Pagine

lunedì 10 luglio 2017

Una cosa bellissima che non vi posso raccontare (completamente)

Qualche mese fa un editore amico mi chiese se fossi disponibile per un progetto particolare: scrivere un libro che raccogliesse l’eredità spirituale di un uomo, destinato a figli e i nipoti. Si trattava di una persona che aveva avuto alte cariche pubbliche e voleva fissare le ragioni e i pensieri che avevano guidato la sua vita e le sue scelte
Sfide del genere mi stuzzicano: per l'editore anni fa ho realizzato la mission impossible di riscrivere completamente un romanzo devastato da una traduzione sciagurata, soddisfacendo sia l’autore orientale che il traduttore incapace. Nel passato ho poi la scrittura di alcune biografie aziendali. 

Insomma, ho accettato la sfida e poche settimane dopo mi sono ritrovato seduto davanti a lui, con la testa libera da idee e preconcetti e il registratore acceso.
Lui ha quasi ottant’anni. Da alcuni mesi ci vediamo per lunghe e tranquille interviste in cui fluisce il suo senso della vita, del dovere. L’amore per la sua terra, i pensieri per chi non c’è più, le preoccupazioni per chi gli vuole bene. Ha l’età di mio padre, dei miei zii, della nonna con cui sono cresciuto, di tante persone silenziose che sfioro ogni giorno sulla metropolitana o al mercato.

Quando ci vediamo apre una porta sul passato e un pezzo alla volta ne sfila quello che merita la luce del ricordo. Spesso ridiamo, altre volte l’aria tra di noi si ferma perché le sue parole devono scolpire trame dolorose, dense di vita e responsabilità, abitate da voci che sono ancora in lui come nel momento in cui sono nate anni fa.
Rimango attonito di come dopo cinquant’anni dai fatti si emoziona ancora a raccontarli. Io lì per lì faccio l’empatico, accolgo senza ostacoli o domande e faccio fluire in rivoli di senso che diventeranno laghi quando li organizzerò sulla pagina. Poi, a casa, con le cuffiette davanti al computer, sgancio lacrimoni trattenuti che mi allagano la tastiera.

Ha un senso del dovere raro in questo millennio. Parlando delle sue origini contadine mi ha detto “La differenza di classe ti pesa se la vivi male: se mi fossi sentito inferiore loro si sarebbero sentiti superiori. Io l’ho sempre messa così: voi in partenza siete stati più fortunati di me, la vita è lunga e le cose possono cambiare.”
Lo rivedrò tra un paio di settimane per gli ultimi ritocchi al testo e so già che tra un piatto di pecora stufata e una mozzarella in carrozza sarà ancora generosissimo di sé. Poi talvolta capita che tra noi ci siano dialoghi del genere:
Andrea, questo che ho detto magari non lo mettiamo nel libro.
“È interessante però, spiega tante cose…” ribatto, “Poi a togliere c’è sempre tempo.”
Sì, però non la sa neppure mio figlio.”
“Allora recuperi senza tanti giri di parole.”
Non l’ho mai raccontato a nessuno…

 “E' una occasione in più per dare senso a quello che hai fatto finora nella vita.” 

giovedì 13 aprile 2017

‘Give Peace a Chance’, anche nel 2017.

Da un po’ di tempo Papa Francesco riporta all’attenzione di tutti questioni che più che alla religione afferiscono al buon senso e a un etica che può essere cattolica, ma anche laica, buddista e quello che volete. In particolare punta il dito contro le armi. Di certo ne condanna l’uso, tuttavia lui si spinge con forza a condannarne la costruzione e più o meno direttamente anche il lavoro di chi le costruisce.

È una questione che mi sta a cuore e pochissimo dibattuta, sia sul piano economico che su quello etico.
Negli anni ’80 “Give peace a chance” era più di una canzone, era per molti un obiettivo concreto. La leva obbligatoria ti portava a prendere posizione. Come molti amici, ho scelto l’obiezione di coscienza per rifiutare la logica del conflitto e anche per non impugnarle. Ricordo bene il sergente alla visita di leva che mi disse “Attento. Se fai l’obiettore, non potrai avere il porto d’armi per tutta la vita.” Il sorriso che feci allora lo rifarei oggi.
Dopo la laurea rifiutai almeno un paio di lavori perché le aziende che me li proponevano erano produttrici di armi pesanti, sistemi di puntamento missilistico o di telecomunicazione e simili. Erano gli anni in cui ferveva un diffuso dibattito sul tema, piuttosto fuori dagli schemi della politica e della religione. In migliaia manifestammo unendo in una catena umana la base dei Tornado a San Damiano alla Centrale di Caorso, e così via. Quello del disarmo come prerequisito alla Pace era un movimento trasversale che aveva forti oppositori a sinistra, a destra come nella Chiesa.  
Il crollo del Muro di Berlino è il simbolo e il maggior successo di quella stagione. E un po' la fine dello slancio legato all'urgenza di cambiare la logica della violenza.  

