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giovedì 15 luglio 2021

Ne è INVALSa la pena?

I risultati dei test INVALSI 2021 appena pubblicati mostrano come quasi la metà dei maturati di quest’anno non abbia sufficienti competenze in lingua italiana, simili drammatici risultati anche nelle materie scientifiche, con situazioni tragiche nel sud Italia.

Siccome ogni anno scrivo almeno un post antipatico, stavolta la voglia mi arriva da questa notizia che completa il dato, sempre sottotraccia, che a leggere almeno 1 libro all’anno è solo il 42% degli italiani.


Il tema mi appassiona per una serie di ragioni che vanno dal mio interessamento per le dinamiche del mercato del lavoro, l’essere docente a molti corsi per adulti, essere genitore, essere preoccupato per la tenuta democratica del Paese, al voler raccogliere per mesi i segnali che arrivano dalle mie reti.

Ammetto di avere un rapporto difficile con i docenti sul tema dell’INVALSI. Gli insegnanti dei miei figli hanno spesso ‘obiettato’ ai test non facendoglieli proprio fare (come se si trattasse di una scelta di coscienza come l’aborto), coperti in questo da presidi che certo non li hanno bacchettati. Negli anni, ho raccolto ogni tipo di obiezione al valutare la formazione, come se si trattasse di un’attività esoterica incomprensibile a chi non entra in classe. Da incontri con sindacalisti della scuola ho poi capito che l’obiezione non è all’INVALSI ma all’idea stessa che la valutazione sia lecita e possibile.

Sarà che come docente ad adulti sono costantemente valutato sia in maniera formale che informale, ma ho sempre trovato puerili queste argomentazioni, veri alibi che indeboliscono molto la credibilità dell’intera categoria. Viaggiando in Europa come esperto Cedefop ho visto come in altri Paesi siano normali: la valutazione esterna, quella tra pari e quella fatta dall’ispettore che entra in classe a sorpresa una volta l’anno, si siede in ultima fila e per un’ora valuta COME insegni. Perché la valutazione non ha nulla a che vedere con la libertà di insegnamento, non si tratta di COSA insegnino i docenti ma interviene nel COME questo avviene. (Per il PERCHE’ lascio la valutazione alla coscienza di chi sale in cattedra)

Come risposta a questa tragedia, la ministra annuncia che assumerà 140.000 insegnanti in 2 anni, senza il dubbio che – visto l’impressionante numero di bocciati agli esami di abilitazione - forse neppure ci siano oggi così tanti docenti non ancora di ruolo in grado di fare bene quel lavoro. Non accenna purtroppo a come diminuire gli alunni per classe, neppure a come formare gli insegnanti che già ci sono, magari con schemi di formazione tra ‘pari’. Non parliamo della formazione dei dirigenti, nati spesso formati per investitura divina. 

Se poi vogliamo volare più alti ecco come la divisione Licei/ Istituti tecnici/ Professionali sia sempre meno adatta al reale, come oggi le competenze digitali siano abilitanti al pari della matematica, italiano e inglese e i ragazzi sono lontanissimi dal possederle.  (certo, ci stupiscono per come sanno usare le app, ma è lo stesso tipo di competenze che stupiva i nostri genitori quando sapevamo usare il videoregistratore: cioè competenze operative che rispondono a mere necessità). Rari sono i presidi preparati per il ruolo, nulli sono gli incentivi ai docenti migliori. Nel dibattito ci si perde nella visione profetica degli ITS, che sono pochi, poco conosciuti, poco finanziati, vere chimere, e non si parla mai (ad es.) del vero buco nero rappresentato dalle scuole medie, dai loro programmi, dalle classi-pollaio, dall’inadatta didattica frontale a oltranza su quell’età.

Non si evidenzia da nessuna parte delle grandi, sterminate, responsabilità che ha l’Università in merito a questa vera tragedia sociale. Il dramma è che l’Accademia non ha niente da dire: è afona, senza temi, lontana dalla società e dall’economia, incapace anche solo di pensare di quali insegnanti e insegnamenti ci sia bisogno. Ci sono, certo, alcune eccezioni ma ininfluenti per ruolo e capacità politiche. Se ne è accorto il mercato della consulenza (‘se vuoi perdere tempo chiama un professore universitario…’) e quello dei convegni dove sono sempre meno i prof invitati a parlare (specie ora con i webinar dove le persone ci mettono un attimo a ‘cambiare canale’ se il relatore pesta acqua nel mortaio). Il paradosso è che il mondo ha enorme necessità di bravi docenti in grado di abilitare al XXI secolo, con programmi interdisciplinari sempre più diffusi, avvalendosi con intelligenza delle tecnologie digitali disponibili, in contesti che premino le competenze e i risultati (dei ragazzi, dei docenti, dei dirigenti).

Nuove richieste di competenze si rivolgono soprattutto alle facoltà umanistiche, artistiche, sociali, che oggi creano migliaia di figure irrisolte che non riescono a concretizzare i loro talenti e passioni a meno che non si lancino in master costosissimi e classisti o percorsi di apprendistato che li portano al prima stipendio non prima dei 30 anni. Con la mortificazione, il calo di motivazione, lo spreco di cellule neuronali diffuso tra chi non può permetterseli o non vuole lasciare il Paese.

Lo so, vi ho portato a spasso in un post che pone molti problemi e propone quasi zero. Mi scuso. Perché da soli, senza la politica attenta al tema, con resistenze pazzesche dello status quo, senza coraggio amministrativo e organizzativo, non ce la si può fare.

Se volete aggiungere riflessioni, scrivete qui sul blog, su FB o su Linkedin dove posterò il testo.


lunedì 10 agosto 2020

Potevo essere un guru

Sono tempi difficili dove non mancano le domande importanti: che lavoro faremo tra sei mesi? Come riusciremo a studiare? Come si comporteranno i miei clienti? Come superare la  paura? Come posso ottenere il successo che merito se devo rimanere chiuso nella mia cameretta inflebato in una fibra ottica? Quali sono le chiavi di accesso ai pensieri di mio figlio teenager? Come faccio a pubblicare il mio nuovo successo? Cosa manca al mio CV? E così via…

Quando il mercato è saturo di domande quello che non manca mai sono i risponditori. Non tutti sono allo stesso livello. Tra loro, per selezione naturale emergono i nuovi guru.

Operano via Zoom, via ebook, su Youtube. Alcuni esistono da tempo, facevano conferenze costosissime a manager e disorientati vari, altri sfornavano libri sulle aquile che non vogliono essere polli, sul pensiero divergente, sulla seduzione comportamentale, sulla pranoterapesi neurostilistica applicata al team building, sull’intelligenza emotiva della danza sufi. Tra di loro monta una coorte sempre più affollata di personaggi sorridenti che si assegnano etichette di motivatori, mentori, coach, spinn doctor, evangelisti digitali, montemagni, ispiratori, tutti con le risposte giuste.

Meno male che esistono. Alcuni di questi guru sono bravissimi, li ammiro e li osservo in azione per ore come faccio con gli stand up comedians, i predicatori e i fenicotteri rosa. Danno risposte chiare e confortanti. Puoi quasi sceglierle da un catalogo: eccoti serviti “5 modi per chiedere un aumento”,  “4 cose da fare per affrontare il lunedì”, “Fare un superbusiness plan in 10 passi”, “I 3 segreti del funnel marketing che ti cambieranno la vita”, “Lo Yoga della risata per dare il meglio di te”, “Il vero te che è in te anche se”, “Vendere è come respirare”. Sono ansiolitici per vocazione e già per questo fanno un grande servizio all’umanità.

Eccoli in azione: prendono la scena con un bel “Sarà capitato anche a voi…”, ci ficcano un aneddoto che riguarda la loro vita passata “…anche io quando ero ancora un pirla…” che li avvicina a tutti  noi, poi ecco “però quella volta è stato diverso perché …” e arriva la folgorazione di come hanno superato l’ostacolo, “e dunque…” sono lì per rendervi edotti dell’illuminazione toccata proprio a loro e che cambierà la vostra vita perché ha cambiato anche la loro. “Perché voi valete”. Grazie. Applausi.

Non si può fare troppa ironia sui guru. Loro hanno il senso dell’umorismo, meno però i loro seguaci. Senti subito il gelo, come capita a volte quando tocchi in pubblico stravaganze come la religione o gli oroscopi. Quando ci ho provato in aula ho capito che metà dei presenti aveva sborsato il prezzo di un volo aereo per Parigi solo per ascoltarli in una grande sala sulla Via Nomentana e senza buffet all’uscita.

Questi guru moderni sanno dare le risposte giuste per lunghezza e complessità, genericamente vere e comode, motivanti e poco responsabilizzanti, che suonano come perle di saggezza e pregne di vision, ponendoti nel giusto e non lontano dalla meta.

