Pagine

mercoledì 2 dicembre 2015

Sul tempo del lavoro, quello dello studio e quello della pensione.

Interessanti le due affermazioni del ministro Poletti rifilate in un paio di giorni: “Laurearsi a 28 anni con 110 e lode? Non serve a niente: meglio a 21 con 97″; “Dovremmo immaginare contratti collettivi che non abbiano come unico riferimento le ore lavorate“
E ieri, si è aggiunto Boeri, presidente di INPS, col suo “I nati negli anni 80 andranno in pensione dopo i 70 col 25% in meno di pensione” che riflette nei numeri cosa succede iniziando a lavorare a 30 anni con contratti che non prevedono quasi contributi versati.
Ci sono stati sindacalisti indignati  pronti a sollevare argomentazioni che mai hanno parlato alla maggioranza di cittadini. Ho letto di docenti o genitori affermare senza timore del ridicolo che la colpa è solo dell’università se i giovani hanno dei problemi a laurearsi. Poi c’è chi accusa il ministro di fare il gioco delle aziende sfruttatrici di mano d’opera, o di – semplicemente – non capire nulla del mondo reale. Sulla questione previdenziale pochi i commenti, anche perché tre sono le soluzioni: ricalcolare le pensioni di chi già le percepisce, rendere più efficiente la pubblica amministrazione e far pagare i contributi a chi non paga, tutte talmente impopolari che qualsiasi politico, sindacalista, confederazione, preferisce aspettare il 2040 quando ci sarà la rivoluzione dei sessantenni in povertà.
Quasi tutti i commenti svicolano il succo delle questioni con depistaggi paraculi tipo: “Il ministro offende chi si laurea a 28 anni perché nel frattempo lavora!”, “Vorrei vedere il lavoro di un infermiere o di una sarta non legato al tempo!

In fondo sono tutte ovvietà che per come vengono poste non danno risposte a nulla. A mio avviso emerge forte la necessità di ripensare completamente l’idea stessa di cosa sia la formazione e cosa il lavoro, per tutti (e non arroccarsi sulle mosche bianche col tempo indeterminato).
Quelle di Poletti sono due frasi brevi che dovrebbero sollevare piuttosto una lunga teoria di “dipende”, “è vero ma…”, distinguo ragionati che diano il senso di una società e di una economia complesse in cui permangono, ad esempio, molte professioni in cui il tempo contingentato da un contratto è centrale sia per la prestazione che a garanzia del lavoratore, e molte altre in cui è del tutto evaporato, in cui l’orario è una gabbia antistorica e nei fatti impedisce il lavoro di qualità e lo svolgimento stesso delle attività.

Le tre affermazioni, per caso o per scelta, solo connesse al Tempo. Forse è intorno a questo che la riflessione può trovare corpo. Da almeno 20 anni è finito lo schema che separava i tempi della vita attiva in studio-lavoro-pensione. Gli ambiti oggi si compenetrano, si alimentano, si sviluppano secondo schemi non più lineari (una volta: studio ragioneria = farò il ragioniere). Per la stessa ragione non ci si indentifica più in una professione e in una categoria (questa è una delle ragioni per cui il sindacato non è più vissuto come rappresentativo). Ci si riconosce professionalmente sulla base delle competenze possedute e della forza che si ha di generare opportunità. Si muta pelle su base annuale, e per farlo si sviluppano competenze acquisite con percorsi di apprendimento lungo tutta la vita, in luoghi diversi, con modalità varie, non necessariamente certificate o certificabili.  Alla pensione non si pensa, per non intristirsi, nella speranza di mettere da parte un gruzzolo che non ti faccia sentire dipendente dal poco che forse riceverai indietro dallo Stato dopo i 70 anni.
È complicato, non si è educati né formati per ragionare in questi termini, per avere cura e manutenzione del proprio futuro professionale. Si perdono un mucchio di anni senza un progetto, come senza un progetto paiono le università, molte aziende. 

Riprogettare il futuro, questa secondo me è la sfida a cui puntano le tre frasi  citate.

Tocca a tutti ma di certo è troppo gravoso per il singolo farlo su larga scala
Dovrebbe essere la missione di qualsiasi organismo di rappresentanza che a partire dalle esperienze virtuose dei singoli e dei piccoli gruppi dovrebbe diffondere i modelli e le soluzioni. E se non si parte dal fatto che le disparità oggi sono tropo grandi per essere reiterate nel futuro non si va da nessuna parte.

lunedì 23 novembre 2015

Bruxelles: come la conosco, amo e temo.

Frequento Bruxelles con regolarità da oltre 20 anni. Ci ho studiato, sviluppato progetti, ho frequentato centinaia di convegni e riunioni. Molti cari amici ci abitano; molti sono italiani e altri nati sotto ogni bandiera. Più di una volta sono stato tentato da ipotesi di lavoro sul posto ma, conoscendola, ho sempre valutato che per uno come me i contro fossero più dei pro. Insomma, il coprifuoco di questi giorni mi turba, preoccupa ma non sorprende.

È una città diversamente importante. Molto penalizzata dalla II Guerra Mondiale, rispetto alle altre capitali europee sembra quasi anonima. Forse avrebbe avuto un percorso identitario diverso se non fosse diventata la capitale della UE con un ruolo innestato dall’alto per evitare la lotta tra le capitali che contano davvero, quasi equidistante da Londra Parigi e Berlino. Ha un ruolo prestigioso che quando ci sei puoi godere per la concentrazione di opportunità, talenti, interessi, per le politiche che vi si discutono e prendono forma.
Negli anni è diventata però un centro-servizi per l’Europa perdendo molte dei requisiti che definiscono una città come tale. Tutto questo è avvenuto sulla testa di gran parte dei suoi abitanti spesso impegnati come comprimari a pulire, nutrire, curare, coccolare il mondo dei funzionari internazionali.

È una città divisa dove i conflitti si percepiscono all’istante, e si realizza come non siano su nessuna agenda politica. Lì c’è talmente tanta politica continentale che non si sente per nulla quella del Comune o della Regione, relegata a spazi interstiziali o funzionale a far vivere bene gli ospiti di riguardo.
Non si può dimenticare come il Belgio sia stato recentemente 540 giorni senza governo. I cinici hanno detto che le cose hanno funzionato meglio così. È stata una situazione politica oltre i limiti del paradossale, in grado di minare ogni fiducia per lo Stato, barzelletta tra i più, con alcuni analisti lesti a considerarlo come modello invece che come alieno tra le democrazie e ragione di preoccupante avvelenamento delle regole dello stato sociale.

La prima spaccatura che salta agli occhi è quella linguistica tra francesi e fiamminghi. Capisci subito che il tassista all’aeroporto di Zaventem preferisce ricevere indicazioni in inglese piuttosto che in francese. Gli amici che poi incontri ti dicono chiaramente che dopo 10 anni in città non hanno bisogno di sapere una parola di fiammingo.

Poi viene la divisione tra classi, caste quasi. Su un milione circa di abitanti, 100.000 sono funzionari della Commissione, della Nato, ambasciate e altre istituzioni. Molti tra loro sono trapiantati lì da percorsi di carriera, da stipendi spropositati rispetto a impegni e responsabilità, senza alcuna ragione di sentirsene veri cittadini. Non parliamo dell’1% di privilegiati caro a OccupyWallStreet ma di un 10% che nei fatti occupa tutto quello che di qualità esiste e succede in città. Per anni ho percepito dei miglioramenti alla qualità della vita, ora comprendo che a migliorare erano gli aspetti che volevo vedere: rispetto al passato si mangia molto meglio, ci sono mostre strepitose, trovi gli antiquari più interessanti d’Europa, tutto però per gli occhi e le tasche del solito 10%. Non è certo colpa delle persone che vi abitano ma la sproporzione tra i numeri segna a fondo il tessuto sociale.
La città è violenta, lo percepisci appena esci dalle quattro vie della movida (e a volte anche lì). Molti amici mi raccontano fatti di violenza quotidiana che – ad esempio – a Roma sono rarissimi. Vengono vissuti come parte naturale dello stare in città. Il Belgio è nelle prime posizioni in Europa per quasi ogni categoria di crimini (se avete perplessità in merito navigate questa mappa. o altre dello stesso genere da dati ufficiali).
C’è fin una separazione architettonica: cemento e vetro stanno radendo al suolo gli spazi e i quartieri tradizionali con una violenza e disarmonia rara e colpevole. Dopo un po’ che ci vai hai la sensazione che sia giusto e siano le abitazioni 'normali' a disturbare la scale e la possenza delle sedi del potere.

C’è un evento in particolare, gli OpenDays, a cui partecipo ogni anno: 5000 persone di  tutta Europa prendono parte in una settimana a centinaia di seminari che si tengono in parallelo in decine di sedi in tutta la zona delle istituzioni UE. È bello e utile prendervi parte. Ogni due ore ci si mette in movimento e un fiume di persone sciama da un posto all’altro, tutti col badge al collo, sciarponi di lana e voglia di capire il futuro. Negli ultimi anni, per questa transumanza da una sala all’altra, ho più volte scelto i percorsi più brevi e non quelli consigliati; a 200 metri dalla cittadella della Commissione ho trovato gli avamposti della città “di sotto”. Quartieri dove gli onnipresenti e sterili bistrot biologici con frullati al rabarbaro e mango cedono spazio a self service bisunti con menu completo a 7 euro, le boutique setose a rassegne di poliestere al 100%, i bar sono affollati di uomini nullafacenti e le donne non appartengono al panorama.

Sarà difficile ripartire, dire cosa sarà la città dopo il coprifuoco. Una strada può essere quella della polizia, di muri e divisioni sempre più alte e presidiate da videocamere e filo spinato, l’altra guardare invece alla costruzione di ragioni nuove e condivise del vivere assieme. Di certo occorre una forte guardia perché questo processo superi la fase embrionale, nei convegni della UE la chiamerebberro 'resilienza', una politica legittimata dagli abitanti che lavori per unire e sappia arginare Commissione Europea, costruttori e multinazionali, capace di creare pari opportunità per tutti. 

venerdì 13 novembre 2015

Di cosa parla IL DONATORE, il mio nuovo romanzo.

