La querelle tra
Torino e Milano sullo ‘scippo’ del Salone del Libro da parte di quest’ultima non
può lasciare insensibili anche se sembra riguardare città che non sono la tua e
mestieri che non pratichi.
Si parla di libri, di cultura e dunque anche di democrazia, futuro e
economia. Credo meriti qualche riflessione in più degli scazzi e le tecnicalità
tra addetti ai lavori nelle pagine interne di qualche quotidiano.
Frequento il tema da tempo: come autore che negli ultimi 12
anni ha pubblicato con 6 diversi editori, metà dei quali falliti come il
mercato ha imposto; come lettore interessato a che la qualità delle opere scelte
per gli scaffali venga premiata da persone attente, competenti e pagate il
giusto per il loro lavoro; come frequentatore dei saloni stessi, luoghi
interessanti dove la fisicità del libro e degli autori fa da padrona.
Prima di tutto occorre segnalare come la duplicazione del
salone a Milano si inserisce in un quadro nazionale che include almeno anche l’ottima Children’s Book Fair
di Bologna, unico salone italiano davvero internazionale, il piccolo ma ruspante
e vitale PiùLibriPiùLiberi di Roma
dedicato alla piccola e media editoria, e magnifici Festival della Letteratura come
quello di Mantova.
Era tuttavia evidente come il Salone di Torino andasse del
tutto ripensato, in
questo post ne ho raccontato debolezze e limiti dell’edizione 2016. Nei
fatti era riempito quasi solo da scolaresche, traccheggiava tra antichi fasti e
fughe modaiole verso improbabili start up e libri di cucina. Se questo l’ho
colto io posso immaginare come ai geni del marketing milanese fosse evidente da
tempo.
Di cosa parliamo?
Per inquadrare i fatti non si può evitare di ricordare come
il Italia solo il 48% degli abitanti
legga almeno 1 libro all’anno e solo il 7% ne legga almeno 1 al mese. Costo
dei libri, tempo a disposizione, allergia ai congiuntivi sono tutte scuse
facilmente smontabili.
Credo che una riflessione vera nel merito non sia stata
fatta, si parla di ‘educazione alla lettura’ come se fosse una scienza esatta.
La verità, più agghiacciante, va più nella direzione di un largo deficit di
attenzione da parte di molti, dell’analfabetismo
funzionale (stimato tra il 30 e il 40% della popolazione) che impedisce di
capire un libro, della paura di confrontare o confutare le proprie idee,
nell’evitare la fatica. Allora ecco che quel
48% si avvicina pericolosamente a tutti quelli in grado di leggere un libro.
L’ebook non ha spostato nulla. È risultato un fenomeno
residuale, usato davvero solo da lettori ‘forti’. Oltre il 50% degli e-reader a un anno dalla loro vendita ha
ancora solo i 5 libri preinstallati di quando è stato regalato a ennesima conferma
di quanto scrive Pennac in “Come un romanzo”: il verbo Leggere non si può coniugare all’imperativo.
Molti editori dicono chiaramente “Non mi conviene pubblicare
ebook” e si vede come tutte le start up che puntano sull’editoria digitale abbiano
in business plan i soldi degli autori e non quelli di ipotetici lettori a cui
il libro digitale non interessa.
Questo elemento mi pare interessante: ci sono tante persone che scrivono e desiderano pubblicare perché oggi
la tecnologia consente di passare in un amen dal manoscritto al libro, anche
cartaceo se lo vuoi. Il fenomeno è lo stesso che ha trasformato molti in ‘fotografi’
grazie alla fotografia digitale, folle in ‘video maker’ grazie a telecamere,
Youtube e Windows Live Video Maker. Però, come per le foto e i video, l’autopubblicazione
sommerge di quantità e spesso squalifica (o rende invisibile) chi nel magma qualcosa
di interessante prova a indirizzare ai lettori.
Forse occorrerebbe ripartire anche dalla campagna #ioleggoperchè
uscire dal circolo di quelli che leggono
già per arrivare magari a situazioni in cui ogni ‘lettore’ adotta un ‘non
lettore’ portandolo dentro i suoi mondi, anche quelli fisici come le librerie,
le biblioteche, le presentazioni. Ovviamente vale anche il viceversa con la
possibilità che il non lettore convinca il lettore a fare altro. Credo che
entrambe le parti ne avrebbero giovamento e qualcosa di comunque nuovo si
muoverebbe.
Perché se il libro come oggetto è intramontabile, cambia il rapporto che
si ha con lui.
Ad esempio, nel mio piccolo ho notato come negli ultimi anni sia molto diversa
la modalità di confronto e incontro con i libri. Da un po’ faccio un numero
sorprendente di presentazioni in case private, in ristoranti, in associazioni, gruppi di lettura, presso studi di psicologi, asili nido, piazzette dei centri storici. Poche le
librerie dove pare sia difficilel 'socializzare' e che per prime puntano a organizzare gli eventi fuori dalle loro mura,
il orari e contesti a loro nuovi.
Ma di questo vi racconto meglio la prossima volta.
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