Sono dei fuoriclasse nell’elencare Cosa fare e Come farlo, e svicolare dai Perché.

(Quasi ogni anno mi capita di scrivere un pezzo 'intimo' in agosto. Una valvola di sfogo. Lo vorrei evitare ma ecco che arriva da qui in poi.)

Confesso che il perché è l’unica cosa che mi interessa davvero in quello che faccio (e in quello che fanno o non fanno gli altri). E mi stupisco ancora l’interesse di pochi sui perché.  I Perché sono scomodi e spesso non pagano. Però avere chiarezza sui Perché azzera i rimpianti; non averne, genera i rimorsi.

Potevo essere un guro. Io lo so. Ho una buona favella, una vasta cultura generale, se lo desidero so pure ascoltare, riesco a produrre una visione laterale di qualsiasi cosa, so stupire con poco, avrei anche i giusti tempi scenici. Però.

Però mi annoierei a morte a dare risposte di buon senso. Preferisco stare dalla parte delle domande. Rinuncio ai consigli per vite che non comprenderei mai a fondo perché non ho i loro occhi e quello che coglierei non è dunque reale.

Saprei dire a 1000 persone cosa dovrebbero fare per avere successo e per 800 almeno suonerà sensato e applicabile, però mi vergognerei per aver servito una pietanza da fast food; se tentassi di sciogliere per loro il nodo del perché debbano aver successo servirebbero ore per ciascuno, prenderei molti vaffa’ e mi mancherebbe almeno una laurea in Psicologia.

Lo ammetto, quando insegno per alleggerire la pressione e prendere fiato a volte ci infilo anche io i “7 passi per…” e mentre li elenco mi annoio come se contassi le formiche in fila sul muro. Però quello su cui mi incaponisco è dare spazio a “Perché qualcuno dovrebbe sceglierti? Farti lavorare? Passare del tempo con te? Acquistare un tuo servizio?” Domande che pongo anche a me stesso, diverse volte la settimana, e le cui risposte, sempre approssimative, si formano costruendo la strada da percorrere.

La guraggine funziona se riesci a spacciare per vero belle parole come “Tutti ce la possono fare”, “Se ti impegni, i risultati verranno”, “E’ ovvio che ti meriti l’aumento!”, “Gli ostacoli sono grandi opportunità” e altre sciocchezze simili che agli occhi di una persona razionale cessano di essere vere già durante le scuole elementari. Però è bello ascoltarle da anche adulti, circondati da altri adulti e poter così credere ancora alle favole. Per il guru è facile dirle specchiandosi nelle aspettative di chi ha davanti, serve solo un po’ di esercizio, preparazione, un grande ego e la capacità di non dire nulla di indigesto.

Io li riconosco subito quelli che non si meritano nessun aumento, che stanno per andare a sbattere perché neppure vedono gli ostacoli, o quelli che della vita vorrebbero solo la panna e che tu manovrassi pure il loro cucchiaino, quelli che sono finiti sul binario sbagliato, quelli che non hanno avuto fortuna, e non ho né la forza né la capacità per influire davvero nelle loro vite, soprattutto se non si chiedono perché questo dovrebbero farlo accadere.

Io li vedo come li vede qualsiasi guru. A dare però rispostine ansiolitiche non ci sto. A dirgli che va tutto bene lascio che siano i film americani e gli hashtag pandemici.

 

venerdì 8 maggio 2020

Le ragioni (degli altri) per tornare presto in Italia


 Il giornalista Tim Jepson su The Telegraph ci ha dedicato pochi giorni fa un lungo articolo su: “20 Ragioni per tornare in Italia quando sarà finalmente finita”.
L’articolo è molto ricco di spunti, con sprazzi di humor, e interessantissima è la classifica del giornalista che – a mio avviso – stravolge molti dei luoghi comuni sull’idea che abbiamo di noi stessi e su quella che hanno gli altri, gli inglesi nel caso, ma si potrebbe estendere per cuginanza anche a americani e scandinavi).

Alcune testate italiane lo hanno ripreso e, per classica pigrizia, si sono fermate alle prime posizioni. Senza commento. Io penso che le ultime siano anche più importanti.
Va preso come il punto di vista di un attento osservatore che ha vissuto a lungo in Italia. Un utile confronto, anche sfacciato, per chi si occupa di sviluppo e cerca di capire in quale direzione andare.

Mi permetto dunque di ribaltare l’articolo partendo dal 20-esimo posto in classifica. 
Dopo ogni ragione, riporto tradotte alcune parole di accompagnamento dall’articolo originale. Segue poi un mio breve commento in corsivo:

20. Toscana
Tutto ciò che serve a fare una bella vita è qui: città eleganti  e città piene di arte e cultura - Firenze, Siena e Lucca e gemme più piccole come Pienza, Sovana e Cortona; cibo delizioso; ottimo vino; e panorami incantevoli.
Sì, la Toscana rimane un cliché che ricorda il fiasco di vimini i filari di cipressi, la bellezza e l’eleganza. L'inglese Chiantishire. È l’unica regione italiana con un vero Brand internazionale costruito in un altro secolo su bisogni però evidentemente ancora attuali come l'eleganza, il silenzio, il panorama. Altre ci provano molto  distanziate, gettando soldi, perché si muovono con strategie  alla rinfusa con progetti deboli e campanilistici.

19. Le antichità
Altri paesi possono rivendicare rovine romane - un anfiteatro qui, le mura di Adriano lì - e la Grecia non ha carenza di monumenti per il suo antico passato. Ma l'Italia ha le rovine greche - in particolare i templi e i teatri siciliani di 2000 anni fa – e i resti di 1.000 anni di storia romana.
Niente da dire, tranne che il mondo antico finito è al 19-esimo posto… forse non siamo tanto bravi a renderle più interessanti?

18. Arte diffusa
In Italia, più di qualsiasi altro paese europeo, l'arte straordinaria si trova ancora nei suoi luoghi originali. La Cappella Sistina e l'Ultima Cena di Leonardo sono gli esempi più famosi, ma che dire della Basilica di San Francesco ad Assisi, dove Giotto, Cimabue e Simone Martini hanno cambiato la direzione dell'arte occidentale?
Niente da dire anche qui, le città d’arte sono al 18-esimo posto tra le ragioni… Non diciamo sempre che gli stranieri amano le città d’arte? O forse lì ci vanno perché nelle città d’arte c’è altro di interessante, come spazi alla qualità della vita, al sogno? Si parla di Turismo Culturale a scatola chiusa, cosa c'è dentro? Forse poca cultura classicamente intesa e tanta voglia di essere protagonisti della propria fiaba a cui trovare scenografie ideali e iconiche. 

17. Molti Musei
L'Italia ha molte gallerie d'arte di livello mondiale - Uffizi a Firenze, Accademia a Venezia, Brera a Milano e collezioni Vaticane a Roma. In città apparentemente modeste ci sono opere che sarebbero delle stelle altrove. La Galleria Nazionale di Perugia, ad esempio, è ricca di opere umbre; o Carrara a Bergamo; Palazzo Ducale di Urbino; Galleria Regionale di Palermo, Pinacoteca di Siena; Museo Civico di Vicenza e altro.
Finiti sono al 17-esimo posto… questo ultimi tre suonano come campanelli d’allarme nella mia testa. Arte, musei, belli sì, ma sullo sfondo delle vere ragioni per venire in Italia. Perché il signore inglese è ignorante? O disattento? O perché è solo umano e contemporaneo e non si vergogna a scrivere quello che gli italiani si vergognano a dire? Negli ultimi due anni, a Roma, ho sempre camminato in musei vuoti ad ogni giorno (tolti Colosseo e Vaticani dove ti tocca andare per timbrare il cartellino di turista)

16. Gemme costiere
L'Italia non è ovunque superlativa. Le spiagge, ad esempio - tranne in Sardegna - non sono tra le migliori. Ma c'è una bellissima costa. Amalfi e le Cinque Terre sono le più conosciute ma ci sono alternative più tranquille ma quasi altrettanto belle, specialmente al sud. In Puglia, fai del Gargano e del Salento, e in Campania, nel Cilento, sacchi selvaggi e rocciosi disseminati di splendidi villaggi.
Un’altra discreta freccia all’italico orgoglio. Mentre tra di noi ci beiamo piantando ovunque tronfie bandiere blu come a Risiko non capiamo che la competizione è internazionale, le nostre offerte sono spesso mediocri per pulizia, acqua, servizi. Surclassate da Grecia, Turchia e Croazia – solo per star vicini. Portogallo, Tunisia, per dire altri. Che le Canarie straccino la Sicilia non è un gran onore.    