Mi ha contattato una studentessa che sta facendo una tesi sui nuovi strumenti di finanziamento social. Vuole avere il mio libro Il Donatore nella sua bibliografia poiché ‘ovviamente’ riguarderebbe i temi del crowdfunding e della collaborazione, tutti argomenti che bazzico da anni per lavoro.
Invece no. Proprio per niente.

Il Donatore è un romanzo, il mio ottavo libro di finzione dal 2005. Un testo in cui credo molto e che rispecchia la mia voglia di leggere la realtà in questo momento.

Come gli altri libri, nasce dall’urgenza di rispondere a domande che mi trovano impreparato, le cui possibili risposte mi spaventano anche.
Prima di tutto: il tempo indeterminato è un concetto superato anche nella coppia? Già nel mio precedente People from Ikea affrontavo il tema della flessibilità come strumento per sopravvivere. Stavolta però guardo nella coppia e provo a capire come pormi rispetto alle sfide frequenti che il tempo lancia al retorico “Finché morte non vi separi”? Intorno a me, come immagino a voi, tante coppie si avvitano in contraddizioni e difficoltà, spesso si sfaldano. Credo che nessuno possa tirarsi fuori dall'incertezza di fondo e dalle scelte quotidiane che, se rimandate, portano alla deriva.
In tal senso, racconto una storia al maschile, con un punto di vista diverso dalla maggioranza dei libri e dei film sul tema. Un libro sui sentimenti con con molta azione e distillati di ironia. Può piacere, straniare e forse anche a tratti irritare. Per questo cerco lettori e lettrici complici e aperti al rischio di non amare i protagonisti anche per il timore di immedesimarsi in loro.  

L’altro tema è quello della messa in discussione al nostro vivere cittadino, con priorità e desideri dettati da un ambiente artificiale, dall’alta densità di relazioni in cui si è immersi anche controvoglia. Questo viene messo in relazione con un ideale ritorno alla natura, alla montagna nel caso del mio protagonista. È l’idea del piano alternativo, che può diventare una fuga ma anche una ripartenza  
Tutte questioni che mi pongo immergendole nel presente e proiettandole in un futuro sempre capace di stupirmi.

Sto per iniziare le presentazioni che immagino come la proiezione dei personaggi nelle opinioni dei presenti. Non vedo l'ora. Si comincia con Roma e Genova, il resto d'Italia seguirà. 
In generale accetto proposte sia in luoghi formali come librerie e biblioteche che in spazi e modalità inconsuete come case private, associazioni, fate voi, Per saperne di più, leggete qui  


Il libro è disponibile da pochi giorni su tutte le piattaforme di vendita on line e la distribuzione sta via via rifornendo le librerie in tutta Italia, dove però non vergognatevi di ordinarlo.

lunedì 2 novembre 2015

Halloween a Roma, tra politica, dolcetti e scherzetti.

Sabato sera ero a una festa di bambini dove molti genitori parlavano di politica. Dopo essere stati tutti esperti di motociclismo per una settimana, gli italiani si sono scoperti tutti esegeti della politica capitolina; vivendoci,  vi assicuro che dal di dentro le cose sono assai diverse. Contribuisco con un po’  di opinioni e punti di vista raccolti e sentiti tra dolcetti e scherzetti. Molta rabbia, disullusione, parole in libertà. Parolacce, sfanculi e simili sono epurati:

Sul PD: Massacrato da tutti con precisione e competenza.
Il PD a Roma è finito, le persone schifate, le decisioni prese incomprensibili e faziose, su questo unanimità totale. C'è spaesamento perchè la città guarda da sempre alla sinistra con interesse, ma non è disposta a farsi fregare oltre il tollerabile. Le opinioni in merito spaziavano dai metodi dell'opaco Orfini definiti “fascisti” e “pericolosi”, specie per aver imposto le dimissioni ai suoi senza portarli in aula nell’evidente timore di non riuscire a controllarli; al classico “la pagheranno alle urne, la pagheranno cara.” Un diffuso “Questi vivono sulla luna, non hanno idea di cosa pensino gli elettori, sono loro i marziani.” "Barca ha detto che metà delle sezioni vanno chiuse, l'altra metà vanno trasformate in temporary shop". A un più sottile e caustico: “Il metodo Boffo in mano al PD romano diventa cicuta pura e ognuno di noi deve preoccuparsi.”

Su Marino: utile e inutile assieme.
Chiaro il commento dell'esperto: “Con Veltroni l’opposizione non esisteva, con Alemanno l’opposizione non esisteva, con Marino c’era solo opposizione perché l’Alieno aveva deciso di non atterrare nella merda che vedeva dappertutto e ha provato a spazzarla e a ripulirla.” Parecchi lo rivoterebbero. Molti non lo rivoterebbero ma “Marino è crollato perché invece di chiudere gli occhi ha schiacciato i piedi di tutti, e non è di certo un genio.”


Su Milano capitale morale:
“Questa cagata pazzesca di una città grande come il Tuscolano che vuol darsi delle arie e invece è marcia: con mezzo consiglio regionale inquisito, la mafia a ogni livello e l’Expo con più scheletri nelle fondamenta che la Salerno – Reggio Calabria”. “Cantone l’ha detto e due giorni ci ha rifilato Tronca, uno che mandava suo figlio alle feste con le auto di servizio, che come prima cosa è corso a leccare in Vaticano.” 
Una chiosa sull’Expo condivisa da molti “Ci sono stato e mi hanno fregato con una truffa in scala planetaria: se in un cinema ci stanno 300 persone e vendono 1000 biglietti tu che non vedi nulla non ti incazzeresti?  L’Expo era quel cinema moltiplicato per mille. La quantità è qualità solo per chi salta le code.”  "Una colossale occasione sprecata pagata da tutti noi."

Sul Vaticano:
Colorito il considerarlo “Una banda di scappati di casa per non lavorare, attenti solo al loro portafoglio, a non far adottare i bambini a chi li desidera, fuori dal tempo e dentro solo ai loro giochetti per mantenere aperte quattro scuole private per ricchi e a non pagare le tasse.” Utile a capire il “In Sicilia c’è solo la mafia, qui abbiamo la mafia e il Vaticano e non c’è davvero nessuna speranza.” Sul tema ho detto la mia su  un post precedente

La Repubblica
"Non serve neanche per accendere il caminetto: è stata schifosa e falsa per tutto il tempo sapendolo di esserlo e questo la rende degna del fallimento." "La tessera all'ordine dei giornalisti serve solo a entrare gratis allo stadio" "Vedrai se quel mentitore seriale di Francesco Merlo non ce lo ritroviamo eletto dal PD." In effetti, concordo, il quotidiano è stato indegno dellla sua storia e ha stampato pagine nere del giornalismo.

Sul Sindacato:
Analitico il “Marino è caduto due giorni dopo aver dichiarato nel silenzio generale che i 41 dipendenti comunali per cui è stata provata l’assunzione illegale da parte di Alemanno andavano licenziati”. Più circostanziato il “Stanno tutti a rompe li coglioni con questioni di diritto ma tutti timbrano il cartellino degli altri, si rubano pure le scrivanie e fanno quello che gli pare.” Opportuno “I sindacati hanno lasciato andare a schifo qualsiasi idea sensata sul lavoro in cambio di migliaia di assunzioni illegali.”

Sul M5S
“Se candidano qualcuno meglio dell’Asino di Buridano vincono a occhi chiusi.” Con aggiunte tipo “Se non vincono è perché se la fanno sotto a gestire Roma e non vogliono vincere.” In effetti la sensazione è che se riescono a presentare un candidato credibile e capace, magari già con la sua squadra di qualità e non i soliti scappati di casa col sorriso bianco come la fedina penale, vincono a mani basse.

Sulla Destra

Quando si parla della destra e di Alemanno, la Meloni, di gente così, i toni si abbassano: “Fanno paura, paura paura.” I danni fatti dal precedente sindaco con la complicità di questo stesso PD bruciano ancora sulla pelle di tutti quelli che prima di votare pensano  al bene collettivo e non al figlio da far assumere (e fortunatamente ce ne sono tanti).

Su Roma:
"Hai visto il cielo di questi giorni? Hai mai visto un cielo più bello in vita tua? Non esiste."

domenica 25 ottobre 2015

Cos’è e come funziona il Social Eating.

Da più di un anno sono iscritto come cuoco a una piattaforma di Social Eating. Nel mio caso si tratta di www.eatwith.com , nata in Francia, ce ne sono comunque diverse.
Ho fatto finora 6 cene. Sempre due commensali, tranne nell’ultima che erano quattro. Per loro era sempre ‘la prima volta’ in un contesto del genere, età tra i 35 e i 50, benestanti, amanti della convivialità. Si tratta di cenare a casa di sconosciuti di cui si sa qualcosa attraverso i meccanismi di creazione di fiducia tipici dei social, con cui la naturale riservatezza viene compensata dalla curiosità e dalla sensazione di poter vivere qualcosa di unico. Qualcosa di totalmente diverso dal ristorante.  
Adoro cucinare, ho spesso amici a tavola, sperimento anche quando ceno da solo, cerco anche da sempre di capire come il cibo e la convivialità generino dinamiche di relazione, accoglienza, affetto, comprensione. Ovviamente in quei casi  miei invitati sono ospiti, al massimo si presentano con una bottiglia di vino o una vaschetta di gelato (oltre che con un paio di amici invitati a sorpresa).
Nel socia eating invece le persone pagano per mangiare a casa tua. Tu fissi il prezzo e la piattaforma che mette in contatto e gestisce le transazioni ci aggiunge un 10% per il proprio servizio.
Il perché lo fanno e perché, le persone cucinano può a grandi linee dividere il modello in due grandi categorie:

I social chef PULL
Il mio caso. Mi sono iscritto al sito con le mie credenziali social, ho descritto l’ambiente della mia cucina, il fatto che a tavola potrebbero ritrovarsi anche i miei pupetti, ho messo le foto di un po’ di piatti possibili a titolo di esempio. Non faccio nulla di attivo, mi limito a segnare le giornate in cui posso ricevere ospiti. Sono anche disponibile a farli cucinare con me o a ipotizzare un giro mattutino al mercato assieme. Ogni tanto mi arriva un amail “Pascale vorrebbe cenare da te il 27, accetti?”
Se tutto questo (unito alle recensione degli ospiti precedenti) convince qualcuno, mi contattano. Se posso, il profilo di Pascale mi convince, le sue eventuali  richieste sono di senso (es. ben accetti celiaci, astenersi vegani), accetto. Allora discutiamo (poco)  di menù e di quello che vogliono e li aspetto nella sera e all’ora concordata. 
Il prezzo è il costo degli ingredienti per tutti i presenti al tavolo. Siccome poi offro assaggi, grappini etc, il costo è spesso solo una parte del rimborso alla spesa.
I miei ospiti (massimo 4) arrivano assieme e tra loro si conoscono sempre, sanno che sarò a tavola con loro con la mia famiglia a parlar di cinema, di Italia, viaggi, a dare consigli su come godersi Roma, sui nuovi percorsi di Street Art a Roma, a rispondere domande sul costo degli affitti nella mia zona, sulla provenienza dei porcini che ho accoppiato al pesce spada, sui quadri che ho alle pareti.  
Il cibo sarà una sorpresa per tutti i presenti.  
Lo faccio non più di una volta ogni due mesi, perché voglio dare il meglio, perché non è un gioco e loro si meritano l’accoglienza di uno non annoiato, perché la mia famiglia deve vivere la novità dell’ospite con entusiasmo. Sanno infine che faccio tutto questo anche per poter parlare un po’ il francese, difficile da praticare a Roma.

I social chef PUSH
Sono cene più organizzate e che vanno molto di più incontro al mercato. 
Ragionano dunque di comunicazione, programmazione di cene, stagionalità.
Sulla piattaforma, una italiana perfetta allo scopo è anche www.gnammo.it , chi apre la propria casa a ospiti presenta la cena, in una data da sé scelta, per un prezzo da fissato, per un menù esplicitato per intero dal principio. Spesso si tratta di eventi aperti a numeri maggiori (anche fino a 15-20 partecipanti).
Anche in questo caso, la reputazione conquistata con precedenti cene favorisce la scelta e rassicura tutti. L’organizzatore rimanda l’evento creato dalla piattaforma attraverso i propri social e con le proprie mailing list. Vi è dunque un importante lavoro di comunicazione non presente nel caso precedente da cui spesso dipende la riuscita della serata.  
In questa tipologia il padrone di casa è straimpegnato e la regia della serata deve essere più accorta e complessa, dedicando il tempo a tutti, includendo i timidi etc. In molti casi questo è favorito dal fatto che le cene sono a tema, o c’è l’ospite di riguardo (architetto, attore, …), magari qualcuno suona.
Sono cene conviviali, dove i commensali tra loro spesso non si conoscono e, anzi, usano l’occasione per allargare la cerchia delle relazioni, sia in ambito professionale che amicale. Per questa ragione è più bassa la presenza di stranieri, al tavolo si parla spesso italiano.

Responsabilità, fiscalità, rapporti con i vicini di casa? E’ tutto poco definito nel dettaglio. Sia chiaro: non si fa ristorazione ma si invitano persone a casa. 
Finché non c’è guadagno in chi ospita, si tratta di un contributo al costo della spesa. Per chi invece guadagna e lo fa spesso esistono i commercialisti, le leggi e la propria coscienza. 
Come per AirBnB, si stanno sviluppando forme assicurative ad hoc.
Come molte pratiche di Sharing Economy, il social eating intercetta bisogni e necessità reali e la realtà è anni avanti alla normativa, agli interessi corporativi, ai vuoti discorsi su certo turismo ‘esperienziale’ fatti dagli esperti di fuffa. Porta turisti nelle periferie e riempie di ricordi i carnet di viaggio. È bello, e mentre lo fai ti rendi conto che è intelligente, utile e mischia le idee generandone di nuove.   

venerdì 16 ottobre 2015

Vi racconto l'imperdibile Maker Faire a Roma.

We are Makers since the Big Bang” dichiarano i due cartelloni scritti a mano posti fuori dalla chiesa de La Sapienza per attrarre all’interno qualcuno dei 100.000 visitatori attesi quest’anno. Credo da sempre che i seminari formino i migliori copywriter sul mercato e anche questi non fanno eccezione. La passione e la voglia di cambiare il futuro, per i visitatori, hanno comunque qualcosa di messianico.
Per la prima volta all’interno della cittadella universitaria, la Maker Faire è colossale.  Era pienissimo di gente e oggi Venerdì 16 ottobre era solo il primo giorno.
Si tratta di circa 600 stand che presentano pavimenti che suonano se li calpesti, bici fatte di bambù o tagliate al laser, droni di ogni dimensione che svolazzano qui e là, orti idroponici da appartamento, stampanti 3D capaci di realizzare gioielli o case, tessuti in fibra di legno, tutori intelligenti, sensori che apprendono, una rock band di robot (stonata ma scenografica), una scatola nera per il trasporto di opere d’arte, robot per fare modellazione 3D degli spazi catacombali, specchi che portano il sole nel buio anche negli scantinati, macchine per scrivere sulle pappardelle. Poi robot che annusano, spostano, aiutano anziani, programmabili da bambini, realizzati con lego, gli scarti, la gomma.

A cosa serve tutto questo?

Non si sa, non è chiaro neppure agli espositori, e proprio per questa ragione è bellissimo. È necessario. È energia e sogno. È magmatico e si ridefinisce continuamente. 
In posti così capisci che il futuro è adesso. Se si trattasse di prodotti per il mercato la fiera sarebbe solo noia e grosse cravatte su giacche blu. Ogni stand è una sorpresa, ti accende neuroni, ti stupisce.
Sì, alcuni sono destinati al fallimento, altri meno, altri sono figate pazzesche: in questi casi è il tutto che acquisisce valore perché valgono tutti lo stesso rispetto e proprio dai fallimenti nasceranno le più grandi fortune.

Percepisci anche la distanza di quell’accozzaglia di cervelli dalle istituzione e dalla politica. Amici politici, andateci, almeno 4 ore, potrebbe cambiarvi la vita e dare ossigeno ai vostri neuroni. Anche l’Università che l’ospita sembra un guscio vuoto, e i palazzi diventano quinte polverose per  un dinamismo dimenticato tra quelle mura che è forse quello che ha fatto, centinaia di anni fa, nascere l’idea stessa degli studi superiori.

La curiosità è la leva che sposta le persone lì, la collaborazione è il pilastro che le cementa, la fiducia un prerequisito naturale all’essere lì. Il talento l’indicatore di reputazione.
Mi ha colpito la forte presenza femminile in tutti gli stand che leggo secondo due direttrici: più donne nelle facoltà scientifiche, nei gruppi di coding e nei fab lab, così come (finalmente!) la presa d’atto che la tecnologia senza l’umanesimo magari sviluppa mercato ma non ha impatto sulla società e lascia l’Italia sempre più in fondo alle classifiche.
In quei vialoni, oggi ho sentito davvero forte il senso della tanto declamata Social Innovation e di cosa voglia dire progettare con e non per.
Grande la presenza di designer. Intendo dire che le cose presentate erano spesso molto belle, molto più di quello che ti aspetteresti da un nerd o da chi pensa che le soluzioni siano responsabilità delle procedure. Grande attenzione quindi alla esperienza d’uso.
Mi ha sorpreso come gli stand delle grandi aziende come Google, Telecom o Microsoft elemosinassero visitatori a suon di gadget. Se li filavano in pochi, così come le loro soluzioni ‘chiavi in mano’ reperti di una preistoria fatta di SMAU e saloni del genere. A generare la ressa erano invece gli stand che abilitavano gli utenti a fare cose nuove, a esplorare strade, non a applicare procedure codificate in California per essere usate da Tivoli a Tahiti.  

Andateci, lasciatevi stordire, guardatevi intorno, fatelo per voi stessi e poi – chissà – darete anche voi vita a qualcosa di buono per tutti.

venerdì 2 ottobre 2015

Il Giubileo della Misericordia nel costato della città ferita.

Decido a sorpresa di invitare a casa tua 35 milioni di pellegrini e te lo dico con soli sei mesi di anticipo. Lo so, scherzi da prete! L’ultima volta, nel 2000, gli imbucati nella tua città per la mia festa erano solo 25 milioni e ti sei preparato per 4 anni. I tempi sono cambiati, bisogna stupire. Un Giubileo a sorpresa fa tutti felici, è come un democratico gratta e vinci dove la Chiesa stampa e benedice i coupon e tutti vincono, e vengono a grattare a casa tua. 

Tranquillo però: stavolta facciamo una cosa semplice, non voglio niente di ché. Dammi giusto qualche fontanella per l’acqua e due porchettari che spaccino merende; un menù a tarallucci e vino è perfetto. Magari, visto che ci siamo, fammi anche qualche via pedonale che porti di qui a lì, cessi a centinaia, e qualche parcheggio per migliaia di pullman. Per gestire la sicurezza io ci metto le guardie svizzere che spaventano i bambini e spazzano le cicche, tu pensa al resto. Se si ammalano, tengo aperta la Farmacia Vaticana; per il resto confido in te.
   