Ascoltare oggi il Papa condannare chi col proprio lavoro fabbrica le armi mi torna allora come una voce dal passato da attualizzare. 
Oggi fare armi vuol dire raramente fondere acciai speciali per costruire bombe o mitragliette (vuol dire anche quello comunque), ma sempre di più è scrivere linee di software, progettare scafi o motori, immaginare satelliti, sviluppare realtà virtuale, droni e simili. 
Intendo dire che la distanza del pensiero e del lavoro dalla morte di qualcuno si è fatta abissale e i sensi di colpa si sfumano nell’indefinita destinazione d’uso di quello che si fa. Eppure non ci sono scuse: le armi si fanno per venderle e usarle, e si fanno prevalentemente nei paesi che sono in apparente pace dentro i loro confini, come il nostro, l’Europa, USA, Russia, Giappone, Cina e pochi altri. L'ipocrisia di questo mercato è colossale e silenziosa e ogni rifessione viene messa a tacere deresponsabilizzandosi col "Se non lo facciamo noi lo fa qualcun altro".


Ecco che il Papa  dunque diventa eversivo. Perchè non lavorare per chi fa armi, è una scelta prima di tutto politica, etica e poi educativa.
L'ultimo papa eversivo fu Papa Luciani che disse "Dio è madre" e dopo tre settimane morì in circostanze poco chiare. Far passare l'idea che lavorare per chi fa armi non è cosa buona e giusta potrebbe schiacciare calli ancora più grossi.

lunedì 27 febbraio 2017

Migrare per vivere e per morire.

Uno dei ricordi più limpidi della mia infanzia è legato alla malattia di mia zia. 
Lei abitava sopra di noi e con lei ho passato tanto del mio tempo di bambini. Si ammalò di un tumore incurabile. Siccome era giovane, il suo corpo non cedeva nonostante gli organi interni collassassero uno a uno lentamente fino a portarla al coma. Ricordo negli occhi dei miei genitori tutto lo strazio di quelle settimane, soffrivo in silenzio con i miei cugini. Ero piccolo ma mi era chiaro come l’impotenza di tutti passò presto alla rabbia, al sapere che non c’era rimedio. Fino al giorno in cui mi fu comunicato “Oggi facciamo staccare i tubi e le macchine.”
“Si può?” risposi stupito.
“No, però è giusto. Come si fa sempre in questi casi, diamo centomila lire a una suora di buon cuore e ci pensa lei.”
Qualcosa in me scricchiolò. Era giusto ma non mi sembrava sensato.
Poi passano 40 anni e siamo ancora di fronte al caso di Fabiano Antoniani (alias ‘DJ Fabo’) che sceglie di morire con dignità in Svizzera per non farlo di nascosto in Italia, molti anni dopo il caso straziante e inumano di Michela Englaro costretta per anni a una vita che non voleva, spolpata dalla malattia, dagli avvoltoi più benpensanti e dal coyote Berlusconi. Ed ecco arrivare gli stessi scricchiolii.

Sono rumori sgraziati nella macchina della civiltà, ingiusti cazzotti allo stomaco pochi giorni dopo le polemiche imbarazzanti di fronte alla scelta di un ospedale romano di cercare ginecologi non obiettori alla pratica dell’aborto per garantire un diritto sancito da una legge dello Stato.
E in questo caso ecco che mi tornano alla mente le parole di quel ginecologo che mi erudì: “Le liste di attesa in Italia sono lunghe, la procedura complicata e gli aborti in ospedale si fanno quasi di nascosto. In casi così consiglio ai miei pazienti di prendere un volo da Roma che atterra a Heathrow. Di lì in meno di un’ora sei in clinica, si procede all’aborto e poi si rientra. Tutto in 2 giorni e con meno di 2000 euro.”