15. Le isole minori
La terraferma italiana è un mosaico di paesaggi che rende facile trascurare le isole. Non ovvie come Capri, più come le Isole Tremiti della Puglia, poco note. E Ponza, o Capraia ed Elba; e le isole Eolie ed Egadi - Lipari e Marettimo in particolare - al largo della costa siciliana.
Un patrimonio da valorizzare, misconosciuto anche agli italiani, che gli stranieri apprezzano. Più dei Musei e l'arte, per dire…

14. Venezia
Il mondo sarebbe un posto molto più povero senza Roma o Firenze, ma un mondo senza Venezia? È  una città problematica, ma puoi sfuggire agli elementi più disturbanti. Venezia usa incantesimi tutto l'anno, visitala in inverno; cammina fino alla periferia, lontano da San Marco, e trascorri qui una settimana, più se puoi, per scoprire la sensazione di una città che vive al di là delle cartoline.
Una Venezia luci e ombre. Vi dico già che è l’unica città citata in classifica, no Roma, né Firenze. Che occorra forse puntare più sulle risposte che un luogo è in grado di dare invece che sul catalogo di monumenti, palazzi e musei?
Quello che cerchiamo a venezia è il silenzio, spesso incubatore dell'amore, il resto è turismo di massa.

13. Architettura
Hai bisogno di più vite per godere lo straordinario patrimonio dell'architettura italiana. Ogni città in Italia ha tesori: chiese romane, gotiche o barocche; un monastero; Monumenti romani o etruschi; piazze medievali; un palazzo rinascimentale.
Grazie, verrebbe da dire. Architettura in quanto tale. Una parola chiara e semplice. Potremmo magari provare a raccontarla come luogo del lavoro, della vita, dell’anima, dei ricordi. Ci aiuterebbe forse anche a migliorarla e a sentirla come uno strumento che genera felicità.

12. La Moda
Come tutti, gli italiani indossano  abbigliamento per il tempo libero a buon mercato e gli standard di moda non sono come quelli di Armani, Valentino, Prada, Versace, Schiaparelli, Pucci, Gucci, Fendi, Ferragamo e molti altri. Puoi acquistare i grandi nomi a Milano, Firenze e altre grandi città, senza  trascurare i centri più piccoli come Como per la seta, Biella per il cashmere e Cogne per il pizzo.
Bello che il Made in Italy irrompa, quasi come arte pop contemporanea tra le ragioni per venire da noi. Valorizziamolo portandolo a sistema! Un buon esempio è la Motor Valley dell’Emilia Romagna


11. Le Montagne
Molti paesi hanno montagne, ma solo l'Italia ha le Dolomiti, le più incredibili  d'Europa. E solo l'Italia ha l'Etna, il vulcano più alto e più attivo d'Europa, e non una ma due grandi catene montuose: le Alpi e la lunga spina dorsale centrale dell'Appennino, con lupi e orsi e vedute che spaziano dalle Alpi Apuane seghettate in Toscana nella vasta regione selvaggia dell'Abruzzo.
Quindi montagne citate, mare e spiagge no. Forse l’autore è la classica mozzarella che preferisce le vette però, in tempo di postCovid la solitudine dei sentieri batte la caciara delle spiagge tre a zero. Facciamoci magari una pensata su…

10. La setta del caffè
Oggi possiamo comprare lattes, caffè espresso, macchiato e cappuccino ovunque nel mondo. Sono parole e bevande che vengono dall'Italia. In ogni bar italiano trovi un caffè incredibile, da sempre, da molto prima dell'arrivo di Starbucks. Lasciati coccolare dal rituale dell’esperienza italiana - in piedi al bar, non seduto, per esempio; o al vetro; e non bere mai il cappuccino dopo mezzogiorno ...
Bologna è da poco entrata in alcuni itinerari sull’asse Venezia-Firenze-Roma. Quando chiedo ai turisti americani che città abbiano preferito si illuminano “Bologna! It’s the best. You can walk easily, sit for a coffe watching people and having a wonderful aperitivo in the evening”. Ecco, giusto per dare un’occhiata più vicino alla piramide dei bisogni di Maslow.

9. Buon bere
Nessuno pretende che il vino italiano sia il migliore al mondo, anche se negli ultimi anni sono emersi nuovi produttori e numerosi vini innovativi. I vecchi nomi sono stati rivitalizzati (Chianti, Valpolicella, Soave) e si sono uniti a vino molto rispettati (Barolo, Barbaresco, Brunello). La Sicilia è una potenza emergente, così come la Franciacorte in Lombardia e Bolgheri sulla costa toscana. Se il vino non è piacevole, ci sono bevande alcoliche come grappa, Cinzano, Campari, limoncello, Sambuca - e alcuni famosi cocktail (Negroni, Bellini).
Equilibrato quadro che evita stupidi confronti con i fantastici francesi e i magnifici cileni o australiani ma va dritto alla nostra infinita varietà. Poi, rispetto a casa loro, qui da noi il rapporto qualità/prezzo non ha eguali.

8. Cucina di classe mondiale
Non francese, non elegante, ma in qualche modo perfetto: il cibo italiano è salutare; gli ingredienti - carne, pesce, frutta, verdura - freschi; la qualità è di prima classe; ci sono grandi variazioni regionali e la cottura è veloce e semplice.
Chiaro? Anche qui lasciamo perdere panzane non misurabili come “La migliore del mondo”. Piacciamo per salubrità, ingredienti, facilità. Siamo grandi, un ottomila, assieme a una manciata di altri.

7. Opera
L’Opera è italiana, così come la maggior parte dei grandi compositori: Verdi, Rossini, Puccini, Monteverdi, Bellini, Donizetti. L'Italia ha anche due dei teatri lirici più famosi al mondo - La Scala e La Fenice - e bellissimi teatri si trovano anche a Bologna, Palermo, Treviso, Prato e Ferrara.
Settima ragione per tornare da noi, magari una ragione in più per farla ripartire e portarci pure gli italiani in questa estate post-Covid

6. Attrazione sui laghi
Poeti e pittori hanno celebrato il Lago italiano per secoli, e non c'è da meravigliarsi, perché rappresentano alcuni dei panorami più belli d'Europa. Giardini lussuosi e splendidi villaggi adornano le loro spiagge con clima mite, con pendii boscosi e Alpi innevate sullo sfondo. Maggiore e Garda sono i più visitati, i più belli di Como; Iseo e Orta sono i più calmi.
Gli inglesi amano molto i laghi, non dimentichiamolo. Forse noi li amiamo ancora troppo poco.

5. Una bellissima lingua
Tutto suona meglio in Italiano. È  il linguaggio dell'amore, della musica e nulla si avvicina se vuoi sapere qualcosa. Anche se capisci a malapena una parola, le chiacchiere in qualsiasi contesto sono un altro promemoria che ti trovi in ​​un paese piacevole. E a differenza di altri paesi – come la Francia - gli italiani sono contenti che tu abbia provato, per quanto in modo terribile, a parlare la loro lingua.
Un asset fantastico e polveroso. Poche iniziative davvero contemporanee che escano dal coro e diano valore (e creino fatturato) a partire da cosa abbiamo sulla punta della lingua.

4. Attività all'aperto
Comprensori sciistici di livello mondiale. Puoi andare in canoa, vela, kayak e immersioni. O coccolarsi a piedi, e andare in bicicletta in Toscana e in Umbria o trekking e circuiti di più giorni su percorsi a lunga distanza nelle Alpi e nelle aree circostanti. E che dire del parapendio in Umbria, del rafting in Calabria o del monitoraggio dei lupi in Abruzzo?
Eccoci con le Esperienze. Ben piazzate. Non tradizionali. All'aperto e dunque perfette per il distanziamento e per l'ossigenazione. Da sviluppare ORA e vendere per un turismo destagionalizzato, lento e sostenibile.

3. Borghi storici
La Toscana e l'Umbria ce l'hanno in abbondanza, ma ogni regione ha le sue: i miei favoriti includono Sulmona in Italia Abruzzo; Enna, Erice e Noto in Sicilia; Matera in Basilicata; Tropea di Calabria; Ostuni in Puglia; Ascoli Piceni nelle Marche; Ravenna di Emilia-Romagna; Camogli in Liguria. L'elenco è lungo ...
Siamo al podio! E con una bella carta da giocare. Moltissimo potenziale per soddisfare i bisogni dei clienti e dei territori. Far rivivere i borghi significa sviluppo, stop all’emigrazione, attrazione di talenti (soprattutto se anche lì fai arrivare la fibra ottica)  

2. Giardini gloriosi
I giardini sono ovunque in Italia, dalle ville venete e del lago Italia a nord agli uliveti ombreggiati in Toscana e al cortile siciliano profumato al limone a sud. I favoriti personali includono Ninf, a sud di Roma; Hanbury vicino a Ventimiglia; Villa Carlotta sul lago di Como; La Mortella ad Ischia; e i pittoreschi e bellissimi Giardini dei Tarocchi nel nord del Lazio.
Con un bel colpo di scena i giardini prendono l'argento! E' una scelta molto british e poco considerata quando ci immaginiamo attrattivi e memorabili. I giardini storici hanno un gran potenziale dopo 3 mesi di lockdown con la vista ridotta ai gerani sul davanzale.
Giardini da agire dunque, per imparare, per godere di spazi e luce. Per piacere.