No, non puoi dire di no, questa non è mica una Olimpiade che prima di assegnartela verificano che tu abbia i requisiti, questa è la croce del Giubileo e devi portarla, ringraziare, sorridere ai pellegrini e darmi pure l'8 per mille.
So che hai un grande cuore. Sì, mi rendo conto che sei una città stremata dal maggior sconquasso accaduto da quando Romolo ha ucciso Remo. E con questo? Pensa positivo, keep calm, guarda avanti anche se la mafia è radicata in tutti i partiti di governo e opposizione; anche noi abbiamo parecchia brutta gente nell'organizzazione però siamo qui da duemila anni e anzi, valorizziamo le debolezze e organizziamo questi mega party per peccatori. 
So anche che hai i servizi di trasporto e la nettezza urbana in ginocchio, spolpati dalla politica, zeppi di dirigenti incapaci, sindacalisti conniventi e popolati dagli estremisti neri, però la festa del mio club è troppo importante. Sì, sanno tutti che i tuoi vigili urbani sono allo sbando e senza credibilità, e quelli dell’ufficio parchi e giardini quasi tutti al gabbio. 
Soldi? Fai tu, mi fido e mi riservo di lamentarmi dopo. Te ne darei anche un po’ se li avessi ma a mia insaputa mi impediscono di pagarti l’ICI sui miei hotel con la Madonna nell’ingresso e la piscina nel parco. 
Però sappi che ho parlato con la Provvidenza e mi ha assicurato che ci dà una mano. Non la conosci? È esattamente come la Protezione Civile, scende dall'altro senza elicotteri e se non fa il suo dovere non la puoi inquisire come Bertolaso.   

Sbrigati, su. Io non faccio parte dell’Unione Europea sai, e dunque se faccio le gare d’appalto uso la trattativa privata e in due settimane assegno i contratti a chi mi pare però, dai, per me anche tu potresti fare uno strappo. Lo so, per fare tutte le gare in regola ci vogliono almeno 12 mesi; accelera e dagli una botta. D’altronde l’hai già fatto per l’Expo di Milano. Ci saranno furti e illeciti? E chi se ne frega, tanto quelli del brand l’hanno chiamato Giubileo della Misericordia e basta una passeggiata sotto le 5 porte sante e i peccati di tutti saranno risciacquati via.

Poi, se proprio hai timore, a fare il capro espiatorio lasciamo Marino, l’utile idiota perfetto. 
Stava pure provando a aggiustare un po’ la città e se non arrivavamo noi col Giubileo Straordinario magari riusciva pure a sistemare questa città sbrindellata. Bell’idea, vero il nostro megaparty? Ci stanno ringraziando in molti. Gli abbiamo attizzato un roseto ardente sotto il Campidoglio: o scappa per il fumo o finisce arrosto. A forza di seminar zizzannia, abbiamo convinto il mondo che lui ha colpa ‘a prescindere’, perché tanto è quasi comunista, se la fa con i gay e non si inginocchia alla comunione, 'sto zozzone.  
La verità è che in realtà nessuna città al mondo potrebbe organizzare un party del genere in sei mesi. Se poi il Giubileo funziona, diremo che è stato un miracolo accaduto nonostante Marino. Qualsiasi casino sarà invece colpa sua.
Eh, bella la mia Roma, vedi, come è facile organizzare giubilei a sorpresa con le città degli altri.

Il tuo amato Stato del Vaticano


lunedì 14 settembre 2015

Tutti in Sardegna, la Sardegna non per tutti.

Ho avuto il piacere di essere selezionato nel team di esperti esterni del Primo Festival della Resilienza a Macomer, organizzato dall’infaticabile Associazione Propositivo. Forse mi sono per la prima volta avvicinato a comprendere lo specifico della Sardegna. 
Il Festival era realizzato in modalità “brainsurfing” e dal nome in poi era tutta un’incognita. Mi è parsa subito una sfida da cogliere, un po’ incosciente, un po’ per sognatori. Si è trattato di osservare con occhi nuovi un territorio ricco di potenziale e di criticità, con molta gente in gamba desiderosa di confrontarsi, innamorata di quei posti bellissimi e difficili.
Per una settimana a Luglio ho incontrato lo splendore della Sardegna. Nel sudore dei pomeriggi a 40° e nelle serate ai nuraghi mi sono confrontato, portando quello che sono. Ho goduto di un’ospitalità smisurata e li ho sentiti ammettere di come invece siano restii nell’accoglienza, li ho visti impegnati a creare ponti con la Cina e gli USA ma anche involuti nella complessità di 8 inutili province (nonostante abbiano meno abitanti della sola provincia di Torino), centinaia di micro e antifunzionali comuni seduti in ragioni antistoriche, affezionati una serie di regioni che non esistono amministrativamente ma radicate nel dna (Macomer ad esempio è prima di tutto nel Marghine, che confina con la Palargia, da qualche parte ti aspetti pure la Terra di Mezzo… in confronto pisani e fiorentini sembrano gemelli siamesi.)
Ho verificato di come la Sardegna sia la regione meno ‘italiana’. In confronto, l’Alto Adige pare un quartiere di Roma popolato da biondi con gli occhi chiari. Il tedesco parlato a Bolzano è lingua comunque in grado di aprire a altri mondi; in Sardegna, il sardo è il muro invalicabile alla comunicazione con l’esterno. Non è solo la lingua a segnare il distacco ma ancor di più il riferimento la civiltà nuragica: un mondo impermeabile a fenici, greci e romani, sconosciuto ai sardi stessi e dunque mitizzabile oltre misura, come accade solo per i vichinghi e Atlantide.

Ho diretto per anni un’azienda leader nazionale nei servizi alla pubblica amministrazione e non partecipavo mai a gare sarde perché “In Sardegna lavorano solo i sardi” era l’imperativo condiviso da tutti nel settore. Mi è parso dunque naturale che in Sardegna nascesse una moneta complementare perfetta come il Sardex, che rende una pippa il Bitcoin. (Il Sardex è una efficace moneta a interessi zero usata da migliaia di imprese, ancorata all’economia del territorio, funziona solo in Sardegna). 
Anche in Sardegna, come è evidente in Calabria e Sicilia, il sistema è drogato dalla logica frammentata e a corto respiro dei finanziamenti europei, in difficoltà nel lavorare assieme per ottenere risultati nel lungo periodo (che è poi la base della resilienza che uno sparuto gruppo di coraggiosi si sforza di portare all’attenzione della politica e dei cittadini). La pubblica amministrazione vede troppo spesso se stessa come erogatrice di fondi a pioggia e non come facilitatrice di processi in grado di abilitare comunità a farsi carico di se stesse. Tanti progettini, dunque, per un’esistenza al presente che scorda le generazioni che verranno. E in troppi se ne vanno.

Qualcuno però non si arrende. Con me, a Macomer, c’erano almeno sette o otto sardi che dopo anni all’estero o in giro per l’Italia, si sono convinti nel segnare strade di ritorno e non solo vie per trovare futuri altrove. Sono forse loro i primi a incunearsi con agilità nelle fessure che la modernità riesce ad aprire anche lì. E risvegliano, e si saldano a energie non spente: quelle della coraggiosa libraia di Macomer, dell’associazione che vuole rimettere in funzione il fantastico trenino che taglia l’interno dell’isola, di chi la Sardegna la canta e la suona con orgoglio, chi punta sul vino, chi sull’agricoltura idroponica. 

Ottimista? Realista, con una propensione a vedere più chi interviene di chi si lamenta e nega la realtà. Compiaciuto che alcune delle più belle persone che ho incontrato vogliano occuparsi di politica. Stupefacente e controcorrente forse, ma in linea con una grande tradizione e segno che forse proprio da posti diversi come la Sardegna possano ripartire le idee e i progetti di chi vuole pensare in grande (e diversamente).

domenica 23 agosto 2015

La discussione più surreale della mia estate

Con Piero ho diviso un letto matrimoniale in un piccolo B&B in un bel paesello sulla costa occidentale della Sardegna. (… del perché eravamo nello stesso letto vi racconto magari un’altra volta J)
Del proprietario sapevamo solo che era di origine veneta e che la sera prima era andato a ascoltare la guru ambientalista indiana Vandana Shiva che teneva una conferenza in un paesino poco lontano dal nostro.  Di per sé la cosa era interessante, anti Expo quanto basta, e non vedevamo l’ora di farne argomento di conversazione davanti a un caffè sulla sua splendida terrazza. Per colazione era vestito come il tipico Guru: pantaloni in seta cotta blu e una maglia rosa antico con una scritta verticale in qualche lingua orientale il cui significato era accessibile a pochi. Capello lungo e aria vissuta.
“Come è stato l’incontro di ieri sera con Vandana Shiva?” Fu la nostra prima domanda, buona per rompere il ghiaccio.
“Non male,” sentenziò. “Lei è certo un po’ una star. C’era gente che mentre l’ascoltava piangeva, degli svitati. Quello che dice però è identico a quello che le senti raccontare su Youtube. Secondo me non sapeva neppure di essere in Sardegna.”
“Di certo è una specie di testimone e fa del racconto un modo per rompere l’indifferenza di molti. Comunque è una coraggiosa,” dissi io.
“Tanti dei suoi amici sono morti o spariti per difendere le loro terre dalle speculazioni e dagli OGM,” aggiunge Piero assertivamente.
“Già, quella è l’India,” era l’opinione del Guru.
“Fosse stata in Russia, neanche lei sarebbe più qui a girare la Sardegna,” ammiccò ancora Piero.
“No, questo no!” si inalberò il Guru. “Non credeteci! Non è mica come ci dicono: Putin è un grande e i russi non hanno mai amato tanto un loro capo. Anche sull’Ucraina ci raccontano un sacco di palle. Io mi informo e so per certo che c’è un complotto internazionale nei suoi confronti, tutto quello di buono che fa viene boicottato.”