C'è da portare avanti una lotta contro tutti gli aspetti del paradosso che ormai vede gli italiani migrare all'estero sia per vivere decentemente che per morire dignitosamente. Temi che darrebbero argomenti solidi e facili voti a qualsiasi forza politica che avesse a cuore il futuro del paese e non solo mantenere il proprio culo sulla poltrona, abbaiare ai migranti e costruire stadi di calcio. 

domenica 22 gennaio 2017

Da Roma la gente se ne va, è questa la novità

Il 23 dicembre risalivo l’Italia da Roma a Bologna. Nel mio senso di marcia il traffico filava liscio. Nel senso opposto era un ininterrotto serpentone di lunghi tratti di coda: 20 km da Orte, 15 sotto Firenze, poi tutta la Bologna-Firenze intasata. Tutti a casa, a tagliare panettoni o strufoli.

Sono arrivato a Roma nel 1998 per lavoro come molti altri in quegli anni, In quel periodo la migrazione verso la capitale riguardava intere tribù professionali. Da Genova si andava a Milano o a Roma. Il mio criterio di scelta più rilevante fu che da Milano si scappava nei weekend, a Roma si aspettava il weekend per goderselo con quelli che arrivavano da ovunque,

Mi accolse una città che credeva in se stessa e il faccione sorridente di Rutelli con la sua frenesia nell’inaugurare ogni cosa in fascia tricolore. Sì, di certo rozza e facilona, corrotta e rumorosa ma viva, e bellissima, piena di opportunità, dove il successivo arrivo di Veltroni la innalzò a un livello che per molti aspetti competeva con Parigi, Londra o Barcellona, con un incredibile ventaglio di attività che pompavano l’economia e ti facevano respirare un’aria internazionale.
Anche Veltroni ha perso slancio e sono poi venuti gli anni bui e restauratori di Alemanno dove l’incompetenza era scienza e i partiti come sanguisughe hanno prosciugato la vena dell’economia, del voler fare, della creatività e sul cadavere della città sono calati gli avvoltoi sempre in agguato della mafia, dei palazzinari e della rendita. E tanta mediocrità nella noia di riti stantii, la derisione del rischio in un contesto che davvero non fa una piega neppure se l’alieno gli atterra in giardino.
Della giunta attuale non vale la pena spendere parole, vista la sua irrilevanza.
Adesso la gente se ne va, è questa la novità.

Sono alcuni anni che ha preso il via un percepibile flusso d’uscita di professionisti, manager, creativi, operai, programmatori.
Persone in larga parte benestanti, in carriera, convinte che altrove si possa stare meglio, i servizi funzionino, il mercato del lavoro dia più opportunità.
Un flusso silenzioso ma  continuo, è facile coglierlo sia nelle borgate che nei quartieri borghesi.
A Roma c’è poco da fare se non vivi di rendita o di un posto nella Pubblica Amministrazione. 

Nella classe di mio figlio, una popolarissima elementare semicentrale, 5 bambini si sono trasferiti in 3 anni, solo una bimba  è arrivata, dalla Cina.
Il mio amico S. che ha accettato a Bologna un tempo determinato di 18 mesi  lasciando un indeterminato a Roma, quando mi ha visto preoccupato perché trasferiva tutta la famiglia mi ha detto "Stai tranquillo: è meglio essere disoccupati a Bologna che occupati a Roma."

Quando molti miei amici hanno realizzato di fatturare il 90% altrove, e di avere un conto aperto col Frecciarossa che valeva un affitto mensile, sono partiti con armi e bagagli, verso mete in Italia e all’estero.
Il flusso verso la città si è prima fermato e poi invertito.
In fondo il panorama dei sogni di un paio di generazioni non è più legato al territorio di residenza, specie nelle metropoli. Sì, vogliamo cambiare il mondo e sanarne ingiustizie e perversioni. Di certo è più facile farlo da una posizione comoda, in una città che funziona, con luoghi stimolanti per i nostri figli, dove la politica è attiva nella sua accezione positiva e i cassonetti vengono svuotati spesso.

Camminare per Milano e la sua dinamicità ricca di creatività allora diventa uno shock culturale; Torino e Bologna mete di molte ditte di traslochi con i loro carichi di libri, mobili e destini provenienti da Roma.

"Mbè? 'Sticazzi,"potreste giustamente obiettare, "Dal sud emigrano a milioni". 
Sì, è vero, sono altri i problemi, però percepisco qualcosa in questo fenomeno così poco raccontato che mi spinge a pensare alle cause, e poi agli effetti per me, la mia famiglia e per una città meravigliosa che in questo periodo getta nelle buche della sua anima i sogni di chi credeva in lei, che diventano occasioni mancate per tutti noi.