. Z. Baumann) sono ormai poche le dimensioni dell’essere che possiamo illuderci di poter controllare completamente. Non lo sono il nostro lavoro, né le aspettative per il futuro, non lo è il progetto di vita dei nostri figli, né quello che respiriamo. È perfino diventato difficile essere conformisti perché il modello del ‘gregge di pecore’ è stato sostituito con quello dello ‘sciame di storni’  in cui non è chiaro chi guida e in un attimo puoi ritrovarti ai margini del gruppo.
Il cibo dunque rimane una delle poche aree in ci si ha la sensazione di poter esercitare il libero arbitrio, e che è dunque espressione di quello che siamo, dei valori che propugnamo, del mondo che desideriamo. Detto così sembra quasi un tema politico, e infatti per molti lo è. Mangiare bio, a km 0, vegano, acquistare al GAS o al Farmer’s Market diventano anche scelte di fede.
Di conseguenza, questa attenzione collettiva a uno dei pochi temi in cui possono sussistere reali innovazioni di prodotto, processo, relazioni, l tema lo rende appetibile J per il mercato, i guru, le mode, i media, generando un’offerta di esperienze senza precedenti.
Elementi-chiave per la comprensione del fenomeno, a mio avviso sono:
  • La paura: il mondo è inquinato nel merito e nella morale e il cibo è un prodotto di quel mondo. Mangia pulito, sicuro e giusto!
  • L’amore: per il territorio, per gli animaletti che prima di finire in padella devono aver avuto una esistenza felice e razzolante, per i nostri pupi che tra un ovetto con sorpresa e un compleanno al fast food devono mangiare più biologico dello sciamano amazzonico
  • La passione: facili sono i paralleli tra cibo e socialità/sensualità. Il cibo è talvolta un sostituto, un rivale, ma anche un fantastico companatico dell’affetto. Precede, include e completa la seduzione, è un preliminare che può dare maggiore soddisfazione e qualità del sesso stesso.
Quello che mi colpisce è che, come per il sesso, il mercato ha scientemente depurato il cibo da ogni romanticismo per mercificarlo, specializzarlo, personalizzarlo, frustrarlo.
Cosa c'è nei reality sul cibo e la cucina se non altari su cui viene santificata l’ansia da prestazione davanti a giudici la cui durezza e insensibilità recitate non hanno da invidiare al rapporto popolar-sado-masochista del celebrato ‘Cinquanta sfumature…’? 
Ecco poi le cucine a vista dei ristoranti di grido, il Teatro della Cucina del Gambero Rosso, gli show dal vivo di Eataly, vere e proprie evoluzioni degne di porno-show d'alto lignaggio.
Molta enfasi e attenzione attorno al cibo è equivalente nell’immaginario del pubblico a vera pornografia, accessibile questa però anche coi bambini che giocano in soggiorno; e i superchef sono al pari di star superdotate.
Come accade nella pornografia, nessuno degli spettatori si ritiene però poi all’altezza di quello che vede e il piacere finisce e si completa nell’immedesimazione e nel sogno.
Infatti la conseguenza è a vincere è il mercato delle prestazioni a pagamento e pochi, pochissimi, cucinano davvero, per il piacere di farlo, per sentire nelle mani il profumo del timo o dell’aglio, per misurare l’attenzione delle papille altrui alle stranezze, così come alle certezze. Perché il timore del confronto e della novità blocca l’ego troppo conformista, come quello troppo spaventato per utilizzare il proprio libero arbitrio.. 

sabato 3 novembre 2012

I videogiochi: Complementi di educazione per genitori (caso 3):.

Quando il pupo passa i sei anni per molti genitori è ormai adulto e responsabile, può decidere del suo tempo, del tuo portafoglio, non va contraddetto e nella sostanza va trattato come un idiota (esattamente come si farebbe con gli adulti).
Argomento principe tra i gentori nelle attese alle feste di compleanno (argomento di cui tratterò presto) è l’utilizzo che viene consentio dei videogiochi. Normalmente le considerazioni partono dall’osservazione di quei bambini che, alla suddetta festa, sono attaccati al giochino portatile incuranti dell’animatrice che prova a ammaliarli.
“Dai, su, metti via e va’ a giocare con gli altri”, accenna un padre del bimbo ipnotizzato.
“Dopo, ma’”, è la risposta quando viene.
Il genitore rimbalzato abbozza incassando le spalle. Gli altri solidarizzano con lui: “Già… sono come una droga”. “Sì, ma non esageriamo...”. “Poi quando c’è un cugino più grande non si riesce a toglierli”. "Li hanno tutti". “Sono anche una tassa. Hai presente quanto costano gli Skylanders?”.
Io attacco il cordone ombelicale al tavolo delle pizzette di gomma e do le spalle finché non mi arriva la domanda diretta: “Il tuo gioca molto con i videogiochi?”
“No. Non ne ha”, rispondo masticando per rimanere anonimo e un po’ sgradevole.
“Eh?”
Deglutisco, “Secondo me è troppo piccolo. Per ora abbiamo deciso di no”.
“Piccolo? Ha nove anni. Dimmi come fate?”
“Non glieli compriamo e diciamo ai nonni di non regalarglieli a Natalee neppure alla Comunione”.
“Sì, ma non va a casa degli amichetti?”
“Sì, e lì se vuole ci gioca. Ma a casa proviamo a fare altro”.
Le mie risposte non bastano mai, insistono “Quindi lui non ha videogiochi?”. “No”. Allora mi vogliono cogliere in contraddizione: “Non gli fai neanche vedere la tv?”. “La tv la guarda, quello che decidiamo noi, ovviamente”. “E tu non hai il computer?”. “Sì”. “E lui non vuole giocarci?”. “Non lo so. Il computer serve a me”.
Pare tutto così strano che non mi chiedono se siamo anche vegani ma poco ci manca. “E come fai a non farlo giocare col tuo computer?”. “Gli dico di no”. “E lui cosa vuole in cambio?”. “Gli dico di no e basta, poi dopo un po' se lo dimentica e facciamo altro”.
Qui la discussione si interrompe.
Dire di no non è contemplato.
Ma quello che spesso non è contemplato è immaginare altro da fare con loro.
Fortunatamente la domanda che non mi fanno mai è “Perché non vuoi che usino i videogiochi?”
Comunque non risponderei perché ogni famiglia è diversa e la mia risposta vale solo nella mia realtà.
Mio figlio la domanda me l’ha fatta, ovviamente. Ha capito, ha sorriso e se ne è fatto una ragione.
Tra 9 anni farà come preferisce.

Puntate precedenti:
Il manager e i sui rimpianti (caso 2)
Le colpe dei figli ricadono sulle nonne (caso 1)

domenica 28 ottobre 2012

Autopsia di un invito a Genova.


So che desiderate tutti conoscere di più su questo popolo schivo che vive rintanato tra il mare e i monti, che del mugugno fa un’arte e degli avanzi a tavola un tesoro di famiglia. Di cui mi onoro di far parte. 
Il caso ha voluto che mi trovassi al Santuario di Ns. Signora del Monte, un posto che a raggiungerlo si paga il pegno di una frizione andata, uno specchietto divelto e una riga di improperi che da soli giustificano la confessione.
Lì, in quel nido d’aquila con vista mondo, ho trovato il poster casareccio che vedete qui accanto, invito a un evento esclusivo e imperdibile, e che – a mio avviso – esprime molte genovesità possibili.