Ci prese in contropiede. Come poteva un veneto affittacamere trapiantato nell’isola essere così filorusso e avere una passione così spassionata per Putin?
Accanto a me, Piero, mister resilienza in persona, boccheggiava in difficoltà a incassare il colpo. Io deglutivo Lavazza bollente. Il totale silenzio ci sembrò la migliore forma di blando rispetto verso il padrone di casa.
Che sproloquiava ancora la gloria di Putin quando, d’improvviso, apparve La Risposta alle nostre domande.
Dalla stanza accanto, con le unghie laccate e gli occhi blu ghiaccio, si manifestò una figa spaziale degna del ruolo di gnocca cattiva nei migliori film di 007. Curve mozzafiato, lunghi capelli biondi, sorriso perfetto e origine moldava russa.
Avevamo davanti l’altra metà del Guru, colei che ne possedeva pensieri e opinioni e elargiva in cambio di abbastanza sostanza da tirare ben più di un’intera mandria di buoi.
Annuiva a quello che lui affermava; non aveva bisogno di parlare. A favore di Putin avrebbe potuto parlare per ore ma il suo linguaggio non verbale diceva tutto.
Ci trovammo insaccati peggio che un sottomarino americano prigioniero in Crimea. Nessun argomento razionale poteva batterla. Anche dimostrare come i russi mangiassero i bambini, i giornalisti e gli attivisti sarebbe stato fiato perso nel vento della steppa.
Piero tentò un approccio morbido: “Certo che a Sochi per organizzare le Olimpiadi non hanno certo rispettato l’ambiente…” che suonava come l’accusa di evasione fiscale a Al Capone.
“Voi italiani non rispettate certo l’ambiente quando vi fa comodo,” sentenziò lei, “chi lo fa poi?”
“Forse nei paesi nordici, sia i diritti delle persone che dell’ambiente sono più tutelati, rispettati, per esempio,” osai dire io.
“Quelli ammazzano e mangiano le balene!!” urlò il Guru come se quella balena di sua cugina fosse tra gli esemplari minacciati. “Sono popoli incivili! Gente come i norvegesi rovina il mondo,” era livido di rabbia.
Di nuovo la discussione pattinava sul ghiaccio e applicare la logica diventava del tutto inutile.
“Però sono posti fantastici. Io andrò in vacanza con la famiglia alle Lofoten quest’anno. Proprio dove si fa lo stoccafisso, sapete?” dissi a mio rischio e pericolo, ed era pure vero.
Piero lì, aggiunse un carpiato fenomenale e affondò sull’unico altro argomento capace di unire i popoli oltre alla gnocca: “Però il baccalà come lo fate voi in Veneto… una vera goduria.”
Anche La Risposta convenne: “Eccezionale anche sulla polenta!”
Fu come aver fumato assieme il calumet della pace.

Uscendo dalla porticina che dava sul vicolo diretto verso il centro storico avevamo solo il desiderio di allontanarci abbastanza per ridere sguaiatamente e raccontarci infinite volte ogni dettaglio. 

martedì 18 agosto 2015

Quando la televisione è vuota.

La nomina di sette consiglieri over 60 nel CdA della RAI spinge a una riflessione sulla tv pubblica, sul suo senso e utilità.
Non c’è nulla in televisione” lo sento dire sempre più spesso. Dapprima viene da chi ha solo i programmi in chiaro. Ecco allora l’investimento nei canali a pagamento. “Non c’è nulla in televisione” sbuca dopo poco. Ecco allora l’aggiunta di qualche pay per view, la prossima sarà Netflix. Non ci sarà nulla da vedere neanche lì perché è chiaro come la tv da noi conosciuta negli ultimi 40 anni sia finita.
La sterminata ricchezza di contenuti di Internet è a disposizione di tutti e in particolare di una generazione che li sa trovare, selezionare e apprezzare, avesse anche i soldi per comprarsi la tv non sarebbe poi così interessata a farlo. Le vendite sono infatti in picchiata. Le Smart tv sono l’anteprima di quanto il mercato può offrire ma non bastano neppure a togliersi l’appetito. La loro usabilità è nulla. Il fascino del 50 pollici è però inimitabile e dunque non credo che verrà soppiantato dal computer o dallo smartphone. Piuttosto serve una tv che si comandi come un tablet, che faccia le stesse cose comandata a gesti e parole.
I palinsesti saranno di libera composizione da parte dell’utenza. Per godere appieno il mare magnum dei contenuti si affermeranno degli opinion leader che, come accade su Twitter, segnaleranno le cose che vale la pena vedere e perché. In fondo, già oggi questo avviene per decidere che serie scaricarsi o vedersi su qualche sito pirata. Vi saranno poi gli “eventi”, trasmissioni d’eccezione che varrà la pena vedere in modo sincrono, tutti assieme, attorno al focolare al plasma. Si tratta di Sport ma anche di concerti pop, festival, qualche reality, anteprime e rarità.
L’utenza si segmenterà sui filoni che corrispondono ai desideri,  alle necessità e agli istinti, tra loro anche in parte sovrapposti:
  • Chi vuole capire e informarsi, seguirà programmi e contenuti di approfondimento su un palinsesto infinito
  • Chi vuole divertirsi/svagarsi, avrà a disposizione format e servizi allo scopo, film, serie, …
  • Chi vuole imparare, potrà accedere a tutorial e contenuti di autoformazione, formazione collaborativa, elearning
  • Chi vuole scommettere, accederà a programmi e piattaforme interattive r potrà farlo anche sovrapponendosi ai format precedenti (scommettere in tempo reale sul vincitore del Festival, la squadra di calcio, etc…)
  • Chi vuole socializzare/rimorchiare, avrà ogni modo per farlo (inclusa la telecamera in dotazione a ogni apparecchio).
  • Chi vuole seguire un movimento/religione/partito avrà l’ambiente per farlo attivamente senza alzarsi dal divano  

Tutto questo avrà  senso se funziona, se affascina, se batte la concorrenza di altri device (quella con la realtà è battuta in partenza). La principale scommessa sarà quella sull’usabilità di questi servizi. È lì che bisogna sperimentare e investire qualche trilionata.
Piccoli esempi: guardando un programma sulle vie medievali di Dolceacqua in Liguria posso poter prenotare direttamente un hotel o un ristorante in loco senza interrompere la visione. Dall’ennesimo programma della Clerici in cui si cuociono asparagi alla birra potrò comprare vegetali o prenotarmi per un corso da mastro birraio. Con la stessa facilità si potranno immaginare contenuti su cui costruire sondaggi, sistemi di votazione, quiz, vendite, anche decidere le trame delle fiction a maggioranza.

Quanto ci vorrà? Non credo sia questione di tecnologia quanto piuttosto di cultura del pubblico. Se consideriamo nativo digitale chi è nato dal ’90 in poi, diciamo che la massa arriverà al potere di acquisto di una tv nei prossimi 5 anni. E se la tv non sarà così, le stesse cose si faranno sui pc, smartphone o – peggio ancora – le persone riprenderanno a uscire e a vedersi di persona, pratica, si sa, poco smart e scomoda in generale.

Ecco allora come la RAI e i sui ultrasessantenni al potere fanno quasi tenerezza: soprammobili fuori moda nella stanza di comando.
Se poi, addirittura, qualcuno si ricorda che parliamo di un servizio pubblico, ecco come questo agghiacciante post debba trovare nella società degli anticorpi  che ne sciolgano i poteri eversivi, blocchino i rischi di censura e monopolio delle idee, liberino lo spirito critico nella costruzione di opportunità. Forse allora chi volesse occuparsi di televisione e bene comune potrebbe ripartire dall’educazione alla curiosità, al rispetto per il diverso, all’insegnare a usare il mezzo per arrivare a un fine che si basi su contenuti fatti con/per e i parte da l’utenza e non dagli inserzionisti o dal governo. 

martedì 4 agosto 2015

Strade pulite, persone pulite.

