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mercoledì 27 febbraio 2013

La Prima Pagella: Complementi di educazione per genitori (caso 8)

È questo il periodo dell'anno in cui le pagelle del primo quadrimestre diventano parte del patrimonio familiare.
È un momento di verità, in cui il mondo dovrebbe prendere atto del fatto che il nostro pargolo possieda l’X Factor. Peraltro, conclusione a cui noi siamo tautologicamente arrivati già il giorno dell'ecografia morfologica. Ergo, sappia far di conto, di parola, di sport, danza, disegno, progettazione infrastrutturale, conduzione radiotelevisiva. E non venga scambiato per un banale esserino scontroso, distratto, incendiario, visionario.


Per quanto a noi paiano parte integrante dell’avvicinamento all’età adulta, i voti e le pagelle non sono un obbligo universale: in Svezia fino a 13 anni non ci sono voti e fino a 16 non si ripete mai l’anno scolastico; in Germania stanno discutendo l’abolizione della bocciatura, e così via.
Le loro ragioni vanno dall’evitare i traumi che i ragazzi subiscono nel confronto con gli altri alla riduzione dei costi che il sistema deve affrontare nel bocciare qualcuno.
Qui da noi sono un momento di verifica dei bambini e – indirettamente – dei genitori.
Già perché poche cose ricadono dai figli ai padri come le insufficienze in geometria o condotta. Il cordone ombelicale, come un lazo, è sempre lì, e si stringe intorno al collo quando il mondo si permette di considerare i tuoi pargoli come esserini capaci di volere e danneggiare.
E i genitori, tirati in causa nella valutazione della carne della loro carne, per svicolare lo fanno diventare un momento di valutazione dei docenti, della didattica, della scuola, del ministero, del governo e dell’intero sistema planetario. Qui la difesa dell'onore della tribù non esclude colpi bassi, forature di gomme e lettere ai Provveditorati.
Questa è la tensione naturale tra giudicati e giudicanti che vibra intorno alla pagella.

In prima elementare la pagella ha una articolazione tale che il bambino non riuscirebbe a distinguerla da una fattura del vostro gestore telefonico. Una decina di materie dai titoli buoni per l'INVALSI ma criptiche per la maggior parte dei genitori si qualificano con voti che si inseguono lapidari per le righe. 
Le regole non scritte del buon cuore dicono che: il ‘10’ non si da mai perché è meglio non sbilanciarsi per poi doversi rimangiare l'affermazione; sotto il ‘7’ non si va mai perché le creature vanno abituate al bastone con l'omeopatia; di ‘8’ si allaga il foglio che tanto piacciono a tutti; i rari ‘9’ danno zucchero all’orgoglio dei nonni e predispongono alla gita a Disneyland; i ‘7’ fanno invece riflettere, una ventina di secondi. 
Una pagina intera a parte è dedicata al voto di religione (il mio ha preso un enigmatico ‘Distinto’ che è come dire di una ragazza che è ‘Carina’). 
Poi c’è il giudizio esteso, la vera sostanza di tutta la manfrina. Come scanner, gli sguardi dei genitori scorrono e pesano quelle sintesi che, pur in Era Twitter, sono spesso più brevi dei 140 caratteri che ti aspetteresti per minimo contrattuale. Si tratta di un ottovolante linguistico che abbonda di ‘attento ma lento, ‘vivace ma creativo, ‘adeguato e distratto’. Il più delle volte ti danno idea che tuo figlio abbia personalità multiple e sindromi bipolari.
Al termine della lettura sei dunque indeciso sul mandarlo in analisi o iscriverlo a kung fu per difendersi dai giudizi affettati.
Poi la maestra ti guarda, ha capito il tuo disagio. Sorride, e sottolinea subito “Va tutto bene, stia tranquillo”. La messa è finita: vada in pace, continuiamo così, non facciamoci del male.

Chi volesse confrontarsi con altri temi:


giovedì 21 febbraio 2013

Non voglio il rimborso dell'IMU ma dei venti anni di civiltà che ci hai rubato.