Dunque procedo per voi alla sua autopsia:
FINALMENTE!!! – è il classico incipit ruffiano che a Genova prelude solo all’arrivo di un circo, di una meteorite, di qualcosa di esotico, perché non si è mai visto che un umano di razza genovese aspetti l’arrivo di qualcosa con l’emozione manifestata dei tre punti esclamativi, neppure la tredicesima.
LUNEDI’ 5 NOVEMBRE ORE 12.30 –  non sopportiamo i turisti, gli scocciatori, anche gran parte dei consanguinei. Fare una festa di lunedì a mezzogiorno è fine e crudele allo stesso tempo. Serve a organizzare un pranzo tra pochi facendo finta che siano in molti gli invitati. Siccome agli aspetti formali noi ci teniamo, si  sprecheranno i “Non sono potuto venire, mi spiace” di quelli che non ci sarebbero mai andati e i “Mi spiace tanto che non sei potuto venire” di quelli che hanno fissato di lunedì a mezzogiorno.
STOCCHEFISCIATA – FAVOLOSA DEGUSTAZIONE DI STOCCHE, BACCALA’ FRITTO, POLENTA E VINO BIANCO!! – è il cuore dell’avviso e racchiude un mix che sa di nuovo e medievale assieme. Il neologismo d’apertura litiga con la lingua e rimanda a giovanilismi anni ’80 che u coppiraiter deve aver preso a riferimento culturale. Il termine ‘degustazione’  è più una minaccia che un sostantivo e implica che è sempre meglio poco ma buono se nel piatto finiscono porzioni di dimensioni ospedaliere si possa sempre giustificare col fatto che è una degustazione e non un pranzo.
OFFERTA MINIMA 20 EURO – è il capolavoro del poster, ha retrogusti che vanno dalla selezione dei partecipanti all’alea di evasione fiscale passando per  e non credo abbia bisogno di ulteriori spiegazioni tranne quella di ribadire la localizzazione geografica;
E’ GRADITA LA PRENOTAZIONE – scritto lì, senza un numero di telefono, un indirizzo o una mail implica che non rompa il belino chi non è del posto e vuole capire come si mangia in una confraternita o se indossano le gonnelline come i massoni o abiti da supereroi.
ORE 17 SANTA MESSA IN MEMORIA DEI CONFRATELLI DEFUNTI – nel suo bel riquadro questo addendum ricorda di certo a tutti che i momenti di festa si pagano, ben più di 20 euro, ma anche la barzelletta in cui il povero Beppe andava al Secolo XIX per far scrivere un necrologio in memoria della moglie Marta, appena defunta. Scoperto che si pagava a parole, Beppe chiese venisse scritto “Marta morta”, nient’altro. Ma lì, l’addetta gli chiarì che fino a 5 parole il prezzo era fisso e lui rettificò in “Marta morta – Vendo Panda bianca”.

mercoledì 17 ottobre 2012

Li avete visti i negozi automatici? Inquietanti, respingenti e ipnotici.

Li avete visti i negozi automatici? Sono quegli sgabuzzini riempiti di distributori di ogni cosa che paiono ibridazioni manga tra un armadio e un flipper. Nelle città se ne trovano sempre di più. Di solito rimpiazzano i negozietti dove si riparavano gli orologi, si vendevano i fumetti o si facevano panini melanzane e pancetta. Sono nei punti di maggior passaggio: vicino alle fermate dei mezzi pubblici, in prossimità di scuole, ospedali, impianti sportivi, monumenti.
Mi danno tanta tristezza e mi respingono come emanassero raggi gamma.
Premetto che tutti gli sgabuzzini mi fanno tristezza, incluso il mio e il vostro, se lo avete, ma almeno quelli nelle case richiamano frattaglie di vita e, accostando la conserva di nonna alla trielina e alle scarpe buone per le occasioni che non vengono mai, hanno storie da raccontare.
Nei negozi automatici storie non ce ne sono. Le cose lì non sono di nessuno finché il consumatore non se ne appropria, le adotta direi. Il ronzio dei frigo e dei sistemi di sicurezza evoca un allegro obitorio dove le lucine non riescono comunque a convincere della bontà di alcuna salma. In un impeto di ottimismo lo potrei definire un distributore di storie da embrioni congelati.
I momenti più interessanti da cittadino, impiegato, turista, sono sempre stati quelli in cui entri in un negozio, misuri la distanza tra i tuoi desideri dalla possibilità che ti offre, cerchi la complicità del commesso, e poi tenti di esaudire il tuo desiderio di quel momento. A volte ci riesci, a volte no, ma sempre hai incartato l'oggetto del suo acquisto di ciò che gli da il gusto vero: il fattore umano.
Non fatevi ingannare se evocano le macchinette del caffè presenti negli uffici: per questo davanti a loro ti senti 'quasi' a tuo agio.  Le macchinette negli uffici sono dispenser di buoni consigli prima ancora di acqua sporca aromatizzata al caffè, sono totem antistress, fari per impiegati disorientati. Queste stanzette al piano strada sono invece set impersonali per consumi istintivi e solitari, ideali solo per chi ne ha abbastanza del genere umano, pericolosi per tutti gli altri.
I primi negozi automatici puntavano solo su bevande e cibo, i secondi hanno aggiunto cose di utilità come fazzolettini, preservativi e creme solari. Ora non ci si deve stupire nel trovare scarpe, libri, souvenir, e cianfrusaglie varie. Verranno consulti psichiatrici con assistenti virtuali, simulazioni di colloqui di lavoro o tecniche di seduzione, erogatori di strette di mano, analizzatori del cuoio capelluto e della vista.  
Non li sopporto ma ogni volta che gli passo vicino butto dentro un’occhiata nella speranza di vedere l’uomo che li rifornisce, la presenza umana che li alimenta. È bello quell’uomo, fa un lavoro vero, magari gli piace pure e non comprerebbe mai un sandwich al pangasio in un posto così. Ed è felice almeno finché non decideranno che un omino meccanico possa fare lo stesso lavoro in meno tempo, senza ferie e pause, e al massimo un cambio d’olio ogni sei mesi.