A volte ospito post importanti, che mi paiono utili a molti, in grado di segnare una strada.
Ecco perchè questo ragionamento sul senso civico e sul futuro del Paese, pubblicato da Elena su FB, va amplificato, fatto girare, ripreso e condiviso. 
Elena è un'amica che ha deciso di fare piuttosto che stare a guardare. Da lei c'è davvero molto da imparare. 
-------------------------------  * ----------------------------------
Mettiamo in chiaro qualche concetto, che mi pare ci sia una certa confusione.
Dico due parole ad una piccola assemblea pubblica, un amico mi dice di metterle nero su bianco, sulle prime esito poi capisco che è il momento giusto. Mi ci metto, i pensieri si allargano, i collegamenti si moltiplicano e quindi parto da lontano.
Chiacchieravo camminando con una mia insegnante, la classica ragazzona americana, allegra, che parla sempre tanto e a voce alta, un metro e ottantacinque di Heather Parisi. Incidentalmente, viene fuori che ho frequentato il liceo Cavour, vicino a Colle Oppio a Roma. Appena lo dico, si ferma, lei sa esattamente dove si trova la scuola, mi fissa con uno sguardo improvvisamente serio e mi dice, in italiano “quindi, tu hai visto il Colosseo tutti i giorni per cinque anni. Tu lo sai che significa questo, vero?” La risposta “yes, I know. It’s a great privilege” la sussurro, quasi mi sento in imbarazzo. Dentro di me l’ho sempre saputo, ma per la prima volta questa pensiero diventa materia, come se lo potessi toccare, della stessa materia del Colosseo.
Semisdraiata sul divano, in pieno zapping nevrotico, mi imbatto in un fotogramma di una corsa ciclistica. Meno di un secondo e passo oltre, giusto il tempo tecnico minimo per decodificare sederi-di-uomini-curvi-che-faticano-inutilmente-fasciati-da-ridicole-tutine-lucide (è la mia considerazione del ciclismo, lo ammetto). Altri due, tre canali e non so bene da dove, dal profondo del cervello, dell’anima, un altro pensiero inaspettato mi dice che sullo sfondo della corsa, quel profilo che separava il cielo dalle montagne sembra proprio quello che si vede dalla casa di nonna in Toscana. Torno indietro, anche se mi sembra impossibile averle riconosciute, sono un pezzo qualunque Appennino; mi costringo a seguire qualche minuto la gara e il telecronista, mi conferma, sembra parlare proprio con me, che sì, oggi il Giro d’Italia passa in Mugello. Resto di stucco, quello che ho riconosciuto in un attimo, senza nemmeno essere consapevole di cosa stessi guardando, è stata la linea d’orizzonte di quasi tutte le mie estati, la corona di monti che abbraccia questa valle, la mia Heimat.
Così ho capito perché mi piace tanto andare in giro per musei, mi piace tutto, ma chi mi incanta sono sempre i soliti Cimabue, Giotto, Andrea del Castagno, Beato Angelico: abbiamo visto la stessa linea d’orizzonte; non li conosco, li riconosco. E ho capito che siamo quello che mangiamo, ma siamo anche quello che vediamo, magari distrattamente, per il solo fatto che fa parte dell’ambiente, che sta all’orizzonte, che passa davanti ai nostri occhi, e giorno dopo giorno, queste visioni modellano il nostro cervello, i nostri sentimenti, i nostri valori, diventano norma, cioè ci suggeriscono cosa considerare normale, accettabile. E cosa no.
Il mio impegno nel movimento di ‪#‎RetakeRoma‬, trova fondamento in quello che ho visto. Ho fatto scorpacciate pantagrueliche di cose belle e adesso che so anche guardarle non posso sopportare che si sciupino solo per approssimazione, distrazione, lassismo. È il contrario del culto ossessivo dell’estetica consumistica.
Inizio quasi un anno fa, da sola e poi in compagnia, incontro persone interessanti, simpatiche, intelligenti, piano piano si impara a conoscersi, si parla sempre di più. All’inizio di acquaragia e strofinacci, poi di una visione della città, degli spazi per la socialità, di uso consapevole delle risorse e si condivide lo sgomento per il pantano corruttivo in cui la città sembra putrefarsi. Sulla strada, nei parchi, nelle scuole tocchiamo con mano le conseguenze di questa barbarie silente: erba che cresce ovunque, altalene sfasciate, cestini dei rifiuti svuotati solo dalle cornacchie, scuole rabberciate alla bell’e meglio devastate da scorribande impunite di vandali, marciapiedi impercorribili occupati da stracciaroli abusivi, monumenti imbrattati, sporcizia, sciatteria e inciviltà che dilagano di pari passo, istituzioni quasi sempre latitanti, forze dell’ordine in affanno. E appalti bloccati, da rifare per ovvi motivi. L’Europa è lontana.
Continuiamo, gli interventi si fanno sempre più complessi, costosi anche, ma il giro si allarga, persone veramente speciali infoltiscono le fila o semplicemente si affiancano, c’è chi ci grida “siete grandi!” dal finestrino della macchina. Ci mettiamo alla prova, organizziamo una mega colletta, un successo inimmaginato.
Arriva giugno, fine dell’anno scolastico e chiusura del nostro primo anno di attività. Ci vuole una pausa di riflessione, magari anche un po’ in solitudine per mettere a sistema tanto lavoro, tante conoscenze, tante emozioni.
La realtà chiama, però. Alcuni giorni fa, durante una riunione di Retake qualcuno racconta che un importante concessionario di pubblicità che lavora all’estero e in Italia, anche a Roma, vorrebbe investire di più ma “i problemi che abbiamo a Roma non li abbiamo da nessun’altra parte. Per questo non investiamo anche nel bike sharing, subiamo già troppi danni agli impianti”. Sono arrivati al punto di rinunciare a cospicui introiti pubblicitari per promuovere una campagna contro gli atti di vandalismo. Mi si gela il sangue: secondo questa impresa Roma non garantisce le condizioni ambientali minime per investimenti che fanno tranquillamente altrove. E parliamo di bike sharing, cioè la versione appena evoluta dell’affittasi biciclette, né vale la scusa della burocrazia assurda perché questi a Roma ci lavorano già, il loro problema è il vandalismo.
Contemporaneamente, l’ennesima emergenza. Migliaia di persone approdano straniere in questa città dopo viaggi irraccontabili, persone in fila per un bagno, del cibo, un paio di ciabatte, come in tempo di guerra. Montano orgoglio e sgomento: romani in fila per portare vestiti, cibo, medicine, offrire un po’ di tempo, sezioni di partito come centri di raccolta, finalmente servono a qualcosa, la rabbia al pensiero che con i soldi che ci siamo fatti rubare avremmo potuto accoglierli più dignitosamente. E ancora istituzioni disorientate, appalti bloccati, cittadini di buona volontà che si sostituiscono ai servizi pubblici. Mi presento ad un centro di accoglienza e piombo in un film del neorealismo: in un vicolo che è un manuale di abusivismo edilizio di necessità, con tetti in ondulato e ballatoi con cascate di petunie come neanche a Versailles, incontro facce consumate, occhi che hanno visto l’orrore, ragazzi stravolti che sembrano vecchi, bambini che giocano a spade con i palloncini e ridono scalzi.
A meno di due chilometri, un’armata brancaleone di bigotti fanatici e estremisti non trova niente di meglio da fare che scendere in piazza contro quelli diversi da loro. Vogliono difendere i lori figli e non si accorgono che li stanno consegnando a dei mostri.
L’Europa è sempre più lontana.
Sembrano solo coincidenze, ma il cerchio si chiude e fa impressione. La delinquenza di stampo mafioso ha inghiottito i servizi basilari di questa città, quello che serve per la vita delle persone comuni, i piccoli, gli indifesi, i bisognosi. Per pigrizia, per ignavia, per faciloneria, per distrazione, per non aver visto quanto tutto stesse diventando brutto e cacofonico, abbiamo rinunciato a strade praticabili, scuole sicure, trasporti pubblici efficienti, servizi sociali all'altezza di un paese civile, manutenzione del patrimonio artistico e culturale, piste ciclabili, riduzione dell’inquinamento, servizi turistici, meno soldi per carburante e più in libri, cinema, viaggi. Tutte cose che si traducono in posti di lavoro, in dignità, in opportunità di crescita culturale e spirituale per i ragazzi, per la società intera. Una gigantesca mancanza di visione.
Ma sottotraccia qualcosa si muove e testimonia l’esistenza di un enorme giacimento di attenzione, cura, competenze, serietà, tenacia, intelligenza, disponibilità, generosità ancora sottoutilizzato, di una domanda forte di partecipazione sociale inespressa che non si riconosce nelle forme tradizionali. Cominciano ad essere molti quelli che si ricordano di avere visto un orizzonte, l’avanguardia della società civile crea nuove comunità e organizza festival sul cambiamento e sull'innovazione, scova eccellenze, racconta storie esemplari, progetta il futuro: boccate d’aria fresca, non tutto è perduto, anche se molti restano ancora esclusi.
Con oltre il 40% di disoccupazione giovanile, con il più basso tasso di natalità mai registrato in Italia dai tempi della Grande Guerra, un Mezzogiorno appena certificato come "destinato al sottosviluppo strutturale", con un astensionismo elettorale impensabile solo dieci anni fa, ce lo possiamo ancora permettere? Secondo me, no.

sabato 25 luglio 2015

Beati coloro che ne capiscono sempre e comunque, perché di essi sarà il miglior posto nei talk show.

Il largo dibattito intorno al referendum in Grecia mi ha trovato silenzioso. 
Non stavo con il “sì”  e neppure con il “no”. Mi è parso ridicolo e furbesco lo stesso referendum che – come si è visto a posteriori – ha comunque portato a un drammatico e inevitabile accordo. La materia è estremamente complessa e io non ne so abbastanza. Se parliamo di servizi per l’impiego, di politiche dell’Unione Europea, animazione di comunità e territori, di cinema, cibo, figli, funghi e poche altre cose posso esprimermi per competenze e esperienze, e spesso lo faccio con foga, ma sulla Grecia, bho?
So che negli anni ho imparato a evitare i partner greci nei progetti in quanto totalmente inaffidabili nella forma e nella sostanza, ma questo vale anche per alcune regioni italiane. Non ho davvero idea di come possano fare a ripagare il debito (matematicamente impossibile in questo millennio) e mi pare legittima anche la posizione di chi ha dato alla Grecia più soldi che l’intero Piano Marshall e ora vuole garanzie. In generale credo che ci sia chi è pagato e ha pure la passione per immaginare soluzioni in materia, che ci mettano la testa, che lavorino sodo.

Un altro bel tema su cui me ne sto sempre zitto è la TAV. Leggo tutto, provo a capire. Non sono un geologo, né un esperto di trasporti. Mi piacciono le montagne e vorrei un’Europa connessa. Vedo alre decine di tunnel che si fanno allegramente e poi gli scontri in Val di Susa. Delego anche qui perché altrimenti sarei ridicolo. Direi solo sciocchezze degne di uno speciale di Studio Aperto.

Tacqui anche molto in relazione alla tragedia delle Torri Gemelle. Ricordo benissimo la mia prima timida impressione: “Gli americani se la sono cercata.” Dopo cinquant’anni di guerre fatte o fomentate qui e là, qualcuno li aveva presi in contropiede. Non capita di certo alla Svizzera o al Canada. Secondo la stessa legge del taglione che loro stessi hanno ingegnerizzato, quello che accadde era proporzionato a quello che loro facevano nel mondo. Ero schifato dal mio cinismo e volevo quasi che toccasse alla logica e non alla violenza rispondere. Poi c’era la posizione di chi riteneva la forza il vero strumento di pace, eccetera. Lì non mi sono mai avventurato nell’appello di chi fossero i buoni e i cattivi. (devo però aggiungere che l’accordo tra USA e Iran di questi giorni, se avrà futuro, è di gran lunga la cosa più interessante successa in geopolitica dalla caduta del muro di Berlino)  

In assoluto la prima volta in cui il mio ego, comunque tuttologo come quello di molti, si è arreso alla complessità è stato con la Guerra dei Balcani. Quella guerra la ricordo straziante per il coinvolgimento di popolazioni povere e innocenti e anche perché nonostante fosse a due passi da casa nostra non si capiva nulla, niente buoni e cattivi, solo un nodo intricato di interessi, sadismi, nazionalismi, mafie, poveracci, religioni. Tutto era così intricato che la mia speranza era solo che chi avesse più intelligenza e visione potesse definire obiettivi di pacificazione e raggiungerli.

Non mi sono mai espresso anche sui temi sportivi ma lì, lo ammetto, all'incompetenza aggiungo l'incapacità di capire la ragione stessa dello sport agonistico.

Questo era il coming out di inizio estate.


Lo so, non è nulla di che, a me però è serve scrivermi (che è la ragione principale per cui questo blog è attivo)

mercoledì 8 luglio 2015

Come trovare il lavoro anche se si ha la laurea.