1. Gli Italiani
Non puoi amare un paese se non ami la sua gente. Sappiamo anche che gli italiani spesso si vedono principalmente come toscani o siciliani, diciamo, o veneziani o napoletani, piuttosto che italiani. Ma sono sempre gli stessi: realisti, cinici; passionali e rumorosi, ma anche formali e conservatori; pragmatici e indipendenti; spontanei e socievoli, e con sensuale apprezzamento per le cose migliori nella vita - e non c'è da meravigliarsi in un paese in cui le cose sono migliori nella vita in modo così ampio.
“Le Persone sono la destinazione” lo sottolineo sempre nei miei corsi di progettazione culturale. Prendo in prestito spesso il piano strategico Wondeful Copenaghen che ha scalato il concetto a politica per la città. Non siamo meglio degli altri. Siamo diversi. E piacciamo così. A partire da questo possiamo candidarci a essere la destinazione preferita di chiunque. Perché chiunque è umano qui può trovare quello che cerca.
Occorre esserne consapevoli e far diventare un dono di natura la principale leva della nostra relazione col mercato  

martedì 24 dicembre 2019

Di povertà vorrei parlare…

Oltre venticinque anni fa ho iniziato ad occuparmi di progetti e strumenti per la lotta alla disoccupazione. Una dozzina di anni fa mi sono allargato al tema della creazione di lavoro e alle nuove professioni, al recupero spazi e alle nuove economie. Poi mi sono concentrato sul lavoro  le competenze in ambito culturale, anche con progetti specifici di sviluppo territoriale.
Poi nuovi percorsi, forse logici ma anche inaspettati, da quasi un anno  mi hanno portato ad un impegno professionale nel campo della lotta alla povertà.

Ne parlo poco, pochissimo. È la prima volta che lo faccio sul web e sui social media. Il Natale  e la voglia di condividere le opinioni con chi mi segue su questo blog, mi spinge a fare qualche considerazione.
Dopo un anno di lavoro, nella testa si mischiano visi, statistiche impietose, storie di vita, la disperazione delle famiglie, i raggi di speranza per alcuni, e lo scoramento di operatori bravissimi chiamati sempre a svuotare l’oceano con un cucchiaio.
Se contabilizzo con la mente i miliardi spesi per lo scopo e provo a coglierne gli impatti scarto la retorica, scelgo la pragmaticità. Perchè se ne parla e scrive troppo poco.

Il 2019 è stato l’anno del Reddito di Cittadinanza, l’affermazione di un nuovo diritto e del concetto che in una comunità la fratellanza è pilastro di democrazia e include il sostegno  nelle situazioni più disperate. La svolta legislativa è stata epocale

Sì, il sistema era impreparato a uno strumento così ampio e complesso: servizi non all’altezza, software inesistenti, procedure da progettare, leggi e decreti da scrivere, scollamento tra le amministrazioni, operatori travolti dall’incertezza e dall’utenza. Una politica più saggia avrebbe dovuto immaginare 12-18 mesi per organizzarsi. La situazione è in evoluzione, tanto è stato costruito e tanto si sta facendo. Occorre guardare al futuro e apprezzare una base giuridica che non c’era e le opportunità che stanno sviluppandosi. Eccoci allora qua, impegnati a trasformare un magma di casi ed eccezioni in un sistema di supporto ai cittadini, dando del nostro meglio. Tra un anno, ci rivedremo qui per i primi veri bilanci.

Alcune cose le ho imparate velocemente.

Lavorando sulla povertà e sull’esclusione sociale ho compreso come la povertà educativa sia la radice da estirpare. Ragazzi e ragazze che non studiano non hanno chance contro l’esclusione. Quando incontro ventenni inchiodati al dialetto e a solo duemila parole in italiano vedo i loro percorsi in caduta libera. Comprendi subito come la licenza superiore sia il minimo per galleggiare, e a essa andrebbe accompagnata da forme di educazione non formale che passino attraverso lo sport, i gruppi giovanili, la possibilità di viaggiare e magari padroneggiare un’altra lingua.  Miliardi di euro e nuovi approcci vanno calati sul sistema scolastico e sui servizi di supporto alle famiglie.

La seconda componente maligna della povertà è la solitudine. La povertà relazionale è estremizzata nei cittadini senza dimora ma è trasversale a tante categorie, accentuata dopo i 50 anni. È la dimensione in cui ci si arrende, non si ha nessuno per cui impegnarsi, con cui condividere sforzi, sconfitte e successi, e allora, tanto vale, lasciarsi andare.  Lo so, non puoi obbligare a nessuno di socializzare, a curarsi, però puoi agevolarlo. Possono farlo architetti e urbanisti a cui si dia tale mandato nei loro progetti per città, quartieri e aree interne, possono aiutare animatori e artisti sociali. Anche la banda larga e l’educazione digitale sono utili allo scopo.

Il fantasma che ogni tanto intravedo è quello della povertà provocata e dunque evitabile. La percepisci nelle regioni in mano alla criminalità, dove il povero è utile, è manovalanza, è docile, è la piattaforma su cui accumulare ricchezza. Dove le componenti di ignoranza, lavoro nero e solitudine sono al servizio di un disegno più grande che giustifica a ricchezza di pochi sulle spalle dei molti.  

In quest’anno ho imparato che la povertà è un fattore complesso (‘multidimensionale’ dicono i tecnici) e la lotta al fenomeno soffre di semplificazione. È pilatesco affermare ‘basta dare un lavoro’, così come è una semplificazione l’idea che esistano soluzioni valide per tutti. I percorsi hanno senso quando sono individuali, sono lunghi, passano per il recupero della legalità, della speranza, dei fondamentali del vivere civile.

giovedì 1 agosto 2019

Formarsi per trasformarsi. Riflessioni di un docente alla vigilia delle ferie.


Nell’ultimo anno ho fatto almeno 80 giornate di formazione (sono un’enormità e prometto a me stesso che non lo farò mai più). La bellezza della formazione è che consente di entrare in relazione con le persone in un momento cruciale della vita: quello dello sviluppo professionale.
Sono tutti corsi per adulti. Possono essere partecipanti a master, occupati e disoccupati di ogni età in corsi finanziati dalla UE, manager privati, direttori di musei o biblioteche.

Quello che accomuna gran parte di loro è il disorientamento. Come se la velocità a cui si muove il contesto paralizzi la capacità di muoversi senza punti di riferimento; l’assenza di certezze impedisca di tracciare rotte; l’ansia che vedono negli occhi dei genitori o dei partner diventi il fantasma che li impantana se stanno per accelerare.

Incontro spesso talenti formidabili che non hanno mai potuto verificare nel concreto l’utilità di ciò che saprebbero fare. Da parte dei più giovani osservo una profonda critica ai programmi universitari ritenuti obsoleti se non proprio campati in aria.
Io non sono un accademico. Adoro l’aula ma ho bisogno di ‘fare cose’, impastarmi col reale, confrontarle con l’ottimo e i mediocre, elaborarne l’efficacia. Poi, se ho imparato qualcosa, trasformo tutto ciò in un’attività d’aula. Mi appassiona e diverte anche e spero che ciò mi renda un apprezzabile formatore.

Ogni tanto ecco quello/quella (più spesso è donna) che si incaponisce su un’idea e vuole fortemente realizzarla. Spunta il ‘progettino’ che sgomita per prendere forma e perdere il diminutivo. Quando ci riesce, lo sguardo di chi immagina il futuro è diverso: chiede e libera energie. Ci sono casi in cui questo miracolo avviene addirittura durante il corso e allora nasce una contaminazione positiva con gli altri partecipanti, i talentuosi e indecisi che scoprono come si possa osare. Il progetto allora diventa più di uno, alcuni si fondono, si scontrano, si arricchiscono a vicenda. Tutti imparano e si trasformano.

Sullo sfondo, gli enti di formazione: tolte brllanti eccezioni, soffrono la pesantezza burocratica, la difficoltà a interpretare il contesto, faticano a dare senso ai loro corsi, anche perchè quasi mai conoscono davvero i corsisti, raramente interagiscono con i docenti, tantomeno li coordinano. Fanno un lavoro per cui occorre una vocazione ma raramente riescono a vedersi come tali. Anche se formare gli enti formatori è un po' come spingere gli spingitori di guzzantiana memoria, dovrebbe essere fatto.

So che molti dei partecipanti alle mie aule leggeranno questo post e non mi spiacerebbe confrontarmi ancora con loro su questi temi.

domenica 3 marzo 2019

L'Italia e i suoi Stati.


