Nell’ultimo
anno ho fatto almeno 80 giornate di formazione (sono un’enormità e prometto a
me stesso che non lo farò mai più). La bellezza della formazione è che consente
di entrare in relazione con le persone in un momento cruciale della vita:
quello dello sviluppo professionale.
Sono tutti corsi per
adulti. Possono essere partecipanti a master, occupati e disoccupati di ogni
età in corsi finanziati dalla UE, manager privati, direttori di musei o
biblioteche.
Quello che
accomuna gran parte di loro è il disorientamento.
Come se la velocità a cui si muove il contesto paralizzi la capacità di
muoversi senza punti di riferimento; l’assenza di certezze impedisca di
tracciare rotte; l’ansia che vedono negli occhi dei genitori o dei partner
diventi il fantasma che li impantana se stanno per accelerare.
Incontro
spesso talenti formidabili che non hanno mai potuto verificare nel concreto
l’utilità di ciò che saprebbero fare. Da parte dei più giovani osservo una
profonda critica ai programmi universitari ritenuti obsoleti se non proprio
campati in aria.
Io non sono
un accademico. Adoro l’aula ma ho bisogno di ‘fare cose’, impastarmi col reale, confrontarle con
l’ottimo e i mediocre, elaborarne l’efficacia. Poi, se ho imparato qualcosa,
trasformo tutto ciò in un’attività d’aula. Mi appassiona e diverte anche e spero che ciò mi renda un apprezzabile formatore.
Ogni tanto
ecco quello/quella (più spesso è donna) che si incaponisce su un’idea e vuole
fortemente realizzarla. Spunta il ‘progettino’ che sgomita per prendere forma e
perdere il diminutivo. Quando ci riesce, lo sguardo di chi immagina il futuro è diverso: chiede e
libera energie. Ci sono casi in cui questo miracolo avviene addirittura durante
il corso e allora nasce una contaminazione positiva con gli altri partecipanti,
i talentuosi e indecisi che scoprono come si possa osare. Il progetto allora
diventa più di uno, alcuni si fondono, si scontrano, si arricchiscono a vicenda.
Tutti imparano e si trasformano.
Sullo sfondo, gli
enti di formazione: tolte brllanti eccezioni, soffrono la pesantezza burocratica, la
difficoltà a interpretare il contesto, faticano a dare senso ai loro
corsi, anche perchè quasi mai conoscono davvero i corsisti, raramente interagiscono con i
docenti, tantomeno li coordinano. Fanno un lavoro per cui occorre una
vocazione ma raramente riescono a vedersi come tali. Anche se formare gli enti formatori è un po' come spingere gli spingitori di guzzantiana memoria, dovrebbe essere fatto.
So che molti
dei partecipanti alle mie aule leggeranno questo post e non mi spiacerebbe
confrontarmi ancora con loro su questi temi.
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