lunedì 15 ottobre 2012

Io e Walter Veltroni

Mi sono trasferito a Roma nel ’98, ci sono venuto per lavorare e nulla mi aspettavo oltre a una bellissima città un po’ decadente abitata da persone indaffarate, rumorose e gaudenti. Come infatti trovai. Nel 2001 venne eletto Veltroni e per otto anni circa fu il mio sindaco.
In queste ore in cui ha deciso di non ricandidarsi in Parlamento in molti ne parlano, sbeffeggiandone i tic, il mal d'Africa, la messianicità, il buonismo. Io vorrei invece ringraziarlo di cuore.
Gli anni con Veltroni sindaco di Roma sono stati anni importanti per questa città. È cambiata molto, in meglio. E forse a causa di questo anche io sono cambiato in meglio.
Veltroni sindaco era l’impersonificazione del sogno possibile di una Roma diversa. Come infatti è stato il larga parte. Non era buono o buonista, era rigoroso e responsabile. Credeva nel primato della politica e come nessun altro politico aveva le idee chiare su quali fossero i punti di forza e di debolezza della città, e di come le opportunità andassero create e colte. Dialogava e molto spesso portava a casa i risultati che desiderava. 
Nonostante la sistematica opera di smantellamento fatta a arte, ancora oggi salta all’occhio salta l’impressionante mole di iniziative che lui e la sua squadra hanno voluto e sviluppato che, ancor prima che portare in città milioni di turisti, e centinaia di imprese, hanno ridato ai romani l’orgoglio di vivere in questo posto benedetto dagli dei.
La sua risaputa attenzione maniacale per il consenso era per me la parte migliore di una tensione continua volta a realizzare un’idea di città in cui tutti fossero soddisfatti e felici. Bambinesco? Naive? No, eroico secondo me.
Ho avuto modo di constatare direttamente il suo amore per Roma e i romani. L’ho sentito più volte parlare a braccio davanti a scolaresche, imprenditori e premi nobel con lo stesso entusiasmo e con la stessa rara capacità di stimolarne domande e azzardare risposte.    
Di certo ha anche dovuto accettare e ricercare alcuni compromessi  (specie con la razza vorace dei palazzinari e con quell’anima nera di Roma che parte dall’Olimpico, passa per gli attici e finisce in Vaticano) ma, negli anni, ha avuto la forza per portare dalla sua molti scettici e distratti anche di sponda avversa.
A Roma si è vissuto per anni in un clima di apertura, di tolleranza, di accoglienza, di curiosità culturale che nessuno in buona fede può disconoscere e che ora ci manca assai. In quegli anni non avevamo davvero nulla da invidiare a Parigi, Barcellona o New York.  La sua politica di sviluppo e riqualificazione dei quartieri sopravvive ancora, così come sono amate le sue intuizioni come il Viaggio della Memoria a Auschwitz, la rinnovata Estate Romana, l’Auditorium, le timide pedonalizzazioni, gli eventi, il Gay Village, la Metro e i tram, il Festival del Cinema. 
Non si può accostare il progetto di Veltroni – inclusi i suoi errori - con l’inedia, la debolezza e l’opacità del sindaco attuale che vive con l’incubo della propria incapacità di essere anche solo confrontabile col predecessore e, come Nerone, preferirebbe bruciare questa città piuttosto che continuare a specchiarvi la propria inettitudine.
L’unica cosa che non ho mai del tutto perdonato a Veltroni è stata la sua candidatura del 2008 alle politiche, da sognatore stavolta un po’ ingenuo dove, come un Don Chisciotte contro i mulini a vento, pur portando il suo partito ai massimi storici si è fatto martirizzare da un avversario di tale spessore affaristico e criminale che per essere battuto avrebbe avuto bisogno di scontrarsi con un Paese dotato di ben altri attributi e anticorpi.
Ora che avrà di certo un’agenda più libera mi piacerebbe invitarlo per cena, presentarlo ai  miei figli, magari cucinargli qualcosa di etnico o di genovese, parlare con lui di musica ma anche di futuro, di progetti, di innovazione, di globalizzazione. Sento che sarebbe utile e bello. Forse non avrebbe lo scanzonato accento di un giovane toscano in cerca di autore ma di certo avrebbe sempre qualcosa di sensato da dire.

sabato 6 ottobre 2012

Se gli studenti leggessero di più quello che scrivono…


Ieri sono scesi inpiazza gli studenti in varie città d’Italia. È una novità di cui si èsentito poco parlare perché non è ancora stata catalogata.
Si è trattato di numerose e frammentate manifestazioni, forse limitate nella partecipazione, confuse negli obiettivi, piuttosto aspre, senza un piattaforma o richieste di confronto, senza grande collante tra loro forse escluso quello dei cellulari e dei social network (“A Torino hanno sfondato il cordone di Polizia, facciamolo anche noi!”).
A me è sembrato il warm up prima di una prova vera e propria che potrebbe venire ereditata da chiunque vinca le elezioni in primavera, se non avverarsi prima.
Nonostante fosse strategicamente messa di venerdì (giorno  prediletto dagli scioperi dei padri) questa galassia di manifestazioni non riesco a catalogarla come la classica giornata di svago on the road. Si sta forse facendo largo una voglia di aprire gli occhi sul mondo che non appartiene di certo ai loro genitori?
Lo spettacolo indegno a cui sono spettatori, fatto di cuori culi anime comprati e venduti in cambio di brevi attimi di notorietà o ricchezza forse finalmente cozza contro il sogno adolescenziale - e tutt’altro che ingenuo - di un mondo migliore e giusto.
È in questo senso sempre istruttiva la lettura di manifesti e volantini: destra e sinistra usano le stesse parole, scrivono fin nello stesso modo. Magari una parte usa i caratteri gotici e l’altra il curier ma il resto è identico: “Non vogliamo pagare noi la crisi che avete generato voi”, “Vogliamo un futuro”, “Scuola e università di qualità e per tutti”, “Via i politici ladri e porci”.
Ok, non volano alti (devono ancora capire cosa voglia dire) ma questa identità generazionale mette nell’angolo tutti i partiti e, se qualche ragazzo perdesse tempo a leggere le rivendicazioni degli 'avversari', finirebbe pure per accorgersi di quanto siano vicini su questi argomenti pre-politici, e di quanto potrebbero essere efficaci se ragionassero assieme e non divisi dai modelli degli stessi padri che vogliono contestare.
Qualcosa comunque sta per succedere. Ma sì, beato il popolo che ha ancora giovani in cui specchiarsi.
E beati coloro che vorranno volare alti. Nonostante.

lunedì 1 ottobre 2012

Da Roma in Romania e mi ritrovo a parlare di Rom.


Ho passato alcuni giorni a Bucarest. Una missione interessante in una città vivace e piena di spunti. Lì, salta agli occhi l’abisso tra chi ha tanto e chi non ha niente: tante Porsche, Bentley e simili; tanti nullafacenti a guardare i cerchi nell’acqua al parco. A differenza di molti altri paesi dell’area, la qualità del cibo raggiunge la sufficienza, i musei sono bellissimi, e il centro storico restaurato e tirato a nuovo la rende migliore di tante città italiane molto celebrate dagli assessori.
Una questione mi è rimasta in testa e molte domande a essa collegate: i Rom.
Se stai un po’ a Bucarest il tema in qualche modo salta fuori. Sono i rumeni a stimolarti perché sono ubriacati da campagne anti-rom ai limiti del lavaggio del cervello. La discussione si è svolta alcune volte così, sempre identica:
Rumeno: “Cosa pensi dei rumeni in Italia?”
Io: “Niente di particolare. Sono persone che sono dovute emigrare per lavoro. Normalmente molto preparati.”
Rumeno: “Non pensi che siamo tutti dei criminali?”
Io: “Onestamente no. Forse c’era un po’ di diffidenza all’inizio, 10 anni fa, ora non la vedo più. Perché me lo chiedi”.
Rumeno: “I nostri telegiornali dicono ogni giorno che i sentimenti degli italiani verso i rumeni sono sempre peggiori, che non ci sopportate per colpa dei Rom”.
Io (che ho capito dove si vuole andare a parare): “Bhè, è diverso. Non ti nego l’esistenza di parecchi pregiudizi verso i Rom, tensioni talvolta, ma per me i Rom non sono rumeni”.
Rumeno: (sbigottito)  
Io: “Ti assicuro, nessuno lega direttamente Rom e rumeni. Sono italiani, sono quasi tutti nati in Italia”.
Rumeno: “… ma i giornali dicono che ci odiate per colpa dei Rom”.
… e da qui in poi ho provato a smontare i pretesti che  il governo usa per giustificare le peggio cose che  fa ai rom in patria, di come si sia inventato l’ostilità generalizzata ai rumeni all’estero per colpa del popolo Rom. Perversi e diabolici questi professionisti della propaganda, all'altezza dei creatori di certe nostre storie metropolitane quali "Gli zingari rubano i bambini" o "I comunisti mangiano bambini", cose mai nei fatti verificate ma che con la scomparsa dei comunisti ha lasciato i Rom soli contro il pregiudizio.
E qui mi fermo. 
Da tempo ho bisogno di capire meglio la 'Questione Rom'. Sono spesso indignato per come viene gestita dai governi e dalla politica, e dai comitati, e dalle mafie ma mi trovo in un vicolo cieco se penso a cosa farei io se mi venisse dato il potere di intervenire. 
Per ragionare mi servirebbe anche molto conoscere il punto di vista dei Rom su  di me, su di noi, per capire e capirmi. Persone, libri, siti, qualcosa di utile. Ci sono suggerimenti?

venerdì 28 settembre 2012

Riempire le piazze come a Madrid e Atene? Ma anche no...