Per lavoro ho l’opportunità di viaggiare parecchio per l’Italia. Dove mi chiamano, quasi sempre mi occupo di lavoro, disoccupazione, sviluppo locale, cultura, e dunque entro per quanto possibile in temi che caratterizzano la costruzione di una democrazia e l’affermazione della felicità dei singoli e delle comunità.
Quello che vedo è un Paese che non è per niente un solo Paese. Ogni volta, scendendo dal treno, mi sembra di essere all’estero.
Esiste una diversità che è ricchezza se sviluppata dentro un progetto unificante e una diversità che è zavorra individualista se non tiene conto né della realtà né del proprio vicino: mi trovo molto più spesso nel secondo caso.

Arrivare a Milano è recarsi uno Stato a parte. Va ad una velocità tutta sua, con pensieri e azioni che riguardano solo se stessa, in gran parte luminosi e visionari e in altra parte profondamente egoistici. In pratica batte moneta, detta la linea, non si guarda indietro, macina novità in maniera bulimica scommettendo che nella quantità si produca la qualità. Esprimerà presto la classe dirigente e politica del resto d’Italia. È nel XXI secolo, da sola. Bologna non riesce invece a fare i conti con se stessa, decidere se essere una città o un’idea, stenta a capire come e perché è cambiata e dove vuole/rischia di essere tra dieci o quindici anni. Ha anime che cooperano perché credono nel valore della condivisione, e interessi che ne minano l’anima; in una tensione che percepisci lama sottile e dagli effetti imprevedibili. Napoli ti salta addosso e tutto lì ti pare eccessivo, nel bello e nel brutto, impedendo di pensare. Perde qualsiasi treno antecedendo a qualsiasi progettualità la frase “Non si può fare perché a Napoli le cose sono diverse…” e per ‘cose’ intendono leggi, sogni, idee, regole civili. Bella per le foto con Pulcinella tristi come il paesaggio devastato che la circonda da ogni lato e le voragini sociali che ne assorbono le energie.  Reggio Calabria annienta ogni speranza, di chi ci vive e di chi ci passa. Lei e la sua regione paiono il buco nero del resto d’Italia, un luogo che non ha l’attenzione di nessun altro, inclusi i suoi abitanti. Quando la frequenti la ami come si fa al capezzale di un’amica sofferente e ti chiedi perché nessun altro sia lì a immaginare prognosi e cure in grado di cambiarle il destino. Genova invecchia con i suoi abitanti, avvizzendo idee e slanci in una lotta impari contro le scempiaggini che gli uomini che la abitano hanno fatto a se stessi martoriandone territorio e ideali. Non si ama e non ama. Lì essere giovani pare quasi una colpa e la cosa migliore per espiarla è il non dare fastidio o andarsene. A Cagliari e in Sardegna sei in un altrove da sempre, in un Paese bellissimo e enigmatico dove la differenza culturale si erige a barriera e non a valore, che ammette di esistere quando scopre di non poter essere isola fino in fondo e di dover esportare latte senza importare mercato; in una regione felice perché la retrocessione economica le farà prendere più fondi europei destinati ai territori non sviluppati. C’è la sosta a Torino che per un po’ ha creduto di esistere anche fuori dai propri confini, di poter fare e cambiare, di poter uscire dall’isolamento un po’ vezzoso grazie alla laboriosità innata dei suoi abitanti e anche grazie alle Olimpiadi e alla TAV. L’asfissia delle idee e la pressapochezza della politica l’hanno invece molto rallentata.
Anche il posto dove vivo, Roma, è a suo modo all’estero. Lo è rispetto all’Europa che funziona, che traina pensiero ed economia, che reputo l’unica casa possibile per tutti. Una Capitale di serie B arenata nelle opportunità non colte, senza un’idea di futuro e neppure di presente. Dove la domanda inespressa da tutti è “Che ffamo?” e la responsabilità individuale segnata dagli “’Sti cazzi.” 
Dove ogni riflessione politica si arena presto in chiacchiere da stadio o in vaffa’ generici che tengono al sicuro le proprie rendite di posizione. Un posto dove la risposta non è neppure dentro di sé perché lì non albergano neanche le domande.
Ovunque non manca energia, migliaia di persone provano per bisogno o per missione a risolvere problemi rimboccandosi le maniche. Quasi tutti pensano di farlo senza la pubblica amministrazione considerata essa stessa un problema e mai una soluzione, spesso disdegnando anche il denaro pubblico per la sua inefficienza e ottusità di obiettivi.

Eccolo, il post politicamente scorretto, per dire anche a me stesso che così non può funzionare, che non si può continuare a procedere con occhi e orecchie chiuse, e che gli spazi per ricostruire sono infiniti, basta volerli abitare con l’intelligenza prima che altri li occupino con la brutalità.

venerdì 21 dicembre 2018

Nel 2018, la Prima Volta che…


Esistono snodi rilevanti nel percorso professionale di un consulente. 
Tra tutti, le ‘Prime Volte’ rappresentano punti di svolta che spesso segnano un nuovo filone di attività, l’emersione di un bisogno di mercato, l’intuizione di cosa succeda sul territorio, e che hai una certa età, e che ‘senior’ significa anche che devi essere utile altrimenti quello che fai è tempo perso.

Più di altri, il 2018 è stato per me un anno ricco di Prime Volte professionali. 
Credo abbia senso raccontarle, sia per confrontare gli input di mercato che colgo, sia per sentirmi magari proporre “Anche io mi muovo in quella direzione, facciamo qualcosa assieme?

Nelle molte cose fatte e pensate spiccano per novità:
  • Sviluppo e realizzazione di un percorso formativo nuovissimo su “Politiche e strumenti collaborativi per lo sviluppo sostenibile del territorio.” In verità, non credevo che avesse un mercato: quando mi sono trovato l’aula piena di funzionari entusiasti ho pensato a come il mondo sia molto meno peggio di quello che ci immaginiamo. Peace and codesign.
  • La scrittura di un’intera campagna di videospot, 12, per raccontare in una storia la filosofia di un marchio, la sua differenza, i vantaggi che crea, la forza dei suoi dipendenti. E pure scrivere un cortometraggio di 12 minuti per una multinazionale che lo userà per formare i propri dipendenti in tutto il mondo ai rischi sul lavoro. Storie che diventano immagini che creano azioni
  • È stata la prima volta anche per un webinar in diretta streaming a oltre 600 funzionari pubblici sullo sviluppo di servizi per l’impiego adatti alle necessità di lavoratori e aziende nel  XXI° secolo. Parlare ad uno schermo sperando di mantenerli svegli…
  • Per la prima volta ho insegnato in un singolo corso per adulti (di storytelling digitale) per oltre 30 giornate. Tantissime per i normali standard. Ho però così la rara fortuna di partecipare all’intero percorso di scoperta, consapevolezza, azione da parte di donne e uomini fantastici in cammino verso la propria autorealizzazione. (… e non è finita ancora…)
  • Ho poi progettato e messo in pratica una piccola offerta di Turismo Esperienziale a Roma per capire come funziona, come si inserisce nei flussi, come contribuisce allo sviluppo, cosa vuole il turista, quali competenze include, cosa significa erogare esperienze e conversazioni. Vorrei che a questo seguisse un libro…
  • Per la prima volta mi hanno scelto come Valutatore di progetti in diversi posti in Italia. È un’esperienza segnata dall’età, occasione preziosa per contribuire alla crescita del sistema e per capire cosa manca sul piano della visione, della capacità di analisi, di progettazione, di lettura dei bisogni. C’è tanto da fare, credetemi. Il livello medio è ancora troppo basso.
  • Ho partecipato assieme a molti pischelli a hackathon dove i cervelli si nutrono uno dell’altro e le cose accadono meglio di come te le saresti mai immaginate (ok, qui non era la prima volta, lo ammetto, ma ogni volta è come se fosse la prima)
  • Ho concluso la scrittura due biografie personali. Quella di Nino (78) e quella di Pina (92), eroi a prescindere, ormai zii acquisiti, capace di aprirmi la mente sul futuro concedendomi l’accesso al loro passato. La scrittura portata a un livello di utilità mai provato prima.
  • Un giorno di novembre, mi sono ritrovato in una assolata città del sud a fare il fratello maggiore a quindici ragazzi in lotta, che vorrebbero un mondo diverso per avere una vita e una famiglia normale. Sono diventato per un attimo il loro specchio, la loro voce e la loro penna. Da allora li ho con me e ascolto attonito la rappresentazione fiabesca che la politica vuol dare della realtà.
  • Sono sbarcato su Instagram. Non un passo memorabile forse, piuttosto un avamposto che diventa una sfida riempire di senso. Portarvi contenuto vitale è come seminare nel deserto.
  • Infine è stato l’anno in cui all’improvviso in molti mi chiedono di essere relatore alle tesi dei master dove insegno, anche là dove faccio una sola lezione. Mi hanno detto che porto ossigeno, forse è un complimento. Forse ho più domande che risposte, e questo serve sempre tanto.