Non potrò mai fare l’analista politico. Ci sono fenomeni che non riesco a capire, e altri che capisco fin troppo bene e dunque mi fanno perdere la freddezza che serve a fare le analisi di cui sopra.
Quindi non sono neppure più capace a far ragionare chi secondo me ha comportamenti umanamente  illogici. Come votare Berlusconi. 

Per me infatti resterà per sempre un mistero come sia possibile votare ancora Berlusconi nel 2013, dopo i vent’anni in cui lui, le sue televisioni, i suoi misfatti, incompetenze, bugie seriali, disordini morali, leggi ad personam, hanno ammorbato l’Italia sino a trasformarne la morale pubblica e privata e le categorie di giudizio, lasciandoci tra rovine e campi minati di cui non saremo facilmente in grado di fare la bonifica.
Il suo totale disinteresse per la ‘cosa pubblica’ (collegato alla massima cura dei suoi interessi privati) ha poi demonizzato un patto sacro e legittimo tra cittadini che sono le tasse.
Le tasse sono belle, sì, sono bellissime perché sono la solidarietà fatta materia.
Lui le condannate e sempre e solo alzate, tutelando gli evasori, ma solo per alimentare i privilegi della sua corte e pagare con i nostri soldi i propri errori. In parallelo ha scientificamente smontato l’educazione, università, sanità, ci ha lasciati allo sbando all’arrivo dell’Euro e ci ha portati a un passo dalla catastrofe nel 2011.
Per mia disgrazia, o fortuna, viaggio molto e da venti anni vengo deriso in ogni nazione per la presenza di B. sulla nostra scena politica. Ammetto che ciò mi pesa.
Nella maggior parte dei paesi civili un uomo così, col suo potere e interessi, datosi alla politica per evitare il carcere, neppure si sarebbe potuto candidare (a meno che non alienasse le sue proprietà o le desse in gestione a terzi col blind trust). Sarebbe bastato lo 0,1% dei suoi reati contro la morale, il fisco, la cosa pubblica, ma anche solo le cose dette (perché altrove le parole sono importanti) per cancellarlo per sempre dalla scena, in quanto indegno di rappresentare i cittadini.

sabato 16 febbraio 2013

Lo splendido potere eversivo del Festival di San Remo.

Per quanto se ne dica, è davvero difficile trovare tracce di vero antagonismo nell’arena politica, così come nelle piazze. La sensazione è sempre di terribile semplificazione partigiana e di svogliato qualunquismo.
Da diversi anni rimango stupefatto dal potere del Festival di San Remo che a mio avviso è diventato il luogo privilegiato per portare messaggi eversivi camuffati da falso buonismo, musica e caciara.

L’inizio lo identifico nel 2010 quando agli orchestrali fu fatto credere di contare per il 50% dei voti per designare i vincitori. Gli increduli suonatori si ritrovano vincenti tre muli pompati dai discografici e nessuno dei cantanti di qualità da loro invece massicciamente votati. Successe l’incredibile: loro si indignarono. Fischiarono, lanciarono i loro spartiti accartocciati al centro del palco, e la giuliva Clerici dovette chiamare una pubblicità non prevista per ottenere un minimo di ordine. Quella indignazione fu ai miei occhi come il germoglio imprevisto in Wall-e, e dimostrava che nel deserto valoriale del modello televisivo esisteva qualcuno non disposto a mettere in vendita la propria dignità. E già, l’indignazione viaggia assieme alla dignità, non esistono l'uno senza l'altro e fanno trio con la vergogna, sentimento accessibile solo a chi si sa ancora indignare; il fatto che nessuno o quasi si indigni vuol dire che in molti si sono venduti l’anima.

Poi venne il 2011, e Vecchioni trionfò con “Chiamami ancora amore” . E' stata la vera prima cannonata alle fondamenta del regime del vecchio bavoso. Una canzone che ha azzerato la salivazione della sinistra italiana e ridotto a balbettio di maniera ogni altro decrepito slogan, ha scosso la società civile, ha ricordato come sognare sia un imperativo necessario, ha chiarito a molti come il re era fosse nudo, piccolo, pelato e ce l’avesse pure piccolo.