Per comprendere basterebbe un low cost.
Basterebbe prendessero un bel low cost, una cosa economy abbordabile per ogni testata, anche la più spilorcia. Basterebbe poco ai giornalisti e ai commentatori nostrani per capire “Perché a Madrid e a Atene sono tutti in piazza e da noi no”. Sarebbe anche utile ci raccontassero un po’ di più cosa succede in UK, ad esempio, fuori dall’Euro e messa con le pezze ai jeans molto più di noi.
I commentatori da scrivania – stupendosi per la nostra relativa quiete sociale - parlano di “anomalia” italiana, “Mancanza di vera opposizione”, “Nessuno che unifica le proteste”, e belle frasi che rimandano all’invidia per chi brucia le auto nelle piazze fa arresti di massa, momenti di certo giornalisticamente più fotogenici d’er Batman.
Basterebbe andarci per capire. A mio avviso, la loro situazione e la nostra sono imparagonabili: lo so, è indelicato confrontare il livello di disgrazia e sofferenza, anche perché le statistiche non hanno cuore ma, per capire meglio, si può fare qualche analisi per confronto. Noi non stiamo bene ma:
  • In Spagna hanno la disoccupazione al 25% e quella giovanile al 55%, hanno tagliato stipendi e pensioni almeno del 10% a parità di ore. Hanno mandato a casa almeno il 25% dei dipendenti delle società partecipate pubbliche, privatizzato anche i pompieri. Il paese è una landa desolata con migliaia di negozi chiusi, magazzini abbandonati, complessi immobiliari che non troveranno mai un compratore popolati da fantasmi. 5 regioni hanno dichiarato fallimento e le banche sono allo sbando. Dovunque vai ci sono manifesti e locandine per corsi di tedesco, perché la Germania è la destinazione obbligata per migliaia di giovani.  
  • In Grecia è due anni che sono alla canna del gas. Il taglio reale dei salari viaggia sul 30%, anche delle pensioni. Il turnover è bloccato ovunque. Non spengono gli incendi perché i pompieri neanche li hanno più. Stanno privatizzando ogni cosa con esplosione dei costi nei servizi alle persone e annientamento dello stato sociale. L’evasione è tale che pur essendo circa 50-50 il rapporto tra lavoratori dipendenti e professionisti, i dipendenti contribuiscono a più dell’80% delle tasse.
  • (Ci metto anche l’Inghilterra dove sono stato di recente, e di cui non si parla perché non è nell’Euro, con la disoccupazione ai massimi storici, un modello fallimentare di ‘Big Society’ che postula la società che si aiuto-aiuta senza spese per il sistema, le tasse universitarie pubbliche portate da 3000 a 9000 sterline l'anno, e il taglio secco nel 2011 di 150.000 dipendenti nel pubblico impiego).
Possiamo discutere sul fatto che anche da noi servirebbero misure simili, che siamo messi male, ma possiamo vedere il bicchiere mezzo pieno e prendere atto che non siamo così a terra e che potremmo riprenderci senza arrivare a quei punti. Se solo ci credessimo tutti. Se solo ci fidassimo di più. Se imparassimo a selezionare le idee e le persone con maggiore cura. Se sfruttassimo la prossima tornata elettorale anche per ragionare su un nuovo modello di Paese. Non servono SuperEroi o SuperMario ma solo tante persone normali e oneste.

mercoledì 26 settembre 2012

Fiorito, Lusi, Formigoni e l’esercito dei cloni


È interessante ascoltare il cardinal Bagnasco quando, rivolto alle volpi e alle faine che hanno svuotato i pollai, e lo ascoltano sorridenti in prima fila, li ammonisce “Che l’immoralità e il malaffare siano al centro come in periferia non è una consolazione, ma un motivo di rafforzata indignazione, che la classe politica continua a sottovalutare”. Intristisce quanto non vi sia un briciolo di senso del pudore in chi, come lui e i suoi colleghi, avrebbe potuto dire o fare qualcosa in questi ultimi anni – anche solo indignarsi davvero - ma si è limitato a incassare i dividenti dell’investimento in governi che ne hanno garantito i flussi finanziari e pochi ipocriti provvedimenti di facciata.
Del disastro culturale e valoriale in cui siamo caduti ciò che mi fa più male è la constatazione che ormai non vi è nessun moto di indignazione credibile, solo pochi proclami brontoloni, ingenui e ininfluenti su Facebook, il Pasquino del terzo millennio.
Molti sono convinti che quello che è accaduto, e continua a accadere, sia inevitabile e così, in fondo, si autoassolvono di un peccato che sanno che essi stessi avrebbero commesso se fossero stati messi nella posizione di Lusi, Fiorito e maialame vario clonato dall’unto. Perché è lì che siamo arrivati: alla fine della coscienza morale intesa come la capacità di distinguere il bene e il male e di agire di conseguenza.
Tutto è permesso fuorché uccidere, e la pervicacia con cui non si vuole una legge per dare dignità alla ‘fine della vita’ sembra quasi la foglia di fico per non dire che davvero tutto è permesso a chi è clone, o aspira a diventarlo.
L’opera di ricostruzione non in questo caso non può coincidere con l’equivalente sforzo necessario in un dopoguerra, in cui ‘la meglio gioventù’ si chiama a raccolta per riannodare i fili spezzati, dare speranza sviluppare opportunità per tutti, ma non può che essere una dichiarazione di guerra all’ignoranza, all’egoismo, alla partigianeria, all’arroganza, alla paura, al nepotismo, all’ipocrisia, fatta da singoli che si riconoscono reciprocamente autoimmuni dal virus che ha danneggiato il dna di milioni di persone, specialmente giovani. E si organizzano, e hanno pazienza, e coraggio, e idee e sogni. Per ricostruire fiducia e coesione sociale. Per liberare l’Italia dalle catene che gli italiani si sono lasciati mettere a patto che fosse in diretta tv.

sabato 22 settembre 2012

Disoccupati di tutto il mondo: fate sempre e solo "cheese"!