Ora è Natale, sono un po’ stanco e bisognoso di letargo, stupore, cioccolato, coccole e formazione.

Ci leggiamo nel 2019. Auguri a tutti!

sabato 15 dicembre 2018

La famiglia Italia, in Viale Europa 27.


Nel condominio di Viale Europa, la famiglia Italia abita al primo piano. E' un grande edificio, bellissimo, abitato da tante persone, ricco e povero, con i suoi problemi e le sue grandi forze. 

Gli Italia hanno un ampio appartamento che vale almeno  il 12% dei millesimi dell’intero palazzo: sarebbero in grado di orientare tutte le scelte, di aiutare a risolvere i problemi, peccato che alle riunioni non vadano quasi mai e se sono presenti passino tutto il tempo al telefonino o deleghino a votare per loro comparse prezzolate che non hanno idea di dove siano, e pensino solo a chiedere il numero di telefono alle studentesse dell’Erasmus del terzo piano.

Gli Italia escono poco, quindi capiscono anche meno. Sono però iperattivi. Per distrarre i figli che hanno intuito quanto sarebbe meglio conoscere gli altri abitanti il condominio, e tranquillizzare i nonni che si annoiano e parlano solo a quant’era bello quando avevano trent’anni, i denti, i capelli e la pensione regalata, si sono messi a fare  lavori inutili e di grande effetto, come capita nelle migliori gabbie di criceti e negli imperi egizi.

Alza quel muro!” è stato il primo imperativo “Dobbiamo impedire l’ingresso dei gatti randagi dal cortile!” e “Così bocchiamo le correnti d’aria fredda!” e “Impediamo l’ingresso di cibi senza carboidrati!” Poi è venuto  Installiamo un nostro videocitofono!” un bel gadget tecnologico per divertire i bimbi che possano vedere l’esatta posizione dei fattorini prima di lanciare i gavettoni, utile anche a scegliere le badanti in base allo zigomo e i raccoglitori di pomodori in base all’apertura pollice-indice. Ecco poi “Stampiamo i soldi finti come a Monopoli e facciamo finta che siano veri! Siamo ricchi!” cosa che ha divertito un po’ tutti e aumentato per due giorni gli scambi economici nell’appartamento. Ecco allora “Pitturiamo le serrande color cachi!” è stata poi una proposta utile a dare un lavoro inutile ai ragazzi di casa e a lanciare l’hashtag #cachisenzavergogna, per sentirsi trasgressivi e divertire sui social. Infine è arrivato il ferale “Non rispettiamo le regole condominiali! Non ci piegheremo alla dittatura dello zerovirgola!”

Gli Italia sono rumorosi e inaffidabili, si sa, e usano spesso paradossi pensando che grazie alla loro simpatia nessuno li ascolti davvero, però quest’ultima affermazione ha stranito gli altri condomini che hanno cominciato a chiederne ragione, anche perché il cattivo esempio non stigmatizzato è in grado di condizionare anche altre menti semplici nel grande palazzo.
Gli Italia, a cui non manca la fantasia, hanno subito trovato motivazioni fanfaroniche e d’impatto: “Perché in Viale Europa il tempo atmosferico è sempre deciso dagli ultimi piani! Perché non possiamo neppure più russare in casa nostra! Perché siamo belli, furbi e veniamo da lombi nobili e dunque i diritti e i doveri degli Italia sono diversi geneticamente da quelli degli altri! Perché quello che facciamo coi muri in casa nostra, sono solo mattoni nostri, e non ci interessa se siano portanti! Cosa? Dite che c’era un accordo scritto? Di certo a nostra insaputa! Avete ancora da ridire? Noi allora ci infiliamo le dita nelle orecchie e urliamo democraticamente blablabla!  Non vi va bene? Siete fascioidi, antidemocrastici e xanadufobi!
Ecco una montagna di parole sparate a casaccio, scoregge false, rutti utili solo a sollevare polveroni di saliva portatrice di contagio. Con l’obiettivo di convincere i giovani e gli anziani in famiglia che in Viale Europa non li vuole nessuno, che per loro non c’è posto, non c’è aria, non c’è libertà. Per convincerli che sarebbe meglio trasferirsi altrove, in un posto libero dove gli altri non ci saranno, nessuno gli ruba il diritto di piangersi addosso, e non avranno pressioni per guardare al futuro, risolvere i problemi, combattere le mafie, far amicizia e business col vicino di casa, rispettare le leggi ambientali e fiscali. In un posto dove potranno vivere degli ortaggi dell’orto piantato su bei terreni contaminati, ruminare prodotti bioillogici fatti dagli Italia, da maestri del telecomando, orgogliosi della loro bella lingua, anzi liberi di usare un dialetto in cucina, uno in bagno e uno in salotto.

Itala, la più giovane, che è poco interessata a quelle fregnacce e ha già capito che gli adulti alzano il tono quando devono coprire le loro colpe, e parlano di libertà quando sanno di togliertela, chiede “Com’è ‘sta storia di Zerovirgola? L’avete ritrovato? È diventato dittatore di che?”
Ovviamente lei si riferisce al gattino sparito da qualche settimana, in realtà annegato nello sciacquone dallo zio che non ne sopportava i miagolii notturni e per la cui dipartita ha accusato ad arte lo chat del vicino di pianerottolo.
“Grazie per la domanda, piccola Itala, e non farne mai più. Ciò mi consente di parlare d’altro,” i capifamiglia lo spiegano bene alla famiglia riunita sotto l’albero, “Loro, quelli qui di Viale Europa… Loro i gatti li mangiano. Loro non ci vogliono e neppure capiscono che siamo diversi. Ad esempio, noi volevamo indebitarci verso di Loro spendendo il 2,40% di quello che non abbiamo, ma Loro ci hanno guardato male, allora abbiamo detto subito che sarà solo il 2,04% - che poi è la stessa cosa perché sia sa che qualunque numero moltiplicato per zero dà sempre lo stesso risultato . Ma Loro non sono contenti, mai. Loro sono cattivi e non amano la matematica. E noi siamo buoni e. Semplice, chiaro.” Molti annuiscono.

“E Zerovigola dov’è finito?” la bimba è interdetta dai funambolismi illogici dei capifamiglia.
La doppia sberla biguanciale le arriva da entrambe i capifamiglia mentre il terzo riprende  la scena col telefonino e la posta con #cachisenzavergogna #eallorazerovirgola #unatroiettapresuntuosa #vialeeuropacovodiserpi #primagliitaliaepoiildiluvio #ridebenechihaancoraidenti
Con le mani fumanti in bella vista, i capifamiglia riprendono, “Il regalo che vi chiediamo a Natale è consentirci d’abbattere il condominio in primavera, quando si voterà per il nuovo amministratore.”
“Con noi dentro? Siete scemi?” chiede il cugino Italicchio che gli altri trattano come un animale da cortile perché ha preso addirittura la licenza da geometra.

I dettagli non sono importanti: noi siamo gli Italia! Noi i dettagli ce li pippiamo come farina taragna!" e lo mettono a quota 100, gradi nel forno. "Autorizzateci a imbottire i pilastri di casa con bombe! A cambiare tutto! A mettere la realtà aumentata nell’ascensore sociale! A chiudere la bacheca degli avvisi che spreca carta! A accorciare le divise delle stagiste e a impedirgli di abortire! A malmenare chi vuole rimanere in Viale Europa! A abolire la logica, l’università, la cucina fusion, i rapporti tra condomini consenzienti! Fateci rendere obbligatorio l’uso dell’esclamativo al termine di ogni frase! Autorizzateci a tutto, visto che non ci capiamo niente! E sarete sempre più felici di appartenere a questa famiglia!
(continua?)


Dedicato a Antonio Megalizzi.
R.I.P.

sabato 6 ottobre 2018

Un aborto di civiltà.


Quando le mie due amiche sposate tra loro si sono chieste chi avrebbe portato avanti la gravidanza il tema mi si è presentato diversamente: cosa accadrebbe se in una coppia etero ci si potesse porre la stessa domanda. Io? Te? Ne facciamo uno per uno? Fosse così l’uomo di certo avrebbe opinioni molto più sensate sull’aborto, o semplicemente avrebbe dimostrato scientificamente che comunque è meglio che partorisca la donna. Perché a noi uomini piace governare le vite degli altri.

È davvero forte l’immagine delle donne ancelle in consiglio comunale a Verona. (Consiglio a tutti la lettura del libro o almeno la visione della serie televisiva a cui si ispirano “Il Racconto dell’ancella”di M. Atwood”). Nella storia sono donne costrette alla riproduzione controllata dall’autorità, senza identità ma solo con uno scopo, accudite e mantenute sane anche contro la loro volontà, corpi come contenitori.