Nei giorni scorsi il Governo ha fatto timido passo nel codificare come non tutte le università siano uguali. 
La proposta, in sintesi, era che nei concorsi pubblici si assegnino più punti a chi ha fatto una facoltà meno di manica larga con i voti. Immediata è stata la reazione dei rettori e, tra tarallucci e limoncello, l'ipotesi si è sciolta nella calura.
Sebbene ciò riguardi solo l’ammissione a un piccolo gruppo in via di estinzione (i dipendenti pubblici assunti per concorso), secondo me l’argomento è tutt’altro che di importanza residuale per un paese. Si incunea con forza nei tentativi di valutare e essere valutati, di rendere conto del proprio lavoro o ritenersi sopra le leggi della logica e del mercato, di rispondere a chi con le tasse ti paga lo stipendio.
La proposta del Governo forse era zoppicante ma chi si è già premurato di affossarla non ha certo intenzione di presentarne una migliore.
Sì, perchè come ogni famiglia e azienda sanno per esperienza diretta, l'Università italiana è più che adeguata al XXI secolo trasmesso su Rai 1.
Però ci sono molti posti al mondo (es. Inghilterra) dove non vige il valore legale del titolo di studio.
È dunque utile fermarsi e inquadrare la questione.
Parlando poi di mondo reale, anche in Italia l valore legale del titolo riguarda ben pochi e il settore privato ha da decenni introdotto forme di ranking spietato (e non scritto) verso le università.

Nel mio piccolo ricordo bene quando, dopo il terzo candidato con 110 e lode che non sapeva leggere un istogramma, diedi indicazione di cestinare preventivamente tutti i curriculum provenienti dalla Lumsa di Roma, pur sapendo che così mi sarei forse perso qualche perla rara. Ho però valutato che il tempo della mia organizzazione valesse di più. Ci sono poi facoltà risapute come  ‘facili’, atenei ‘chiusi alle novità’ che ripropongono da decenni le stesse visioni del mondo, i diplomifici on line e off line costruiti per accedere ai concorsi pubblici o poter scrivere “Dott.” sul biglietto da visita e acquisire punti agli occhi della mamma o di un cliente sprovveduto.
   
In generale da un laureato ci si aspetta che sia sveglio, capace di dare letture trasversali, abbia delle passioni, una vita e non abbia solo studiato. Di certo deve saper scrivere e far di conto.
Spesso non ci si aspetta molto in termini di competenze specifiche, non perché i giovani non studino ma perché le università hanno poca chiarezza sul cosa serva insegnare loro.
Meglio se qualcosa di concreto abbia comunque imparato a farlo, magari nel tempo libero.

Sempre più spesso mi accorgo che i selezionatori desiderano sentirsi dire dai candidati cosa potrebbero fare nell’azienda. Non perché siano pigri o distratti ma perché per loro la selezione del personale diventa  un canale per portare in azienda innovazione: nuove persone sono nuove e inaspettate competenze per nuovi prodotti, processi, mercati, soluzioni…

Per capire il concetto, consiglio di leggere i requisiti di questa selezione lanciata da Casa Netural a Matera, uno dei santuari dell’innovazione sociale in Italia: “Non ci interessa ricevere curricula, i candidati devono possedere pochi requisiti: curiosità, voglia di lavorare in team, passione per il proprio lavoro e una voglia irrefrenabile di sperimentare nuove soluzioni!
Senza dubbio sono più molto interessanti i candidati che abbiano fatto l’Erasmus e ragionato su tesi con impatti sul mondo reale. Se hanno già lavorato, meglio; se non sanno solo l’inglese, meglio; se non si spaventano davanti alle responsabilità, più che meglio.

Con buona pace della Conferenza dei Rettori, nel mondo reale il valore legale del titolo di studio è ormai nei fatti prossimo argomento per tesi di Storia del Diritto. 

martedì 30 giugno 2015

La tirannia del weekend sempre impegnato

Permettetemi uno sfogo: è un numero imprecisato di weekend che lavoro.
È vero, non sputare mai nel piatto in cui mangi e ringrazia, però non posso esimermi dal notare come da tempo molte delle cose più interessanti avvengano nel  fine settimana.

Possono essere festival, docenze a master, workshop sull’innovazione, sessioni di coprogettazione, o altre diavolerie interessantissime che ti spingono ogni volta pensare “Voglio esserci, per imparare, per scambiare, per partecipare, per dare maggiore spessore ai miei progetti, per ascoltare X che da tempo vorrei incontrare di persona”. 
A volte mi pagano per partecipare, per tenere una relazione o animare un incontro; a volte è pari e patta con una branda e una cena; altre volte pago e sono pure contento di farlo.
E i weekend passano così… come se fosse sano, normale, così da sempre. Non è vero, una volta c'erano le grigliate, l'abbronzante, la gitarella senza post-it né visual map. 
È un segno dei tempi? Devo forse imparare a staccare da tutto il martedì mattina per spiaggiarmi a Capocotta senza sensi di colpa? Le risposte arrivano lente, intanto io arranco per sfiancarmi nei brainstorm del weekend dopo una settimana già a testa bassa.

E poi le Summer School, dove le mettiamo? Una organizzazione che si rispetti deve sempre avere la sua Summer School per non sembrare un dopolavoro o un cenacolo di allegri burloni. Sono tante, attraenti e pure tutte interessanti. Però la School  sta alla violazione delle vacanze estive proprio come i finesettimana sempre pieni lo sono per il riposo.  

Allora ti assale il dubbio…
Che dietro il design thinking ci sia soprattutto voglia di contarsi, riconoscersi, misurare la quantità di speranza che possiamo permetterci di nutrire.
Che le alchimie della misteriosa blockchain non vadano davvero capite ma servano a dirsi: per guadagnarci la birretta al tramonto proviamo a sudare assieme riflettendo sul futuro. Che la Social Innovation sia un'assunzione di responsabilità a tempo pieno e - detto ciò - se ti perdi un TED per svaccarti in agriturismo ci guadagni sia in salute che in conoscenza. 
Che in fondo tutto questo incontrarsi e per affrontare i problemi sia uno speed date della conoscenza, una specie di piattaforma antiedonistica e laica che trasforma il capitale intellettuale in strumento di seduzione e sedizione.

Ora che l'ho scritta non è che la cosa mi spiaccia, mi sono un po' pacificato.
Però per chi ha famiglia e pupi, come il sottoscritto, rimane sempre acrobatico spiegare come l’ennesimo weekend a zonzo sia proprio necessario e importante (perché nessuno ti chiede mai di giustificare l'urgenza e l'importanza di cosa fai il martedì mattina.)

                                                ----------------   *   -----------------

Dedicato con affetto a tutti gli amichetti che si sbattono per organizzare tutto questo ben di dio. Incluso me stesso e coloro con cui sto progettando con entusiasmo 2 Summer School, domeniche di docenza già in agenda, attività di co-living e varie e eventuali che danno gusto e senso anche a quello che faccio in settimana.


sabato 20 giugno 2015

Family Day 2015: c'ero e ve lo racconto.

Torno ora da Piazza San Giovanni dove si è tenuta la manifestazione Family Day 2015, contro le unioni civili, le adozioni gay, e tutto quello non sancito nell’Antico Testamento.
Ho visto abbastanza concerti del Primo Maggio per stimare i partecipanti al massimo 100.000; la questura dice 400.000 e glielo ricorderemo alle prossime manifestazioni. Nello specifico: la piazza era piena, nessuno però nei vialoni adiacenti.

La prima cosa che colpiva erano i bambini: tantissimi, ovunque, sfatti, stravolti dai lunghi viaggi, dal rimbombo di parole incomprensibili, dall’assenza di spazi per il gioco, dal disinteresse e nervosismo da parte degli adulti tutti impegnati a seguire i relatori. Molti neonati e pupetti ancora in carrozzina. Perché erano lì? Per far numero? Per punizione? L’impressione era che fossero strumentalizzati come feticci da mostrare ai media, da difendere dal mostro del GENDER (ne parliamo dopo).

La seconda cosa che ho notato è stata la falange di Forza Nuova
con le sue magliette stirate, i manifesti ordinati su più file, il brivido di poter stare in Piazza San Giovanni così vicina a Piazza Venezia, che già si pregusta nell’eco di quei discorsi sulla famiglia ‘tradizionale’, sui valori del passato, sull’insegnamento dei nonni e genitori. Poco più in là c’era il neonato Fronte Nazionale,  lepeniano, con tricolori e facce ugualmente littorie.

La terza cosa era vedere come tutti tirassero per la giacchetta Papa Francesco, tutti a dire e urlare “Il Papa è con noi”, impegnati a cogliere in qualche oscura parola dei suoi discorsi una benedizione alla crociata contro il GENDER e a smentire le smentite del Vaticano in materia. Nessun citava il cristallino e famoso “Chi sono io per giudicare i gay”.
Era evidente l’imbarazzo davanti a un Papa che non se li fila proprio, che legge la complessità senza paura, .

E poi il clou: tante famiglie. Moltissimi giovani, anche nell’età della ragione. Parecchi preti e suore.  Tanti registravano coi i telefonini gli interventi. Una folla attenta e desiderosa di riconoscersi. Ben organizzata da parrocchie, circoli e associazioni. Nessuna curiosità o libertà, piuttosto un esercito silenzioso che si vive lo scontro come inevitabile, anche perché neppure conosce il nemico. Ne ho apprezzato la compostezza, pacatezza quasi. Mi hanno colpito davvero.
I manifesti erano concordati, tutti uguali, privi di fantasia nelle parole. Tutti a indicare il GENDER, questa fantomatica filosofia, come nemico canceroso per la società, che le darà morte se non fermato e estirpato quanti prima. Qua e là, gentili signore volantinavano preghiere contenenti maledizioni a Hollande e rimandi francescani, altre diffondevano un indirizzo mail a cui denunciare i progetti GENDER nella tua scuola.