Li ammiro i pubblicitari, i creativi, gli sceneggiatori, non demordono e inseguono il cliente senza fermarsi davanti a nulla: mitizzano la sfiga se serve, trasformano il disagio (altrui) in (loro) opportunità, cambiano la semantica dei termini, sorridono a chi annega nel fango sperando così di portargli sollievo. In tempo di crisi i consumatori sono disoccupati e, certo, duro diventa il loro lavoro se il disoccupato gli si deprime, se non spende più per trastulli inutili, rinuncia al prodotto di marca, non aggiorna le app dello smartphone o l’auto, smette pure di farsi lo spritz e di scommettere sui goal dell’Albinoleffe.
Il fatto che un paio di generazioni non comprino come e cosa si è deciso per loro li mette in crisi.
Ecco allora che il genio si accanisce sul disoccupato per convincerlo che 'disoccupato è bello' e pure fascinoso, e evitare di diventarlo lui stesso.
UNEMPLOYED OF THE YEAR” è la nuova campagna di Benetton per vendere magliette e calzini. In Benetton, ovviamente, non si capacitano del fatto che i disoccupati stiano diventando consumatori imperfetti e preferiscano rattoppare la mutanda piuttosto che comprare l’underwear e considerino i jeans ereditati dal cugino un dono del cielo. Per questa pubblicità hanno preso attori a cui hanno assegnato la parte dei finti disoccupati in completino mistolana e camicetta noironing, e inneggiano alla fortuna di essere a spasso perché così si ha il tempo di partecipare tutti a un concorsino per vincere 5.000 euro, giusto quanto serve a cambiare il guardaroba.
Come il disoccupato sia incastonato nel cuore dei media e nel mirino degli inserzionisti è evidente anche in “THE APPRENTICE”, il nuovo reality in cui Flavio Briatore, improbabile leader senza macchia e senza paura, icona di coloro che hanno finora consumato il presente dei giovani per dare un futuro a se stessi,  taglia teste a baldi volontari lampadati che vorrebbero lavorare per lui (e già per questo andrebbero comunque puniti).
Si percepisce la necessità di aver un bel disoccupato tranquillo, pulito, integrato e pettinato, del cui benessere preoccuparsi, disposto a tutto per essere all’altezza di ciò che chi ha pianificato il suo futuro si aspetta da lui, voglioso di essere adottato ma non progettato per essere rispettato.
Sembra opportuna l’istituzione di un cavalierato anche per il non lavoro. Già ne posso immaginare la celebrazione, con Emanule Filiberto che consegna il titolo di Cavaliere del Non Lavoro a Pino da Perugia che si è comprato il Freelander coi soldi della pensione dei nonni e a Sara da Pordenone che ha raggiunto l’invidiabile primato di 30 stage non retribuiti.
Sì, del disoccupato ne propongo la nomina da parte dell’Unesco a Patrimonio della Pubblicità.

giovedì 13 settembre 2012

Il papà manager (assente): Complementi di educazione per genitori (caso 2).


Nel mio percorso di gavetta genitoriale, dopo l'incontro con la nonna sussidiaria di qualche tempo fa, trovo oggi rilevante questa discussione avuta col padre manager.
Lui è un dirigente di alto livello che ha da poco superato i 60 anni. Mentre mi parla gesticola continuamente. Con me si è sempre molto aperto, gliene sono grato perché mi dà spunti di riflessione e neanche so perché lo fa. E' sempre incuriosito dalla mia scelta di fare molto il papà, a volte credo quasi che mi studi, o attenda il mio ripensamento, o chissà cos’altro. Di colpo mi dice: “Sai, credo di essere stato un padre molto assente e che questo abbia provocato danni profondi nei miei figli, e nella mia famiglia in generale”. La figlia grande ha 30 anni, il maschio 25. “Li ho lasciati in carico a mia moglie, una donna dura, religiosissima. Li ha educati lei. Io intanto guadagnavo in giro per l'Italia. Tanto. Avevo in testa il dovere di assicurargli un benessere duraturo e ricco. Gli ho comprato una casa ciascuno, e una casa al mare. Gli ho pagato ogni cosa”. Mi ha guardato come se fossi stato uno di loro: “Non ho fatto bene. Ho sbagliato. E ora è tardi”.
Non avevo nulla da dire.
“Tutta l’educazione, le basi che determinano come sarai da adulto, si concentra nei primi 5 anni dei bambini. A 10 hai già finito il tuo lavoro vero. Quello che viene è il raccolto o invece una inutile rincorsa a tappare buchi…” e ha proseguito lungo la strada delle occasioni perse. “Mia figlia è diventata una fondamentalista religiosa come la madre e si scontrano continuamente senza ascoltarsi. Il maschio è ateo e disinteressato a noi. Mia moglie ha il pallino della medicina naturale e loro si curano anche il raffreddore cogli antibiotici. In casa c’è sempre una tensione che ti vien voglia di uscirne… ma non posso dare la colpa a mia moglie, la colpa è solo mia che sono uscito troppo quando ci dovevo essere”. Ho solo annuito, prendendo nota.

sabato 8 settembre 2012

Sto dalla parte dei lavoratori se qualcuno sta almeno un pochino anche dalla mia.


Qualche settimana fa una matrona veggente dell’INPS, guardando nel mio futuro ha affermato che potrei andare in pensione a 67 anni e 2 mesi. Ha anche estratto alcuni numeri corrispondenti all’ammontare in euro che percepirò quel giorno, una cifra spiritosa se non mi sbrigo a metterci sopra una ‘pensione integrativa’. Ha infarcito le sue frasi di “forse”, “probabilmente”, “se non cambia la legge”, “con le regole attuali”, che hanno reso del tutto aleatoria ogni altra sua affermazione e mi hanno sempre più convinto che lo schema “lavora, risparmia e alla fine goditi il meritato riposo” tende a avvicinarsi troppo all’eterno riposo.
Non è che non lo avessi sempre pensato. “Lavorano solo quelli che non sanno fare altro”, me lo ha detto a tavola Massimo Bucchi, l’autore geniale della vignetta quadrata al centro del quotidiano ‘La Repubblica’. Lui è un toscanaccio irriverente e buttata lì così l’affermazione sembra un’offesa a chi il lavoro non l’ha ma in realtà è un esorcismo per chi non vuole pensare che dovrà lavorare per tutta la vita e poi morire e dunque vuole illudersi che quello che sta facendo sia altro, magari un hobby evoluto, un passatempo totalizzante, un disturbo che poi passa.
Le cose stanno cambiando più velocemente del sistema che le deve prevedere e governare. Che l’Ilva di Taranto fosse una follia da ogni punto di vista era risaputo, così come lo è l’Alcoa e le miniere di carbone in Sardegna, ma lo è anche la Fiat da almeno 30 anni e molte altre realtà utili solo alla politica, sostenute dalle nostre tasse, pilotate spesso da incompetenti totali se non da ladri in doppiopetto, distruttrici di territorio. Così come una follia sono stati i baby pensionati, ma anche i pensionati a 50-55-60 anni.
Ora il banco è saltato, il modello scricchiola, Schettino che abbandona la nave diventa un furbo da imitare: la rabbia di molti scagliata contro la ‘casta’ serve anche a scaricarsi di responsabilità e a negare che il debito pubblico, il disastro morale e ambientale non siano prodotti anche dall’aver vissuto per decenni nell’ignavia.
È l’ignavia di chi non chiede la ricevuta fiscale, degli inquinatori che avvelenano i propri figli, dei sindacati che difendono privilegi e storture immorali, del lavoratori che non lavorano, dei manager che pensano 60 volte al minuto solo al proprio culo e alla propria sedia, delle banche che piegano la realtà ai propri dividenti, di chi con piccole e grandi mafie scende a patti ogni giorno.  
Ma gli ignavi vanno all’Inferno, di questo sono certo. Non sono molti, sono moltissimi, e il guaio è che ci trascinano anche molti che le responsabilità proprio non le hanno: tutti gli altri.
Ormai è chiaro come non si possano salvare certi posti di lavoro, servirebbe solo a prolungarne l’agonia spendendo un altro fiume di denaro. Come le logiche che governano il pubblico impiego andrebbero del tutto riviste. Servono coraggio, idee, cuore e, soprattutto, fiducia. Allora le soluzioni nascono e si sviluppano, i soldi si trovano, eccome.E anche molti ignavi possono aprire gli occhi, perché sono un ottimista e penso che se si costruisce un contesto di fiducia le persone cambino
D'altronde queste operazioni, senza la fiducia, le fanno solo i regimi totalitari, che molti gradirebbero, è evidente, ma che io spero si sia in grado di evitare.
Sto dalla parte dei lavoratori, dunque, se qualcuno sta almeno un pochino anche dalla mia.

mercoledì 22 agosto 2012

Gli e-book mi fanno paura.