Ricordo al corso prematrimoniale l’anziana coppia che ci ha fatto una tirata sull’innaturalità dei procedimenti della fecondazione in vitro. E poi di quando si è ricreduta visto che l'amato figlio ha avuto problemi a renderli nonni ed è ricorso a ogni trovata della scienza, legale in Italia e oltre.
Ricordo la dottoressa di un grande ospedale pubblico che non dava il proprio nome ai pazienti e fissava appuntamento per un ricovero “a mezzanotte” a chi chiedeva di poter esercitare il diritto di aborto nei termine previsti dalla legge.
Ricordo quel pratico ginecologo che spiegava “A Roma… non saprei. Le mie pazienti vanno tutte a Londra, due giorni, servizio impeccabile, vicino all’aeroporto, 1500 euro volo incluso. Tutto pulito e legale, si intende.”
Ricordo anche lo psicoterapeuta che spiegava come - da protocollo - la visita alla donna sia prevista solo prima dell'intervento e che "sarebbe interessante fare qualche studio su come le donne stanno dopo. Forse l'hanno fatto in Svizzera..." Lui, per stare sicuro, prescriveva sia i calmanti che gli antidepressivi.

Ricordo la coppia che usava l'aborto come metodo anticoncezionale, e la ragazza che ha dovuto farlo come unica via d’uscita da una situazione impossibile e dopo 30 anni ancora elabora il lutto. 
Il tema è di una complessità comprensibile solo con l’amore per le donne. Invece a parlare d’aborto è sempre una gamma di uomini aspiranti alfa col cervello in versione beta, non testato sul mondo reale ma governato solo sull’algoritmo dei loro desideri.

E l’idea di una “Città a favore della vita” mi ricorda il ridicolo pronunciamento ormai fuori moda di “Comune denuclearizzato”. Li ricordo i cartelli in paesini insignificanti: Melegnate, Cuzzolo sul Lento, Acquastretta, Grullo Superiore tutti ‘denuclearizzati’ perché - si sa - la radioattività rispetta le delibere, i confini catastali e il voto della maggioranza. E quando le Giuliette e i Romei dei consiglieri comunali avranno bisogno di una interruzione di gravidanza cercheranno un Comune che si dichiari a 'sfavore della vita' motivando con “la mia situazione è speciale…”, “dipende…”, “è per il bene della madre…”, "Sono giovani, hanno fatto uno sbaglio," aggiungendo "Posso avere il nome di quella clinica di Londra?"

“I diritti civili non sono nel contratto di Governo” ha detto giorni fa uno di questi sfascisti, chissà se su quello straccio di carta velina hanno messo la Libertà.

martedì 14 agosto 2018

Il Ponte, aorta di una città.


Scopro adesso che si chiamava Ponte Morandi, per me è sempre stato il Ponte della Nonna Angela.
Sotto le enormi campate c’è tuttora un quartiere di case popolari in larga parte destinate ai ferrovieri emigrati dal sud, arrivati negli anni ’40. Come i miei nonni, appunto. In quei 70 metri quadri hanno vissuto per 50 anni e i loro 13 figli hanno costruito le basi della vita al nord.

Me lo ricordo fin da piccolo. Saprei disegnarlo a occhi chiusi. 
Si vedeva da lontanissimo e avvicinandosi a piedi avevi modo di capire quanto fosse fuori misura ed imponente. Per me era come la presenza preistorica di una civiltà aliena, altissimo sopra le case, espressione di uno stile architettonico particolare. Unico nel suo genere. Forse bellissimo. Di certo l’orgoglio del quartiere e della città.
Era la forma più particolare e maestosa che avessi mai visto: nella mia classifica di bambino si giocava il primato solo con le linee della Michelangelo e della Raffaello, transatlantici di bellezza assoluta, miti dello stesso periodo storico. Per me era il design, la simmetria, la forza della bellezza al servizio dell’uomo.
Crescere lì, a pochi metri, attraversarlo sopra e sotto migliaia di volte, per lavoro, per andare al mare, a trovare amici, in Francia, sulle Alpi, all’aeroporto, dagli zii, dalla mia amica Pina, ha significato per molti (per me) trasformarlo in una icona del quotidiano. Era un vero simbolo. Cento volte più presente, possente e significativo  dell'irraggiungibile Lanterna.

Era da sempre in manutenzione, ristrutturazione o quello che volete. Bastava avere un amico nel settore per sentirsi dire “E’ fatto in calcestruzzo precompresso, non resiste. Va continuamente sistemato. È più complicato tenerlo su di come sia stato costruirlo.” Siccome sono un positivista ho sempre pensato che tutto fosse sotto controllo. Mi sbagliavo.

E ora? Voi che non siete di Genova, non potete capire la domanda. È caduto un ponte, suvvia…

No, è stata tagliata l’aorta della città, la strada che rendeva possibile attraversarla, collegarla con i mercati, portare i turisti, muovere la vita. Il ponte è caduto sulla ferrovia che porta le merci da/per il porto che rischia di strozzarsi e di perdere in un attimo il ruolo che verrà in pochi giorni ridistribuito in Italia e all’estero. Se una città non si muove perde qualsiasi ruolo e opportunità.
Metteteci pure che Genova non è servita dall’Alta Velocità, ha un aeroporto che non è mai decollato, indicatori della qualità della vita molto peggiori del resto del nord, un continuo saldo negativo degli abitanti, è gestita senza idee da molti anni, la principale banca è a pezzi, ha un territorio devastato da anni di incuria, ecco che la sfida diventa epocale. Genova non può farcela da sola.

Ci sono tantissimi talenti, energie capaci di affrontare anche questa, di farsi forza. Ci sono imprenditori validi che guardano all’Italia e ai mercato mondiali. Molti di loro non hanno ragioni di rimanervi se non quelle affettive e di legame con territorio. Se questo disastro non ha anche l’effetto di un elettrochoc allora davvero la fuga di tutto quello che ancora si muove rischia di diventare inevitabile. Invece la città deve diventare attrattiva, per chi studia, chi lavora, chi viaggia, chi cerca un posto diverso da ogni altro. Attrarre per evolvere, per innovare, per non spegnersi.

Che il ponte vada ricostruito subito è indubbio. In questi 3-4 anni sarà imperativo ripensare il rapporto tra città-abitanti-territorio.  Che quest’elettrochoc attraversi l’Università, le categorie, i molti immigrati, i zeneizi doc, chi ha il materasso infarcito di euro e chi porta in dote solo le braccia, fino a chi fino oggi si stava chiedendo la ragione vera dell’essere proprio lì ora. Stop al mugugno.
Questa non è un’alluvione in cui con fatica tremenda si cerca di riportare le cose a come erano prima. Questo è un punto di non ritorno.

In un sera così dolente mi permetto di essere ancora positivo: Genova ce la può fare, Genova non deve crollare.


giovedì 8 marzo 2018

Donne e Uomini, Vittime e Carnefici, Passato e Futuro.


L’ultimo a finire sui giornali è stato un italiano, un carabiniere che ha preso la pistola, ha sparato alla moglie, ucciso le figlie e si è suicidato. Un omicidio premeditato fin nei più piccoli particolari.
Nei prossimi giorni ci sarà la sentenza per l’omicidio ugualmente premeditato di Michela, una nostra amica, da parte del suo partner, un manager bancario. Michela era una donna radiosa, un’insegnante molto impegnata nell’educare studenti e studentesse al rispetto e alla giustizia tra i sessi.
La stragrande maggioranza di questi reati avviene per mano delle persone più vicine e fidate. Quasi sempre uomini incapaci di affrontare la realtà e la vita. Inermi di fronte alle difficoltà proprie e a quelle della coppia. Alcuni in cerca di una madre nella partner, tutti inabili alla costruzione del futuro assieme. Uomini convinti del possesso,non abituati alla sconfitta, così come all’uso della ragione.
Come ben si sa, non sono né il reddito né il livello scolastico a inquadrare il fenomeno, né a darci spunti per combatterlo.
Gli uomini coinvolti in atti di violenza ragionano male, vivono male, pensano male. Qualcosa dentro di loro non funziona, o ha smesso di funzionare negli anni o non si è mai acceso. Parliamo di adulti, e  dunque la colpa è loro. Trattano le donne come oggetti di proprietà, o nel mito incatramato della coppia perfetta hanno annegato proprie imperfezioni con cui non hanno mai fatto i conti.

In questi fatti, i rotocalchi cercano la causa scatenante, l’alibi, i fantasmi del passato, gli amanti misteriosi. I media fanno il possibile per razionalizzare i ‘fatti’ o scaricano tutto sul ‘raptus’ e la ‘follia’. Non puntano mai il dito alla Colpa. Vi è un chiaro rifiuto a portare la riflessione su milioni di persone, perlopiù uomini, che dovrebbero fare i conti col proprio essere adulti per darsi un modo diverso di vivere le relazioni affettive.
Sul tema, nella nostra cultura è diffusa una superficialità giustificabile col non voler porre mai le domande che contano. Perché succede? Ci si arrende davanti a risposte troppo complesse e – soprattutto - scomode.