Quest’anno 2013 altro grande colpo di scena: un festival con canzoni belle e rappresentative della scena musicale nazionale, per tutti i palati, con testi in un italiano vero da arrotare tra i denti e di cui essere orgogliosi, e poi tanto altro. Ci sono due canzoni intelligenti che parlano di morte, una dolcissima su un amore omo, una decisamente rivoluzionaria, strumentisti e session man che fanno venire la pelle d’oca. 
La Littizzetto ha fatto un monologo contro la violenza sulle donne che andrebbe ripetutamente proiettato nelle scuole ma anche negli uffici e negli stadi. Il tema del matrimonio negato agli omosessuali è tracimato dalle strade fin sul palco con la sua urgenza e delicatezza assieme. Si è fin parlato di liberalizzazione delle droghe leggere.
La società reale insomma, con le sue contraddizioni, trash, bellezze e desideri. 
C'è stato un impatto così forte sull'opinione pubblica che la campagna elettorale si è ingrigita più dei capelli di tutti i candidati premier. E, ne sono certo, la maggioranza degli italiani non sarebbe contraria a altri 5 giorni di festival per poter arrivare al voto davvero più sereni, informati e consapevoli del mondo in cui viviamo.    

martedì 12 febbraio 2013

Il Papa si dimette ovvero la fine del tempo indeterminato.

Credo che per molto tempo nulla potrà avere la forza simbolica delle dimissioni del Papa. Più inaspettate delle Torri Gemelle, più eversive di cento Wikileaks, superabili in impatto forse solo da uno sbarco alieno.

Al di là delle ragioni personali, fisiche  e spirituali che l’hanno determinata, mi colpisce la contemporaneità della decisione. È apparentemente  paradossale che un pontefice conservatore, anticonciliare, medievale quasi, abbia avuto tale sussulto di modernità (e umanità).  Ha raso al suolo proverbi centenari (Morto un Papa se ne fa un altro. Ogni morte di Papa), ha ridotto la nostra campagna elettorale al pigolare di un pollaio. Ha sancito una volta per tutte come il tempo indeterminato sia ormai una eccezione.
E qui si è andato a infilare nel cantuccio di Darwin.
Nella società agricola, e anche industriale, il tempo indeterminato era un obbligo, elemento del patto sociale, una necessità di sopravvivenza. I matrimoni sancivano la fusione dei patrimoni e delle terre per sempre, le classi sociali erano determinate alla nascita per la vita, il possesso di una casa ti legava alla terra per generazioni. Il tempo degli impegni e delle relazioni, dei diritti e dei doveri, era indeterminato per necessità. 
C’erano pochi pastori (tra cui il Papa) e un vasto gregge consapevole di essere tale, che scambiava fedeltà con protezione e reddito (con la Chiesa, il Partito, l’Impresa).

Da parecchi anni è evidente come per galleggiare occorra essere sempre pronti a cambiare. Il conformismo non è più stare in gregge ma in stormo, in una situazione in cui non sai chi guida, dove si va e, se ti distrai, in un attimo puoi ritrovarti ai margini del gruppo. Soprattutto è evidente come la precarietà non sia una emergenza ma una condizione strutturale, forse inevitabile. 
Sì perché non conviene più il tempo indeterminato. Nel lavoro rischia di rendere obsolete le competenze nell'attesa che la mia azienda chiuda per ragioni di mercato; non c’è più la necessità economica o sociale che i matrimoni durino (diventa solo una questione di scelta, da rinnovare di frequente); perfino i mobili non devono durare più delle ragioni per le quali sono stati comprati. 
La mobilità è un condizione necessaria per accedere alle opportunità.
Non tutti però sono attrezzati per la sfida, politici e intellettuali sembrano affascinati da un mondo che non esiste più e respingono la necessità di confrontarsi con queste sfide. Se una diffusa solidarietà planetaria, unita a una seria analisi dei fenomeni, non prendono piede non mi parrà inappropriato scomodare Darwin e le sue ipotesi sulla sopravvivenza delle specie in cui si salveranno i più adattabili, non i più forti o i più intelligenti.
Chi dunque ambisce a partecipare in modo attivo deve comprendere e governare tale complessità facilitando i processi, orientando i comportamenti, specialmente se la vita gli ha dispensato ha le doti o il ruolo di leader.   E questo Papa, per ragioni sue, ha passato la mano, esercitando una libertà di scelta fuori dagli schemi che ricorda più slogan del '68 che canti liturgici, lasciando al suo stormo la responsabilità inaudita di trovare una destinazione degna e nuova e motivate ragioni di volo.

martedì 5 febbraio 2013

Se sono reti, pescheranno. L'Hub perché.