Gli e-book mi fanno paura, lo ammetto. Il mio è un coming out piuttosto sofferto.
Ci ho messo parecchi mesi a capirlo. All’inizio mi limitavo a evitarli, a guardarli con sospetto, a non volerli neppure toccare, a dire esplicitamente “Non regalatemelo a Natale” senza sapere bene il perché.
Ero io stesso spiazzato dal mio turbamento: con una laurea in informatica sottovetro mi aspettavo maggiore entusiasmo per un supporto oggettivamente rivoluzionario. Non sono neppure un nostalgico dell’odore della carta; sono uno che butta o regala molti dei libri già letti, e se non mi piacciono li butto anche prima, e gli faccio le orecchie, li dimentico qui e là, li compro pure su Internet contribuendo alla chiusura delle librerie.
Ma gli e-book no. Non è che non mi piacciano, no, è che mi fanno proprio paura.
Adoro trovare “Chiedi alla polvere” o “Un uomo” sulla bancarella dell’usato, a 2 euro l’uno; mi preoccupa assai averli su un oggettino di valore che mi impedisce di regalarli o lasciarli sul treno una volta letti sperando che vengano adottati da occhi anche migliori dei miei.
Mi tranquillizza solo pensare che l’e-book sia un gioco, non un libro. Allora per un po’ mi diverte la sua iperrealtà, i pulsantini o il touch, l’annotazione, la multimedialità, le modalità per rendere la lettura collettiva (quasi un ossimoro).

Mi terrorizza che qualcuno sappia se/cosa/dove/quando leggo: potrebbe presto arrivare a conoscermi meglio di me stesso e voler raddrizzare il mio status di consumatore imperfetto.
Mi spiazza poi che l’unico elemento ormai in grado di dare una minima idea di chi abiti le nostre case standardizzate (sia a chi vi entra che, spesso, a chi vi vive) possa sparire nella monodimensionalità del reader.
Mi inquieta già la certezza matematica che cambieranno presto formato ai file per vendere nuovi supporti, ‘più leggibili’, ‘più libri del libro’. Sarà poi che dell’ebook non ce n’era bisogno perché il libro va bene così: non va ricaricato, nessuno lo controlla, non è schiavo dei formati (spiegate alle mie cassette VHS, ai miei LP, e presto anche ai miei CD, dove possono andarsi a infilare).
Se il libro me lo rubano sono quasi un uomo felice. Certo, il libro brucia bene. È il suo principale difetto, e ancora nel recente passato regimi, chiese e dittature ne hanno goduto. Però se brucia un libro si accende almeno un fuoco nella notte, sale un fumo visibile in lontananza, non si può sostenere che non sia successo; se invece sparisce un file non alita neppure un chip e ti viene il dubbio che sia accaduto davvero. E mi paiono più che probabili gli scenari apocalittici in cui un virus, il Ministero della Diseducazione o la SPECTRE impediscano via software un giorno a migliaia di persone di leggere tutto o qualcosa, magari solo “quel libro lì”, in “quel paese là”.

Insomma, mi mette a disagio perché facilmente il mio reader non sopravvivrà a me stesso e il puzzle delle mie letture preferite non sarà ricomponibile in un nuovo disegno da parte dei miei figli. Se fosse per me, occorrerebbe quasi coniare un nuovo termine per definire la lettura su e-book. Potrebbe essere che lì si “e-legge”, che poi come gioco di parole m’incupisce e fa rabbrividire più di tutto il resto. 

sabato 18 agosto 2012

La Mia Austria – Seconda Parte


Nel post precedente ho raccontato cosa mi affascina, piace e stupisce positivamente di questo Paese. È facile fare i complimenti perché tutti quelli che leggono si sentono chiamati in causa. Ora, per non sembrare uno che si vende per qualche chilo di biscottini natalizi, vi racconto cosa non convince di questo bel posto. Ovviamente, non riguarda tutti gli austriaci, ma solo quello che sento:

In Austria c’è troppa Tradizione: è bella la tradizione, quando non diventa un alibi per la chiusura mentale e un ostacolo allo sviluppo delle intelligenze. In Austria ogni anno sono più ricchi e hanno meno problemi reali. Ma hanno più paure e allora diventano più conservatori, chiusi in una torre di cristallo perfetta. L’unica paura vera è quella di perdere ciò che hanno anche se la sensazione è che spesso nemmeno lo comprendano. La loro stampa, ad esempio, è di una superficialità e vuotezza imbarazzante. Allora ecco che l’ordine, il fare gruppo, magari tutti coi pantaloni di cuoio o vestiti da bambola di ceramica, pericolosamente vicini all’autarchia culturale, diventano la via più facile per affrontare il mondo.

In Austria rischiano di diventare presto berlusconiani senza saperlo: Sono preoccupato per loro. L’involuzione politica li sta portando all’Italia negli anni ’90. Forse il crollo è cominciato con la morte di Haider, il superconservatore razzista che si è stampato in autostrada tornando da un bordello omosessuale. La mancanza di un vero leader ha aperto crepe nel sistema che hanno portato alla luce giri vorticosi di mazzette milionarie. I partiti tradizionali che hanno governato negli ultimi 50 anni hanno allora perso ogni credibilità... Questa storia l’avete già sentita? Ora vi dico anche che la settimana scorsa è pure ‘sceso in campo’ il multimiliardario ottantenne Stronach, padrone della Magna (colosso industriale che ha conteso la Chrysler alla Fiat) e andrà a occupare uno spazio nel centro-destra che molti valutano già tra il 20 e il 25%. Non si sa se il partito verrà chiamato Forza Austria (sempre che Berlusconi non ne abbia registrato il copyright).

In Austria si beve troppo: ci danno dentro con vigore, pure troppo. Uomini e donne. Coppie che conosco si tirano regolarmente una bottiglia di rosso ogni sera. Dicono che aiuti a sciogliersi. Mi viene raccontato che se gli uomini ti corteggiano e non bevono non arrivano mai al punto, e se invece bevono ci arrivano troppo velocemente. Lo so, non sono i soli a bere molto, ma è triste vedere come se ne compiacciano. Sembra quasi che nell’alcool cerchino di realizzare una ‘realtà aumentata’ che non gli appartiene perché sono comunque troppo timorosi nel muoversi nella realtà concreta.

