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venerdì 23 gennaio 2015

Se mia figlia partisse per portare aiuto ai profughi di Kobane.

La vicenda delle due volontarie italiane rapite in Siria e poi rilasciate dopo mesi mi porta naturalmente a pensare cosa avrei fatto/ detto/ pensato nei panni dei genitori delle ragazze prima, durante e dopo la prigionia. La stessa riflessione la farei come ipotetico padre di chi a vent’anni parte per andare a aiutare la ricostruzione in Palestina, a assistere i malati in Guinea, a costruire socialità a Rosarno, a educare bambini in Pakistan.
Mi chiedo cosa farei come genitore messo di fronte a decisioni così importanti e radicali da parte di figli appena maggiorenni. Prevarrebbe in me il “Te lo proibisco!”, meccanismo di difesa della famiglia patriarcale? Oppure direi “Decidi tu, la vita ormai è tutta tua”? Tenterei il ricatto affettivo? Sfodererei la logica cinica del “E’ una cazzata, pensa al tuo futuro, non ne vale la pena”? O insinuerei l’opportunista “Li puoi aiutare di più stando a casa e impegnandoti nel tuo quotidiano a  migliorare il mondo”?

Quel giorno spero di poter avere davanti una persona capace di esercitare spirito critico e prendersi responsabilità. Sul resto non credo di aver diritti né poteri.
Questo mi deve bastare, a questo voglio lavorare finché lei è ancora piccola. 
Perché a vent’anni sono degli adulti, devono essere degli adulti, altrimenti saranno già fottuti dalla vita. Magari sono degli Adulti Inesperti, ma questo – vista la velocità del cambiamento - in qualche misura è vero per tutti sino alla fine della vita.
Perché poi alla domanda “Serve qualcuno che si impegni in Palestina, a Rosarno, nelle favelas?”, la mia risposta è sì. 
Impedire che ci vada una persona cara diventa allora solo ipocrisia. 
Io non ci andrò mai lo so bene; chi lo fa, lo fa anche in mio nome, anche quando sbaglia, perché io non lo saprei fare meglio. 
Allora il minimo che devo accettare, direi quasi pretendere, è che le tasse che pago contribuiscano ai loro progetti, di certo più sensati che quelli militareschi (e ingenui) della Guerra tra Civiltà  che serve a distrarci dalla Guerra tra Ricchi e Poveri che poi è l’unica davvero in atto. E – se mai davvero servisse – le mie tasse voglio che servano anche a pagare i loro riscatti per riportarli a casa.  

Per ragioni lavorative incontro molti giovani cittadini che non si pongono alcuna prospettiva che vada oltre alla sala Scommesse, allo shopping sul Corso, che protraggono la loro condizione di post adolescenti fino a età imbarazzanti, anche oltre i 30 anni. Stanno lì, già delusi dalla vita, demotivati, giustificati da alibi che la famiglia e i media forniscono a buon mercato, parcheggiati in un eterno presente dal quale pretendono benessere senza dare nulla, del quale si lamentano senza proporre alcunché. Poi ne incontro altri, più tormentati, consci della trappola in cui si sono cacciati, che si muovono in molte direzioni alla ricerca di quella linea d’ombra che li separa dall’età adulta e che nel ‘fare qualcosa per gli altri’ trovano le ragioni per cui occorre ripensare se stessi, studiare, sperimentare.


Come padre credo che il mio mandato sia quello di fare sì che mia figlia a vent’anni non sia parcheggiata nel presente. Che prima di partire per qualsiasi avventura di vita sia preparata, motivata e vocata. Una volta attivata in lei questa forma di impegno e libertà toccherà sempre a lei decidere.
Io potrò dialogare con lei in modo credibile se io per primo sarò impegnato anche a 60 anni di incidere sulla realtà che mi circonda, altrimenti sarà meglio tacere e limitarsi a pagare le tasse.

giovedì 8 gennaio 2015

Il coraggio di riuscire a tenere la penna sempre carica

L’atroce attacco alla redazione di Charlie Hebdo contrapppone ancora una volta il potere del libero arbitrio, della libertà di coscienza e di parola nel mettere a nudo le ridicole inconsistenze dei governi e delle religioni con la forza delle armi e dell'intolleranza. 
L’informazione, la satira, la letteratura, l'educazione diventano così i nemici naturali di terroristi e tiranni perché pongono domande, aprono mondi possibili, rintuzzano la retorica dell’ufficialità, asfaltano le sceneggiate dei talk show, svelano i pulpiti di cartapesta.  


