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venerdì 23 settembre 2016

Lite Torino-Milano sul Salone del Libro: riguarda tutti.

La querelle tra Torino e Milano sullo ‘scippo’ del Salone del Libro da parte di quest’ultima non può lasciare insensibili anche se sembra riguardare città che non sono la tua e mestieri che non pratichi. 
Si parla di libri, di cultura e dunque anche di democrazia, futuro e economia. Credo meriti qualche riflessione in più degli scazzi e le tecnicalità tra addetti ai lavori nelle pagine interne di qualche quotidiano.
Frequento il tema da tempo: come autore che negli ultimi 12 anni ha pubblicato con 6 diversi editori, metà dei quali falliti come il mercato ha imposto; come lettore interessato a che la qualità delle opere scelte per gli scaffali venga premiata da persone attente, competenti e pagate il giusto per il loro lavoro; come frequentatore dei saloni stessi, luoghi interessanti dove la fisicità del libro e degli autori fa da padrona.

Prima di tutto occorre segnalare come la duplicazione del salone a Milano si inserisce in un quadro nazionale che include almeno anche l’ottima Children’s Book Fair di Bologna, unico salone italiano davvero internazionale, il piccolo ma ruspante e vitale PiùLibriPiùLiberi di Roma dedicato alla piccola e media editoria, e magnifici Festival della Letteratura come quello di Mantova.
Era tuttavia evidente come il Salone di Torino andasse del tutto ripensato, in questo post ne ho raccontato debolezze e limiti dell’edizione 2016. Nei fatti era riempito quasi solo da scolaresche, traccheggiava tra antichi fasti e fughe modaiole verso improbabili start up e libri di cucina. Se questo l’ho colto io posso immaginare come ai geni del marketing milanese fosse evidente da tempo.

Di cosa parliamo?
Per inquadrare i fatti non si può evitare di ricordare come il Italia solo il 48% degli abitanti legga almeno 1 libro all’anno e solo il 7% ne legga almeno 1 al mese. Costo dei libri, tempo a disposizione, allergia ai congiuntivi sono tutte scuse facilmente smontabili.
Credo che una riflessione vera nel merito non sia stata fatta, si parla di ‘educazione alla lettura’ come se fosse una scienza esatta. La verità, più agghiacciante, va più nella direzione di un largo deficit di attenzione da parte di molti, dell’analfabetismo funzionale (stimato tra il 30 e il 40% della popolazione) che impedisce di capire un libro, della paura di confrontare o confutare le proprie idee, nell’evitare la fatica. Allora ecco che quel 48% si avvicina pericolosamente a tutti quelli in grado di leggere un libro.
L’ebook non ha spostato nulla. È risultato un fenomeno residuale, usato davvero solo da lettori ‘forti’. Oltre il 50% degli e-reader a un anno dalla loro vendita ha ancora solo i 5 libri preinstallati di quando è stato regalato a ennesima conferma di quanto scrive Pennac in “Come un romanzo”: il verbo Leggere non si può coniugare all’imperativo.
Molti editori dicono chiaramente “Non mi conviene pubblicare ebook” e si vede come tutte le start up che puntano sull’editoria digitale abbiano in business plan i soldi degli autori e non quelli di ipotetici lettori a cui il libro digitale non interessa.

Questo elemento mi pare interessante: ci sono tante persone che scrivono e desiderano pubblicare perché oggi la tecnologia consente di passare in un amen dal manoscritto al libro, anche cartaceo se lo vuoi. Il fenomeno è lo stesso che ha trasformato molti in ‘fotografi’ grazie alla fotografia digitale, folle in ‘video maker’ grazie a telecamere, Youtube e Windows Live Video Maker. Però, come per le foto e i video, l’autopubblicazione sommerge di quantità e spesso squalifica (o rende invisibile) chi nel magma qualcosa di interessante prova a indirizzare ai lettori.

Forse occorrerebbe ripartire anche dalla campagna  #ioleggoperchè  uscire dal circolo di quelli che leggono già per arrivare magari a situazioni in cui ogni ‘lettore’ adotta un ‘non lettore’ portandolo dentro i suoi mondi, anche quelli fisici come le librerie, le biblioteche, le presentazioni. Ovviamente vale anche il viceversa con la possibilità che il non lettore convinca il lettore a fare altro. Credo che entrambe le parti ne avrebbero giovamento e qualcosa di comunque nuovo si muoverebbe.

Perché se il libro come oggetto è intramontabile, cambia il rapporto che si ha con lui. 
Ad esempio, nel mio piccolo ho notato come negli ultimi anni sia molto diversa la modalità di confronto e incontro con i libri. Da un po’ faccio un numero sorprendente di presentazioni in case private, in ristoranti, in associazioni, gruppi di lettura, presso studi di psicologi, asili nido, piazzette dei centri storici. Poche le librerie dove pare sia difficilel 'socializzare' e che per prime puntano a organizzare gli eventi fuori dalle loro mura, il orari e contesti a loro nuovi. 
Ma di questo vi racconto meglio la prossima volta.