Le cose succedono, e bisogna esserci mentre succedono. Perché per me San Tommaso non era uno scettico ma un tipo piuttosto realista.
Da un paio d’anni partecipo a un progetto di innovazione nella città di Roma. Si chiama The Hub, e mette assieme alcune centinaia di persone che nella vita ‘fanno’. Fanno impresa, fanno arte, fanno rete, fanno volontariato, e si sono rese conto che il fare assieme è la chiave del successo di ogni iniziativa, direi quasi che ne è il prerequisito per avere chance di realizzare qualcosa che funzioni e abbia impatto sul territorio, sull’economia, sull’ambiente.
Quello che vedo nelle persone che frequentano the Hub è il talento. Non sono un cattolico praticante ma delle tante ore di religione della mia infanzia ho trattenuto la sensazione che il peggiore peccato (forse contro Dio, di certo contro l’uomo) sia il peccato di omissione. Di quando potresti fare ma non fai, potresti illuminare ma non ti accendi, potresti risolvere ma non ci credi neppure tu.
Ebbene, c’è una generazione, e anche di più, che non è messa in condizione di esercitare i propri talenti, spreca sogni e passioni in lavoretti senza futuro. In Hub, questi talenti vengono alla luce, e intorno a loro nascono i progetti. Ingegneri, antropologi, giornalisti, scenografi, grafici, filosofi, tutti abituati a dialogare, a avere un approccio laterale ai problemi, a guardare a oltre confine. Il "cosa" dipende sempre dai talenti a disposizione. C’è chi realizza piattaforme per il commercio equo, chi per l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro, chi vuole riprogettare il mercato dell’arte, chi fotografa per testimoniare il disagio sociale, chi sostiene la creazione di impresa, chi fa video a sfondo educativo, chi sviluppa la coscienza ecologica delle aziende, chi realizza piattaforme di e-democracy, chi progetta esperienze di gioco o di consumo, chi educa la coscienza civile dei bambini, chi sviluppa mappe concettuali, chi costruisce una finanza davvero creativa e utile.
L’Hub è social per definizione, anche perché aderisce a un network mondiale di oltre 6000 persone che operano con gli stessi obiettivi e dinamiche. Sì, sono tutti un po’ innamorati della tecnologia ma – allo stesso tempo – non ci sarebbe Hub senza un bellissimo spazio fisico dove la dimensione social diventa quella dello stare assieme davvero. A Roma è a San Lorenzo, vicino a Termini. Uno spazio che ogni settimana è più vissuto: con piante, divani, wi-fi, arte, e soprattutto persone che lì lavorano e creano.
Io sono il vecchietto del gruppo dei fondatori. Dapprincipio pensavo che fosse un caso poi ho realizzato che per ‘lasciarsi andare’ alla collaborazione, alla fiducia tra professionisti, alla condivisione di agende, idee e relazioni, occorra un’idea di mondo ‘leggera’ e inevitabilmente fluida non così tipica nella mia generazione. Diciamo pure cinicamente che l'essere cresciuti in una precarietà congenita e non subita diventa fattore di continua motivazione e di innovazione necessaria.
Dove si andrà a parare?
Non lo so. So che vedo tantissima attenzione al modello e alle dinamiche che si sviluppano. Il numero dei membri cresce in qualità e quantità e molte organizzazioni vogliono venire proprio in Hub a fare le loro attività. Comincia anche l’attenzione della politica, di quella che cerca idee e non si fa problemi a dire ‘dialoghiamo: quali sono le vostre proposte?’