Gli interventi erano tra il bizzarro e il fondamentalista. La maggioranza senza coerenza tra premesse, svolgimento e conclusioni. Spesso sigillati da opportuni passi delle scritture che da soli dovevano spiegare tautologicamente tutto.
Spiccavano l’intervento del padre della famiglia con 11 figli che accusava il sistema scolastico di non meglio precisati condizionamenti ideologici che io avrei definito “presentazione di punti di vista diversi da quello di tuo padre che ha schiavizzato l''utero di tua madre". Notevole l’intervento di repertorio standard dell’ex PD Adinolfi, professionista del poker, acidamente invidioso di Scalfarotto e sconclusionato opinionista del quotidiano La Croce, che ha raccontato di come Elton John ha affittato un utero e fatto soffrire le madri a cui così ha sottratto i figli. Poi è venuto un altro professore convinto che il matrimonio omosessuale avrebbe svuotato asili e parchi giochi. Tutti lì a pompare sui pedali per un posto in parlamento appena si rivoterà.

Il fondo lo ha toccato “Colui che tutti attendete!”, tale Kiko Arguello, spagnolo iniziatore del cammino neocatecumenale che ha catechizzato a lungo la piazza con brani dell’Apocalisse, musicati da lui stesso.
Ha esordito chiedendo “Cosa significa essere cristiani adulti?” Bella domanda. Ha risposto che vuol dire “Amare il prossimo anche se è un nemico”, bell’inizio di risposta. Ha poi aggiunto solo “La moglie è un nemico, il figlio è un nemico e bisogna amarli” e ha chiuso con una canzonetta che mettesse una pezza al vuoto sul perché solo gli etero abbiano diritto a una unione benedetta da Dio. Poi ha aggiunto che l’educazione al rispetto tra i generi non serve a diminuire i femminicidi; “Perché?”, si è chiesto il mio povero neurone. Kiko per spiegarlo in modo semplice ha citato salmi e antico testamento, tarallucci e vino, ha urlato che Cristo è morto per noi e che la Madonna è piena di Luce, e trallalero trallalà come spiegazione sui femminicidi.

Insomma, un sano fact checking proprio del XXI secolo avrebbe sbugiardato due terzi delle tesi presentate inclusa la credibilità dei relatori. Le cose più serie erano quelle fondate sull’Apocalisse, la Genesi, san Paolo che – si sa – sono fonti attendibili e riconosciute anche dal CERN.

E il GENDER? Bho? Volevo capire qualcosa in materia ma niente. Tutti a impregnarsi le fauci in un
diffuso “E' ‘na brutta cosa che rovina la famiglia”. Molti travolti da catene di messaggi su Whatsup che asseriscono come in Germania e Francia alle elementari venga insegnata la masturbazione e alle medie la copulazione in luogo pubbligo.

Quello che ho visto a San Giovanni, e mi preoccupa, è cristallina paura per i propri figli, preoccupazione per l'incapacità di capire il mondo e dunque educare alle sfide, tanto bisogno di risposte semplici e diffusa solitudine. Poi ho visto schiere i falchi in tonaca e in politica che di tutto questo si faranno un bel boccone.

Sono contento di esserci andato. Volevo uscire dalle battute su Facebook e dai talk show sul tema.
Si tratta di temi che mi riguardano personalmente perché oggi tocca ai gay, domani a chi legge Pasolini, dopodomani a chi pubblica Baumann o Harry Potter, e poi chi non vuole mettere la divisa, chi la domenica non va in chiesa, chi usa il preservativo, chi non saluta la bandiera, poi a me.

lunedì 11 maggio 2015

Dalla musica al tumore di Gianmaria Testa

Ho scoperto la magia di Gianmaria Testa da un trafiletto che segnalava come questo ferroviere italiano semisconosciuto avesse fatto 3 serate di tutto esaurito all’Olympia di Parigi. Sarà stato il 1996. Per fortuna dovevo andare a Parigi di lì a poco e mi accaparrai il suo primo disco Montgolfieres e anche un raro demo non destinato al commercio.
Fu amore a primo ascolto per quell’uomo schivo che echeggia da lontano le atmosfere di Conte e Fossati ma percorre un nitido percorso tutto suo.
Nel suo caso, più che di un percorso si può parlare di viaggio. Già, Testa è il cantore del Viaggio in tutte le sue varianti, mezzi, direzioni. Treni, auto e aeroplani muovono i sentimenti dei suoi personaggi, sostenuti da un intreccio jazz che con gli anni si è dilatato verso contaminazioni sognanti.

L’anno dopo la felice scoperta parigina, leggo che è previsto il suo primo concerto importante in Italia proprio al Teatro Carlo Felice di Genova, dove vivevo. Compro una spettacolare prima fila e attendo. Presentandomi la sera fissata vengo dirottato nella sala prove del teatro perché i biglietti venduti sono talmente pochi che nella sala principale da 2000 posti saremmo state una quarantina di tristi mosche sparse sui velluti. Quaranta mosche presto trasformate nei vagoni del treno tirato dalla musica via da lì  

Escono altri bei dischi, tra cui Lampo.
All'epoca, sul web i suoi accordi non si trovano ancora e, col mio stile stentato, tiro già direttamente dall’ascolto quei 4 giri di chitarra che mi consentono di cantare e strimpellare Un Aeroplano a Vela.

Nel 2000 sono al Teatro Valle di Roma, parte di un tutto esaurito che lo conferma un grande anche in Italia. Stupefatto, dal palco ci confidò: “Dal mio piccolo paese del Piemonte, Madonna del Pilone, si veniva a Roma solo in viaggio di nozze o a vedere il Papa. Io suono per voi, non ci avrei mai creduto se me lo avessero detto pochi anni fa”.
Un altro concerto unico ed esclusivo fu quello per poco più di 100 persone, sul tetto del Palazzo delle Esposizioni, in una afosa estate romana, dove si presentò solo con la sua chitarra, un bandoleon e un contrabasso e provò musiche diverse che legavano mediterraneo e pampas.
In quel periodo comincio a ninnare i miei figli con la soave Biancaluna che arrivai a cantare a Ada per tranquillizzarla in una sala di Pronto Soccorso, facendo anche tacere i medici che la stavano curando, tutti presi ad ascoltare.

E poi, viene l’incredibile performance sperimentale all’Auditorium pochi  anni fa, come colonna sonora vivente a Giuseppe Battiston e al suo potente spettacolo teatrale “18.000 giorni – Il Pitone” sullo spettro della disoccupazione a 50 anni.

Oggi, sul giornale, leggo la sua lunga intervista a Michele Serra, della lotta contro un tumore inoperabile, della potenza della musica, di come a 57 anni fino a poco tempo fa ci si potesse dire già vecchi, di come si alzi a suonare e cantare la notte, di come non sia la paura a segnare i suoi giorni ma la sua voglia di lottare e battere la malattia.

Leggo e, senza altre parole, con totale inutilità, lo ringrazio e mi metto già in fila per il suo prossimo concerto. 

giovedì 23 aprile 2015

Idee innovative, azioni, approcci differenti per favorire l’occupazione dei giovani.

Percepisco molte novità nell’aria.
Qua e là c’è aria di ripresa. Non riguarda tutto e tutti, la senti in nicchie di mercato che guardano all’innovazione, all’internazionalizzazione, che riescono selezionare e motivare talenti in gradi idi fare la differenza per capacità, apertura alla contaminazione, padronanza del loro tempo.
C’è nell’aria poi una deriva anarchica legata alla perdita di rappresentatività e di senso in molto sistema pubblico che per missione, progetti e azioni pare indietro di vent’anni e impaurito dalla sua stessa ombra.
C’è anche aria di nuovo. Ne vedo molto in materia di mercato del lavoro e di sevizi per l’occupazione. Le persone, i cervelli migliori, si incontrano e immaginano in base alle necessità dei giovani e delle aziende.
  • Alla base di questi ragionamenti vedo ad esempio con grande favore la mobilitazione creativa per l’occupazione giovanile  PreOCCUPIAMOCI di RENA, McKinsey e TraiLab per mappare iniziative, progetti e azioni in atto per rispondere in modo efficace e innovativo alla richiesta di occupazione da parte dei giovani (indagine aperta ancora fino a fine Aprile). In tanti si occupano di incrocio tra domanda e offerta e molti con metodo e efficacia. Conoscerli serve a tutti, magari con l’idea di imparare e rendere sistemici gli interventi. Indagini del genere oscurano nella loro inutilità centinaia di volumi prodotti da ISFOL o Osservatori vari centrati spesso sui servizi, sui processi burocratici e per niente su necessità e impatti reali. E vista la lunga lista degli Enti partner di questa indagine credo di non essere il solo a pensarla così.
  • Vedo di nuovo con grande favore da punto di vista dell’utenza la nascita di piattaforme tematiche per l’incrocio domanda-offerta di lavoro come quella davvero ben fatta appena lanciata da Art Tribune relativa ai profili dell’arte, creatività, design e dintorni.
  • Sono incuriosito oltre misura da un progetto ambizioso come quello di Whatchado che tra poche settimane esce in Italia dopo l’enorme successo avuto nei paesi di lingua tedesca con la logica di raccontare alle persone migliaia di professioni ‘mettendoci la faccia’ e aiutando i giovani a capire la complessità del sistema fuori dalle poche professioni telegeniche. Tra le migliaia di professioni raccontate ci sono anche quelle di cui le aziende hanno bisogno ora, rendendo così più logico e naturale l’incrocio. Lì ad esempio ho appreso che le banche e le assicurazioni non ricevono i cv degli esperti in comunicazione digitale – che desiderano per ammodernarsi - perché viste come posti di lavoro ‘vecchi e noiosi’. Gli infaticabili raccoglitori di storie professionali di Whatchado sono arrivati anche a un profilo indefinito come il mio e lo hanno messo nella loro banca dati.
  • Infine vi lascio con questo splendido video francese in cui si mostra ancora un altro modo bizzarro e efficace di favorire l’incrocio tra domanda e offerta


Insomma, molto di nuovo e di interessante si muove sotto il sole.