In Austria hanno la Red Bull: stavolta non riuscirei a trovare un equivalente in Italia. La Red Bull è il dominus ideologico-commerciale del paese. È una bevanda al sapore di medicinale che serve a stare svegli. Sponsorizza ogni tipo di quasi sport venga bene in televisione e se ne inventa pure decine di nuovi senza alcun senso.
Gli austriaci sono tristi perché non hanno vinto nessuna medaglia alle Olimpiadi. Non hanno capito che il loro Ministero dello Sport è una fabbrica di caffeina con le bolle che smercia una filosofia di vita che spinge i giovani a trasgressioni che non cambino nulla, una specie di ‘famolo strano’ applicato allo sport e alla vita in generale. A mio avviso quella roba lì corrode anche le menti oltre che i fegati. Non è però gradito che se ne parli male, proprio come capita della carne di balena in Norvegia (che fa schifo pure quella).

In Austria i bambini sono spesso non benvenuti: In molti ristoranti non vogliono i bambini. Secondo me è perché i minori di dieci anni non sono in grado di garantire gli stessi standard di ordine, silenzio, formalità e pulizia che sono certi di trovare in un adulto. È pieno di Familien Hotel, Familien Therme, Familien Restaurant, non so più se sono davvero per le famiglie o per dire chiaramente che negli altri posti le famiglie non le vogliono proprio. In Italia (specie a Roma), i bambini in società sono un po’ di tutti, qui non tanto.

In Austria la Chiesa Cattolica è un club: lo so, è difficile trovare posti in cui il rapporto della Chiesa con lo Stato sia più malato che in Italia ma qui se la giocano con noi. Ad esempio se vuoi essere nella Chiesa devi pagare una tassa che se non paghi finisce pure che ti pignorano i mobili. Puoi però cancellarti dagli elenchi ufficiali dei credenti e da quel momento in poi non paghi ma non puoi sposarti in chiesa, far fare la Comunione a tuo figlio e usufruire dei vari servizi e sacramenti, proprio come in un Golf Club. Un bel po’ di vescovi e preti pedofili e le sciagurate posizioni antiecumeniche di Wojtyla hanno fatto scendere di parecchio il numero di quelli che questa tassa la pagavano con gioia.

In Austria hanno cucine anti-italiane: questo – lo ammetto - è un problema solo mio. Qui hanno piastre elettriche nel 95% dei casi (le restanti sono a induzione magnetica) e questo mi fa impazzire quando devo cucinare seriamente. Questi attrezzi hanno tempi di riscaldamento/raffreddamento incompatibili con la gastronomia italiana e non sono omologabili per soffritti e cotture veloci.

Spero di non aver urtato nessuno degli amici austriaci che leggono e commentano i miei post. So benissimo che l’essere un italiano mi dà pochi titoli per criticare, ma è l’istinto dello scrittore che mi fa sempre vedere le cose dall’esterno, anche quando ci sono immerso fino al collo.
Con affetto. Prost!

mercoledì 15 agosto 2012

La Mia Austria – Prima Parte


Dopo oltre dieci anni di vacanza e parentela, sintetizzo per chi fosse interessato a quest’angolo di mondo così vicino e così diverso, come lo vedo e cosa ne penso.

In Austria la gente si fida: si fida degli altri, del vicino, dello Stato, del sistema in generale. Questo concetto lo metto per primo perché è a noi sconosciuto e condiziona tutto il resto. E quando la gente si fida, le comunità funzionano, gli anziani sono meno soli, l’indignazione muove ancora le coscienze all’azione civica, gli ultimi sono meno ultimi, i fornitori onorano i contratti, i clienti pagano in tempo,
Per spiegare un po’ il concetto, vi racconto due piccoli episodi:
·        come ogni mattina aspettavamo il postino che arriva davanti a casa col furgoncino, tira il freno a mano, entra dalla porta che qui lasciano sempre aperta e posa le buste sul tavolo della cucina; stavolta mi suocera si alza di scatto e gli va incontro con un grande sorriso; la giornata è speciale perché lui le sta portando la pensione, in contanti, guidando il Fiorino, disarmato e tranquillo, e poi la porterà a tutti gli altri pensionati della zona, per chissà quante altre migliaia di euro cash.
·        quando vedete una casa in costruzione ci sono sempre una decina di grossi pannelli accanto che fanno pubblicità alle diverse ditte, a quella che ci mette il cemento, a quella che fa l’impianto idraulico, o il giardino, o i pavimenti e così via. Già, perché tutti lavorano alla luce del sole e senza tutti i permessi non troveresti mai un elettricista che ti fa l’impianto e poi tanto l’elettricista non lavorerebbe in nero, e così via… 

In Austria è tutto pulitissimo: qui le strade, i marciapiedi, i giardini, le casette in stile Heidi, i giochi per i bambini tutto è ordinatissimo e sopratutto pulito. L’ignavo italiota si chiede “Ma puliscono le strade 2 volte al giorno?”. No, non accade quasi mai, è che qui non le sporcano, è semplice. Nessuno sporca, tutti rispettano gli spazi pubblici, elementare Fritz.

In Austria riciclano tutto: la separazione dei rifiuti fa parte di un protocollo che solo dopo una decina di anni credo di aver compreso almeno nelle sue linee principali. Riciclano quasi tutto al punto che la spazzatura indifferenziata viene raccolta ogni 15 giorni (!). C’è il vetro (che va diviso in chiaro e scuro), carta, metallo, organico, tetrapak, le capsule del Nespresso, e forse altre cose non ancora alla mia portata culturale.

In Austria resiste un bel modello di welfare: hanno un sistema di welfare generosissimo e funzionante che rispetta la persona e merita alcuni esempi per somme linee.
·        Il congedo per maternità: sono previsti fino a 20 mesi durante i quali la donna  percepisce circa 800 euro al mese, indipendentemente dal suo stato lavorativo (disoccupata, manager, non c’è differenza). Ma siccome in molte si sono lamentate per la lunghezza del congedo, lo Stato consente di accorciarlo ma, ovviamente, i soldi desiderati sono gli stessi, anzi se torni prima te ne do anche di più. La forma più gettonata prevede una indennità di 2000 euro al mese per 10 mesi di congedo. Poi ci sono gli assegni familiari che ancora a 18 anni pesano per circa 200/euro al mese ma questo ve lo risparmio.
·        Educazione: dai 3 ai 18 anni tutta l’educazione è gratuita, inclusi libri, scuolabus, e quello che potete immaginare. L’università? Gratuita ovviamente anche quella e se sei bravo e in corso ti danno un contributo per vitto e alloggio.
·        Sanità: per quello che vedo e ho provato, funziona ed è di qualità. In tutti gli ospedali, ambulatori, studi, ho avuto l’effetto “hotel” in cui mi chiedevo quante stelle avesse quella struttura (comunque sempre più di tre). Esempio, piccolo ma significativo, un mio conoscente che vive in un paese un po’ periferico deve fare la dialisi e lo Stato gli paga 3 volte la settimana il taxi per i 30 chilometri da casa sua al centro dialisi…

In Austria amano la musica: in moltissimi suonano strumenti di ogni tipo. È normale andare a casa di qualcuno per una festa o un aperitivo e trovare un quartetto d’archi che se la sviolina per il piacere di tutti. Cantano in mille cori e tutti ballano a livelli – per me - inarrivabili.
Il ballo, come lo sci, si impara a scuola, e il ballo della maturità è un evento da ricordare. Ho avuto la fortuna di partecipare a uno con orchestra dal vivo, valzer e polke fino a mezzanotte e poi DJ e luci strobo fino alle tre.

