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mercoledì 15 giugno 2016

Di come e perché Podemos sfida la precarietà della politica imitando il catalogo IKEA.

Raccolgo la sfida.
Qualche anno fa ho scritto “People from IKEA” (FBE Edizioni), una raccolta di racconti sulla Generazione Componibile che è diventato anche un bello spettacolo a cura delTeatro della Tosse di Genova.
In questi giorni Podemos ha presentato  il suo programma elettorale per le prossime elezioni in Spagna secondo il riconoscibilissimo format del catalogo IKEA.
Qualche simpaticone ha stuzzicato sui social network la mia opinione in merito.
Siccome da diversi mesi il mio lavoro di consulente e autore mi porta alla comprensione e allo sviluppo di schemi per il business storytelling, raccolgo convinto la sfida.

Anticipo subito che su questa provocazione di Podemos dò 10 e lode per forma, contenuto e comprensione di sogni e bisogni del proprio elettorato potenziale.

(Come per il catalogo IKEA) leggere il programma di Podemos diventa un piacere per gli occhi e va dritto allo scopo. Spiazzante con simpatia all’inizio. Apparentemente surreale. Poi, lentamente, iperreale. Poi semplicemente pop perché l’identificazione tra l’elettore, le proprie istanze e candidati del partito diventa più naturale pagina dopo pagina e benché siano 186 non te ne accorgi (come capita per i film sopra le due ore di lunghezza quando sono ben fatti).
L’oggetto costruisce empatia per il partito grazie ai suoi molteplici livelli di lettura.


Intanto si rivolge a una platea che sa e può ridere di sé stessa anche quando ha le pezze al culo e rivendicazioni forti. Poi intercetta i molti che leggono e comprendono solo il catalogo dell’IKEA, molti ovunque. Guarda a chi nella precarietà esibita dei prodotti e delle ragioni precarie che ti spingono a comprarli della multinazionale svedese trova una metafora chiara ma consolante della propria esistenza. Poi sono riusciti a riprodurre anche quell’aria di “non è casa mia ma potrebbe esserlo” che nel mondo dei mobili ti fa sperare di mettere finalmente ordine nel tuo 40 metri quadri e nel mondo dei grandi di fa sperare di mettere ordine nelle ingiuste disuguaglianze e nelle rendite di posizione.  Nelle immagini hanno umanizzato e avvicinato i politici candidati che paiono davvero a loro agio in quella casa loro che potrebbe essere casa nostra.
L’immagine pop e i colori caldi stridono alla perfezione col rigore delle centinaia di proposte: tutte chiare e comprensibili nel linguaggio e negli obiettivi (anche per uno come me che non ha mai studiato lo spagnolo). Poi, per certificare che non stanno scherzando, in fondo c’è una nota economica che con dati e grafici  mette a confronto le diverse politiche e proposte.
Poi i miei motivi di ammirazione sono molti, uno per tutti: 

Podemos ha un programma e non ne leggevo uno così organico, carico di concretezza e di speranze da anni. Quando sono arrivato a punti come “Trasparenze e controllo democratico della Difesa” o “Un centro di servizio sociale ogni 20.000 abitanti” o “Piano nazionale di Transizione Energetica” mi sono quasi commosso.


Come elettore prossimo a doversi esprimere al ballottaggio di Roma intorno a programmi che al massimo dello sforzo evocativo propongono di tappare le buche e di raccogliere la monnezza mi sono sentito bidimensionale, influente col mio voto nei destini della città meno dell’omino delle istruzioni sul pieghevole dello scaffale BILLY.  

giovedì 9 giugno 2016

E se l’innovazione non portasse voti?

