Poi nuovi percorsi, forse logici ma anche inaspettati, da
quasi un anno mi hanno portato ad un
impegno professionale nel campo della lotta alla povertà.
Ne parlo poco, pochissimo. È la prima volta che lo faccio
sul web e sui social media. Il Natale e
la voglia di condividere le opinioni con chi mi segue su questo blog, mi spinge
a fare qualche considerazione.
Dopo un anno di lavoro, nella testa si mischiano visi, statistiche impietose,
storie di vita, la disperazione delle famiglie, i raggi di speranza per alcuni,
e lo scoramento di operatori bravissimi chiamati sempre a svuotare l’oceano con
un cucchiaio.
Se contabilizzo con la mente i miliardi spesi per lo scopo e
provo a coglierne gli impatti scarto la retorica, scelgo la pragmaticità. Perchè se ne parla e scrive troppo poco.
Il 2019 è stato l’anno del Reddito di Cittadinanza, l’affermazione di un nuovo diritto e del concetto che in una comunità la fratellanza è pilastro di democrazia
e include il sostegno nelle situazioni più disperate. La svolta legislativa
è stata epocale.
Sì, il sistema era
impreparato a uno strumento così ampio e complesso: servizi non all’altezza,
software inesistenti, procedure da progettare, leggi e decreti da scrivere, scollamento
tra le amministrazioni, operatori travolti dall’incertezza e dall’utenza. Una
politica più saggia avrebbe dovuto immaginare 12-18 mesi per organizzarsi. La situazione è in evoluzione, tanto è stato costruito e tanto si sta facendo. Occorre guardare al futuro e
apprezzare una base giuridica che non c’era e le opportunità che stanno
sviluppandosi. Eccoci allora qua, impegnati a trasformare un magma di casi ed
eccezioni in un sistema di supporto ai cittadini, dando del nostro meglio. Tra un
anno, ci rivedremo qui per i primi veri bilanci.
Alcune cose le ho imparate velocemente.
Lavorando sulla povertà e sull’esclusione sociale ho
compreso come la povertà
educativa sia la radice da estirpare.
Ragazzi e ragazze che non studiano non hanno chance contro l’esclusione. Quando
incontro ventenni inchiodati al dialetto e a solo duemila parole in italiano vedo
i loro percorsi in caduta libera. Comprendi subito come la licenza superiore sia
il minimo per galleggiare, e a essa andrebbe accompagnata da forme di
educazione non formale che passino attraverso lo sport, i gruppi giovanili, la
possibilità di viaggiare e magari padroneggiare un’altra lingua. Miliardi di euro e nuovi approcci vanno calati sul sistema
scolastico e sui servizi di supporto alle famiglie.
La seconda componente maligna della povertà è la solitudine.
La povertà relazionale è
estremizzata nei cittadini senza dimora ma è trasversale a tante categorie,
accentuata dopo i 50 anni. È la dimensione in cui ci si arrende, non si ha nessuno
per cui impegnarsi, con cui condividere sforzi, sconfitte e successi, e allora,
tanto vale, lasciarsi andare. Lo so, non
puoi obbligare a nessuno di socializzare, a curarsi, però puoi agevolarlo. Possono
farlo architetti e urbanisti a cui si dia tale mandato nei loro progetti per
città, quartieri e aree interne, possono aiutare animatori e artisti sociali.
Anche la banda larga e l’educazione digitale sono utili allo scopo.
Il fantasma che ogni tanto intravedo è quello della povertà provocata e dunque evitabile.
La percepisci nelle regioni in mano alla criminalità, dove il povero è utile, è
manovalanza, è docile, è la piattaforma su cui accumulare ricchezza. Dove le componenti
di ignoranza, lavoro nero e solitudine sono al servizio di un disegno più
grande che giustifica a ricchezza di pochi sulle spalle dei molti.
In quest’anno ho imparato che la povertà è un fattore complesso
(‘multidimensionale’ dicono i tecnici) e la lotta al fenomeno soffre di semplificazione.
È pilatesco affermare ‘basta dare un lavoro’, così come è una semplificazione l’idea
che esistano soluzioni valide per tutti. I percorsi hanno senso quando sono
individuali, sono lunghi, passano per il recupero della legalità, della speranza,
dei fondamentali del vivere civile.
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