Ci siamo malamente assuefatti, considerandoli inevitabili, alle vite braccate di Roberto Saviano e Salman Rushdie e di molti giornalisti italiani che vivono sotto scorta. Facciamo finta di non cogliere come molti autori si autocensurino per vivacchiare come meglio possono (mi viene in mente Pamuk in Turchia).
La forza dell'informazione e della creazione artistica spaventa. È di qualche giorno fa l’attacco della Corea del Nord contro un filmetto fracassone prodotto dalla Sony che come effetto collaterale ha già portato alla cancellazione della produzione del film tratto dallo splendido fumetto “Pyongyang” di Guy Delisle. 
Al Cairo ci sono in questo periodo 3 giornalisti di Al Jazeera sotto processo per aver osato raccontare da un punto di vista non autorizzato i fatti della Primavera Araba. Nel loro caso, forse maggiore indignazione  e proteste da parte di tutti avrebbero davvero aiutato perché, lo sa bene Boffo che fu cacciato da Avvenire per aver messo in difficoltà il patto tra Vaticano e Berlusconi, l’onesta intellettuale esercitata verso la propria parte è tra le più difficili da sostenere.

Ancora oggi sento dentro di me il vuoto di opinioni e alla conoscenza che la mancata copertura mediatica alla guerra del Golfo e a quella in Afghanistan ha provocato in tutti noi grazie alla bella invenzione americana dei giornalisti embedded, pecorelle ammaestrate e nutrite a comunicati stampa del Pentagono. Una invenzione che quelli dell’ISIS hanno ripreso e migliorato con l’ostaggio-giornalista John Cantlie che per sopravvivere declama su Youtube la gloria e le ragioni deliranti dei fanatici combattenti.
Intimorendo la stampa, i terroristi (e i potenti) ci impoveriscono laddove sono le basi del nostro essere: nella capacità di discernimento e giudizio, e dunque nella nostra capacità di comprensione del mondo che ci circonda.

Mi irrita allora la vuotezza di quasi tutta la stampa televisiva autocensurata, afona di vere domande e contraddittori, avvezza all’inchino e alla confidenza verso chi dovrebbe invece tallonare, mettere in imbarazzo. 
Prima di arruffianarsi i lettori e gli spettatori con i loro "Je suis Charlie", le nostre testate dovrebbero ripetere che siamo 49vesimi nella classifica internazionale sulla libertà di stampa e sono pochi gli sforzi perché il 52% degli italiani che non legge neppure un libro all’anno esca dal girone degli ignavi. Faccio qui notare come l’ultimo oggetto editoriale paragonabile a Charlie Hebdo visto sul pianeta italico sia stato Cuore, chiuso nel 1996.
Per ogni Gabbanelli o Michele Albanese (giornalista sotto scorta de Il Quotidiano del Sud) ci sono intere redazioni che hanno come unica missione compiacere i potenti e intorbidire le acque.

D’altronde, anche per i migliori, è difficile appassionare, far indignare e riflettere dei lettori quando gli stessi non sono più geneticamente capaci di vergognarsi. 
L’unico vero successo raggiunto da Craxi e dal suo amico Berlusconi è stato quello di aver sdoganato, con la compiacenza della Chiesa, il “Se lo fanno tutti non è peccato” come primo comandamento tatuato nella coscienza collettiva.
Però se non mi vergogno non mi indigno. Se non mi indigno non mi interessa capire la realtà ma solo possedere opinioni semplici e categoriche, divertirmi e ‘vivere esperienze’. Se non mi interessa capire non mi riguarda la libertà di stampa e sono interessato solo alla parte gossippara del mondo che photoshoppa il reale per aumentarne la brillantezza e esclude le tristezze delle minoranze e degli esuli, gli interessi dei bambini e degli anziani, le guerre lontane, le epidemie, gli intrallazzi delle multinazionali e dei politici fuori controllo.