Torino, Milano, Bologna, Trieste: le quattro città star nell’innovazione, i veri passanti della la cintura che tiene ben stretta l’Italia ai processi europei di sviluppo sostenibile, la quintessenza stessa della parola Smart City.
Molti amici innovatori vi lavorano ogni giorno. Con le loro attività sviluppano nuovi processi di creazione del valore per sé e spesso per i territori, contribuiscono a politiche pubbliche di avanguardia, tessono reti che liberano energie. Lì hanno a disposizione infrastrutture efficienti e tanti spazi di qualità che funzionano a loro supporto. In alcune di queste città stanno mettendo a punto prassi amministrative, innovazioni normative e fiscali fondamentali per dare a tutti le possibilità che meritano.  
Lì ci sono il bike sharing, il car sharing, social housing, orti urbani, le tagemutter, i teatri e i festival, le università di punta, qualcosa di nuovo succede ogni giorno. Insomma sono città davvero nel XXI° secolo. Lo percepisco dai racconti di chi ci vive, di chi ci è andato a vivere proprio per queste ragioni. Quando passo per quei posti ne sono convinto anche io. “Questo a Roma non lo faremo mai…” mi dico abbacchiato. “Vorrei vivere qua…” aggiungo non di rado.
Poi si vota.
Si aprono le urne e Fassino/Sala/Merola/Cosolini trovano molto meno consenso del previsto, sono in seria difficoltà (tra 10 giorni vedremo quanta) da competitor che non hanno finora dimostrato nulla, che talvolta  invocano un generico ‘nuovo corso’ per la paura del nuovo e del diverso, che sanno però rispondere ai bisogni di chi vota.
Io rimango perplesso ma i commentatori televisivi mi spiegano che “Non c’è da stupirsi del risultato perché l’amministrazione uscente ha lavorato malissimo, è sotto gli occhi di tutti da anni: zero dialogo con i cittadini, modi autoritari, abbandono delle periferie.” Allora volgo lo sguardo agli amici che ci vivono, confuso, chiedendo ragione di queste ambigue narrazioni.
Lo so, ogni città ha una storia a sé, ma 4 casi diversissimi col medesimo problema forse fanno un caso.
Al di là delle profezie che si autoavverano, occorre forse davvero chiedersi: l’innovazione paga alle urne? Oppure spaventa perché dimostra a tutti come i tempi siano cambiati anche se non si vuole? O perché dimostra che l’inglese è più importante del dialetto, che la velocità vince sulla stabilità, che la distanza non impedisce la comunità, che il territorio non è un tavolo da gioco insensibile ai nostri capricci? O manca qualcosa nei nostri interventi che dia senso anche elettorale al valore degli interventi?
Forse sviluppare spazi di coworking, regolamenti inclusivi, orti urbani, piattafome di collaborazione, percorsi virtuosi per l’inclusione degli immigrati, se da una parte richiede alla pubblica amministrazione nel terrorizzante ruolo di ‘abilitatrice’ dall’altro cala sul cittadino maggiori responsabilità, un ruolo forse non sempre richiesto e spesso non compreso. 
Se è questa la strada che vogliamo percorrere, forse, è ora di pensare modi, spazi e tempi in cui affrontare da cittadini elettori questa evoluzione del contesto che muta anche il patto sociale di chi vive in una città.    
C'è anche un altro aspetto: e che gli innovatori non votino? Che ritengano di non aver bisogno della politica, di lobby, di rappresentanza. Magari rimandando a un  generico ‘appena ho tempo’ il loro impegno in un mondo che percepiscono come inefficiente, parassita, se non inutile. 
Ad esempio nel mito distorto delle start up trovo mille persone che vogliono cambiare il mondo e nessuna il quartiere. Cuori d’oro che si impegnano per l’artigiano pachistano e non colgono la desertificazione delle botteghe del rione.  
Lo ammetto, io stesso mi chiedo ogni volta con maggiore fatica ‘se’ votare ancora prima di ‘chi’.
Sono domande da porsi. Perché se molto è politica (come lo sono molte ore delle nostre giornate al lavoro, in aula, su Skype, come genitori, consumatori, …) è anche vero che il sistema meno imperfetto per organizzare l’equità, la giustizia, le pari opportunità, la resilienza, passa per la partecipazione e la rappresentanza.
Poi però vanno a votare soprattutto le persone arrabbiate, o che nel voto trovano una utilità di scambio, con una totale divergenza di percorsi tra chi ha l’ambizione a costruire e chi quella a difendersi. Ecco che trova maggiore rappresentanza politica maggioritaria chi vuole asfaltare strade e differenze d’opinione, razza e sesso, piuttosto che chi è disposto a una politica inclusiva basata su piccoli passi, con obiettivi ambiziosi ma distanti.
Mi chiedo infine se si stia sviluppando un Creative Divide cioè una forte divisione tra i soggetti che traggono effettivamente vantaggio dalle politiche guidate dall’innovazione e chi ne è invece escluso: con i primi che ritengono superfluo votare (forse anche perché il successo dei loro servizi si basa proprio sull’inefficacia della politica), e con i secondi che hanno ancora speranze o prebende associate al foglio calato nell’urna.

Buon ballottaggio a tutti.