In Austria hanno attenzione maniacale alle piccole cose: la qualità della confezione di un regalo conta come il regalo stesso. Bigliettini, fiorellini, ricamini, biscottini, dettagli per un italiano medio insignificanti diventano il perno di una relazione di amicizia. Si regalano per natale un paio di calzini con allegata una barretta di cioccolato con allegata spiga di grano e sono capaci di emozionarsi per questo e ringraziarsi sinceramente per venti minuti. Un aspetto evidente di questa attenzione al dettaglio sono le casette perfette che si vedono nei paesi di montagna e gli arredamenti minimal di molti appartamenti di città.

In Austria amano l’Italia e gli italiani: questo è un mistero visto che noi siamo tutto quello che loro non sono, o forse ci amano proprio per questo. A volte penso quasi che siamo il loro Mister Hide e ogni tanto vorrebbero essere indisciplinati, rumorosi, caciaroni e furbetti come noi. Poi però mettono la testa a posto e si limitano a guardarci alzando la bottiglia di birra. Prost.

Siccome non vorrei pensaste che sono pagato per fare uno spottone, tra qualche giorno vi tocca un nuovo post su cosa non mi va a geniodi questo posto così particolare.

giovedì 9 agosto 2012

Faccio la lista dei prodotti che spazzerei via dai supermercati.


Sai quella sensazione di quando hai un post in canna ma non è mai il momento giusto per scriverlo? Ecco, ogni tanto, al supermercato, mi viene spontaneo “Ora su questo scrivo un post. Così, per pensarci sopra e sfogare un po’ di frustrazione”. Poi non lo fai. Poi viene una giornata di pioggia estiva e, siccome in casa nessuno apprezzerebbe eventuali lumache mi limito a scrivere quel famoso post rimasto appeso alle dita.
Premetto che faccio spesso la spesa e poi cucino le cose che compro. Frequento i supermercati, i negozi di via, discuto ai banchi del mercato e scambio consigli con le matrone che mi dicono la loro sul destino migliore per un carciofo o per l’arzilla.
Mi irritano i prezzi farlocchi, i prodotti tarocchi anche se di marca, quelli davanti ai quali ti senti preso per il culo.
Ne metto in fila alcuni, per una minigogna che leggerete in non più di 7, alienati dalla calura d'agosto.
Vorrei qui BANDIRE:
a)      il Nespresso e lo zucchero della stessa marca. Il Nespresso è creatura della più azzeccata campagna di marketing degli ultimi anni. Trattasi di 20 gusti di caffè tutti identici dentro a cialde irriciclabili dai colori metallizzati così improbabili che neanche la Volkswagen li tiene in catalogo. Ma soprattutto è una truffa da 50 centesimi circa a tazzina (contro i 6-7 centesimi di un espresso normale), e se usi la bustina di zucchero brandizzata Nespresso devi sapere che stai usando un sottoprodotto della barbabietola che vale circa 43 euro al chilo. Della serie: date ‘purghe ai pirla’.
b)      la pasta quando costa più di 60 centesimi a pacco (arrivo a 90 cent per quella di qualità): è provato il cartello che i produttori fanno regolarmente tra loro (e i milioni di euro di multa che hanno pagato per questo, ma i giornali ne parlano poco perché hanno le mani in pasta). E poi c'è la pasta di design, quella piccolina che cosa di più, le eliche o le magagne che costano il triplo, tutta roba per analfabeti del cibo.
c)      gli jougurtini per bambini. In primis della Danone ma anche degli altri produttori. Sono dei ditali colorati talvolta con fumetti o faccine sulla confezione che contengono lo stesso identico prodotto di quelli per adulti e costano una fortuna. A conti fatti arrivano a 10-12 euro al chilo quando un chilo di jogurt normale va via per 2-3 euro al massimo. Mi irritano perché giocano sul target “bambino”, proiezione delle nostre ansie, ricettacolo di cibi di alta qualità estetica, paraculi in grado di farsi infinocchiare da un leoncino sull’etichetta peggio dei loro padri che si fanno fregare da una gnocca qualsiasi nella pubblicità del dopobarba. 
d)      il latte a 1,80 euro e più al litro che ti viene da invocare il licenziamento dei manager che li mettono sul mercato. Come fa la Mila a distribuire a Roma un latte buonissimo prodotto in trentino  a 1,20 euro e quelli della Centrale di Roma non riescono a stare sotto il 1,80? E quando ci scrivono “Alta Qualità” non è una presa per il culo? La risposta non mi interessa, licenziateli e basta. Assumete degli stambecchi trentini che sono di certo meglio.
e)      i Pampers: sono i pannolini più cari, più fashion e colorati. Per venderli a genitori coi sensi di colpa, ogni tanto se ne inventano una per metterti ancora più in crisi: un anno sbucano fuori quelli per maschietti diversi da quelli per femminucce, l’anno dopo quelli da giorno diversi da quelli da notte. Sono una marea di cazzate. Criteri per la scelta di un pannolino: quelli che costano meno. Fine, tutto il resto è marketing.
f)        il pane a oltre 4 euro al chilo: ora, tutti conoscono il prezzo della farina, acqua e lievito e anche uno scarso in addizioni dovrebbe sentire puzza di bruciato. E si trovano fantastici pani tra 1,80 e 2,50 euro al chilo. Fuori chi non sa stare sul mercato e prova a convincerti che prezzo alto corrisponde a pane migliore, fesserie da boutique pariolina.
g)      L’olio extravergine di oliva italiano a meno di 3 euro al litro. Semplicemente è una truffa (e la magistratura inquisisce regolarmente i maggiori produttori italiani, le famose ‘grandi marche’, ma i telegiornali sono oliati a sufficienza per non parlarne). Di nuovo semplici regole aritmetiche dimostrano che non può costare meno di 4 euro al litro se viene dal sud Italia e almeno 6,5 euro se prodotto al nord. Vigilate, perchè non sapete né il giorno né l'ora in cui sarete fregati.
h)      Le acque minerali, e qui mi si accappona la pelle. Prodotto tra l’inutile e il dannoso, di norma peggiore dell’acqua dei nostri rubinetti, necessario più di ogni altra cosa a vendere la bottiglia e a far circolare qualche migliaio di TIR sulle nostre strade. Tanto per dirne una a caso: qualcuno pensa che l’acqua estratta da una falda dalle parti di Scorzé (Venezia), a due passi dalla tangenziale di Mestre, in una delle aree più inquinate del paese possa essere potabile? Bene, dicono che lo sia, la etichettano come “San Bernardo” e pure come “Guizza” (misteri del marketing) e la vendono con la rondinella sulla bottiglia.
i)        Infine vorrei bandire l’idea che il supermercato convenga rispetto ai cosiddetti ‘negozietti’ o mercati rionali. Il supermercato vince ormai solo sui prodotti di grandissima distribuzione (pasta Barilla, Olio Carapelli, Kinder Brioss e cose così) su cui può andare sottoprezzo per drogare il mercato. Perde invece per KO su tutto il fresco ma anche sul confezionato di qualità. Ogni tanto per farsi bello infila in cassetta della posta le famose offerte 3x2 o simili, falsi ideologici. Il modello del supermercato vince però, in modo schiacciante, sulle modalità della spesa: progettate ad hoc per clienti fintamente social che vogliono evitare il contatto umano, non parlare con nessuno, non rendere conto dei propri gusti se non alla cassiera e a qualche migliaio di analisti del comportamento che, osservandoli, stanno già progettando il packaging del prossimo panettone di Natale.