Ecco allora che l’empatia diffusa scatta verso l’evasore fiscale, il trombatore senile, il truffatore simpatico, il politico ladro dalla lacrima facile, soprattutto  verso chi ha un posto in prima serata e non se lo merita perchè così la mia empatia diventi presto invidia e possibile immedesimazione.
E se oggi sono Charlie, domani sarò facilmente Brad e dopodomani Matteo e non mi interesserà se qualche giornalista impugna la sua penna per difendere davvero la civiltà e la democrazia, e magari dimostra pure che il mio re è nudo, avvelenatore e armato… perché tanto - si sa - i giornali, sono tutti uguali, prezzolati e pieni di bugie.  

giovedì 1 gennaio 2015

Rispetto per le minoranze, considerandole un valore per tutti: secondo desiderio per il 2015

Lo ammetto, non mi sento parte di nessuna minoranza etnica, religiosa, sessuale o linguistica e dunque potrei fregarmene ma sento il mancato rispetto per una ‘categoria’ di persone come un’aggravante alla mancanza all’oltraggio fatto ai singoli. Poi, se le persone sono più felici, le cose funzionano meglio, tutti lavoriamo con maggiore passione, si produce qualità della vita e essere italiano diventa facilmente motivo di orgoglio e non l’anticamera per l’emigrazione.
Metto dunque il rispetto e la valorizzazione delle minoranze nei miei desideri per il 2015.

Nel concreto, alcuni esempi che non esauriscono di certo il tema:
  1. Una moschea in ogni provincia (almeno). Trovo incivile che in tutta Italia esistano solo 8 moschee (di cui 4 aperte nel 2013). È vero, esiste una sostanziale libertà di culto ma il culto senza i suoi luoghi è destinato alle rivendicazioni. I mussulmani sono circa 1,5 milioni e l’ingiustizia mi pare evidente. Per iniziare, credo che andrebbe reso obbligatorio alle Amministrazioni la costruzione di una moschea ogni provincia. I fondi possono venire dall’8 per mille, da oneri di urbanizzazione o anche dal bilancio.
  2. Una politica di buon senso con i rom. Sapete quanti sono i rom in Italia? Circa 150.000, diciamo lo 0,25% della popolazione. Tra questi, vive nei campi circa un quarto. Se sono percepiti come un ‘problema’ vuol dire che in molti desiderano che siano tali, che siano capri espiatori, che diventino fonte di lucro. Mi indigna non vedere una politica di lungo termine, definita con i rom, volta a aumentarne la qualità della vita con percorsi stabili di educazione alla cittadinanza, inclusione socio lavorativa, stabilizzazione dei giovani nei percorsi scolastici, valorizzazione del bilinguismo. E, in parallelo, percorsi di lotta al pregiudizio che coinvolgano anche me.
  3. Legittimazione dei matrimoni gay. Credo che il Paese sia pronto a riconoscere agli omosessuali un diritto che deve essere di tutti. Stiamo parlando di oltre 2 milioni di persone senza colpa né malattia che non possono essere se stesse. La mancanza dei matrimoni gay nel nostro ordinamento, oltre a rendere poco attraente l’Italia per il 5% circa della popolazione mondiale,  è una grande perdita per tutti perché la felicità dei singoli genera valore per la comunità.  
  4. Un futuro ai lavoratori precari. Nella discussione politica e sindacale, quella deiprecari è percepita come una minoranza: e di questo politica e sindacato pagheranno pegno.  È una minoranza mediatica che è maggioranza nel mercato del lavoro. Sono tanti singoli che non hanno tempo per lottare perché devono lavorare. Sono milioni di lavoratori che si arrabattano con una flessibilità circense e - anche quando riescono a pagare l’affitto - hanno la certezza di non poter arrivare a una pensione decorosa. Tengono in piedi il sistema pubblico, il welfare, molti servizi educativi, la produzione di cultura e i servizi alle persone. La prima cosa da fare sarebbe riequilibrare il divario di tutele e di ricchezza che hanno dai lavoratori garantiti, specialmente nel Pubblico Impiego. 
In questo mio desiderio non sono né particolarmente altruista, né troppo sognatore, vedo che c'è spazio per tutti, per le nostre diversità, per la ricchezza che ogni persona porta con sé, e odio l'idea che vada sprecata nella solitudine, nel rimpianto o nel rancore.