Per quel poco che ho vissuto e conosciuto, ho contezza che per quanto il panorama delle relazioni appaia a volte desolante le donne di oggi stiano in Italia molto meglio delle nostre nonne, ed è da questo che vorrei partire per smantellare la tesi del raptus.

È il caso di ricordare come le nostre nonne (se avete 50 anni) o bisnonne (se ne avere 20-30) hanno in genere avuto delle vite di coppia di merda. Sia lette con i nostri parametri che con i loro: zero affetto, zero complicità, tante legnate e tante corna. Non amano parlarne, non vogliono; siccome era inevitabile, le hanno educate a non parlarne mai: occhi bassi e mente a Dio.
Se vi capita, fate loro domande perché spesso la loro intelligenza aspetta solo di dimostrare quanto non fossero fesse ma piuttosto tenute al giogo.
Dall’alba dei tempi fino al dopoguerra – pochi anni fa - gran parte dei matrimoni erano combinati dalla famiglia, un’altra bella fetta erano riparatori, altri ancora casuali nati grazie al parroco, alle inserzioni sui giornali e simili. Qualcuno d’amore, lo concedo, vere perle rare. Anche quelli d’amore avevano quasi sempre uno schema chiaro nei ruoli di forza e nelle regole che segnavano la distanza del maschile dal femminile. Le nostre nonne erano considerate donne degne dallo Stato e dalla Chiesa solo se si riproducevano parecchio. Questi parti numerosi rispondevano a necessità socio-economiche e ottenevano anche il risultato di tenerle impegnate e con la testa bassa, lontano da libri e civiltà. Oltre a quello dovevano gestire casa, cucinare, educare i figli, etc.
Gli uomini dovevano lavorare e portare a casa soldi, fecondare le mogli e quando ‘serviva’ sfogarsi con le prostitute. Questi criteri li rendevano bravi padri di famiglia.

Era così, punto. Un ordine millenario sancito da necessità ed equilibri di forza. Poco da dire e recriminare. Chi ci provava finiva all’indice se non schiacciata dagli schiaffoni. Era la regola in tutti i matrimoni. Non bello da raccontare. Un po’ come il fatto che in quegli anni quasi tutti erano fascisti e antisemiti, parlo sempre dei nostri nonni e nonne, e oggi che riabbiamo i fascismo alle porte si ritiene ancora indecoroso parlarne, per rispettare la memoria posticcia fissata nelle foto in bianco e nero in bugiardi album di famiglia. 

Le cose cambiano. Credo che dopo l’invenzione della ruota, nulla abbia trasformato il mondo come la pillola anticoncezionale. L’appropriazione da parte delle donne del controllo delle loro funzioni riproduttive è il grande punto di svolta, il primo passo per porsi in una relazione nuova con se stesse, l’economia, la famiglia, la coppia.
L’altro elemento centrale è stata la Pace. Le donne sono il motore e la forza maggiore di un periodo di pace, quale quello che per fortuna stiamo vivendo in Europa da almeno 60 anni. Se non occorre prendersi a mazzate la donna sa bene come manifestare la propria intelligenza, ricchezza e il proprio ruolo. L’uomo del '900 non era programmato per la pace.
L’accelerazione fu forte e la miccia del ’68 servì a contarsi, a scoprirsi una forza, a uscire dalla solitudine a rivendicare quello che è dovuto non solo come donne ma come esseri viventi.

Gli uomini? Eccoci.
Per uscire dalla cultura della clava e del conflitto, dopo millenni dobbiamo cambiare i modelli di riferimento. Di certo abbandonare quello dei nonni e in larga parte dei padri. Possiamo funzionare anche disarmati solo se gli uomini che ci hanno cresciuto riusciamo a amarli e rispettarli, consapevoli che ci sono aspetti per i quali non possono essere dei modelli, e che la nostra felicità passa anche nell’essere diversi da loro. Non può essere altrimenti anche perché le donne che incontriamo sono contemporanee e in tutto diverse dalle nostre madri (meno male, aggiungo).
Il mondo che voglio è un altro, la pace è troppo importante, le donne sono immensamente interessanti per non coglierne il valore.

Dobbiamo anche imparare a litigare con loro. Perché è umano, serve, capita. Ce ne sono pure di stronze, prevaricatrici, crudeli. ‘Come un uomo’ verrebbe da dire. A questi conflitti va applicata la ragione e la giustizia e, se ci vedono perdenti, devono essere un insegnamento, come ogni altro fallimento nella vita.
Chi non ci riesce, chi questo non l’ha capito, si ammala di rancori e rabbia. Diventa vittima di sé stesso e genera vittime attorno a sé.

Dunque. Non parlate più di follia, raptus, pazzia, non ci credo. Basta scuse! La violenza è l’arma dei perdenti. Come faceva ogni giorno Michela, insegniamo alle donne e agli uomini – fin da ragazzi e ragazze – a cogliere la forza negli altri, a valorizzarne la differenza e a identificare i comportamenti deviati rifiutando anche le piccole violenze che, se accettate, autorizzano implicitamente questi criminali a atti sempre più distruttivi e umilianti.

domenica 25 febbraio 2018

Il futuro che vogliamo, a nostra insaputa.

Remo ha due figli da poco maggiorenni e mi guarda, sconsolato, “Sono ragazzi fantastici, anche impegnati. Il problema vero è che con loro non litighiamo mai. Intendo sulle cose importanti, cose come la politica, il futuro, il lavoro, la coppia. Una volta fissata la paghetta settimanale tutto il resto va da sé… non hanno una visione del mondo diversa dalla mia: proprio non hanno una visione del mondo di cui sentirsi responsabili.”
La difficoltà a immaginare il futuro è il limite di una generazione e di un’epoca. Non parlo di pessimismo ma dell’oggettiva difficoltà a immaginare come saranno le cose  5 o 10 anni. Chi lo sa? Io guardavo mio padre, gli zii, nonni e prendevo su di loro le misure di quello che volevo e non volevo ‘essere da grande’. Oggi è inimmaginabile ipotizzarsi a 20 anni di distanza. Certo, tutti d’accordo su Pace e Amore ma poi? Quale Pace? Quale Amore? Con quale significato?

Il modello è forse quello falso e modaiolo dello startupper? Patetico. Quello dell’influencer? Peripatetico. O quello dell’ingegnere che se non emigra si ritiene il nuovo operaio della catena di montaggio?
Più di venti anni di ammollo nel berlusconismo hanno azzerato gli anticorpi a una generazione o due. Siamo autoimmuni alle nostre coscienze. La colpa è sempre di qualcun altro. Il fine giustifica i mezzi. Tre quarti dei cantanti che passano in radio usa meno di 3000 parole perché, come i politici, hanno capito che la lettura di un bugiardino è oltre le capacità (e la voglia) di quasi tutti i loro ascoltatori. La politica gemma furboni, cretini e pupi bidimensionali  come Renzi e Di Maio, berlusconiani a loro insaputa, con la voglia di piacere, tutta tattica e zero strategia (B. la strategia l’aveva e si riassume nel fare politica per salvarsi da inchieste e fallimenti).  

Il Paese come sta? In Italia non ci sono mai stati così tanti occupati (nella storia); economia e fatturati aziendali sono in decisa crescita; criminalità in calo costante e importate. Da decenni non venivano legiferate riforme sociali così importanti e incisive. I clandestini sono in deciso calo. Le infrazioni comunitarie dimezzate. Eppure…
Eppure gli urlatori hanno uno spazio immenso, tra bugie e verità distorte, e chi le cose le ha fatte ha quasi timore a ricordarle. Ho tra le mani il volantinone delle 100 cose che il PD si propone di fare nella prossima legislatura e lo trovo confuso e infelice, quasi timoroso di dire “Siamo di sinistra. Riteniamo che l’interesse collettivo venga prima dell’individuale. Che la paura si combatta con la conoscenza e non con i muri. Che le tasse vadano pagate come dovere. Le case abusive abbattute. Le regioni governate dalle mafie, liberate. I dipendenti pubblici premiati per il loro lavoro quando è meritevole e cacciati quando fanno i furbi. Gli istituti di cultura italiana all’estero potenziati. I nostri cervelli (in fuga o no) coccolati. Gli insegnanti valutati, oltre che assunti e ben pagati. Gli stipendi dei parlamentari dimezzati. Gli imprenditori sostenuti, soprattutto se investono in economie sostenibili.”
La paura va combattuta con argomenti: il tempo indeterminato è finito, defunto, stop, chiaro?  e i migranti possono essere una risorsa determinante come lo sono in molti Paesi. La tecnologia è un toccasana per mille cose e una criticità in altri contesti, che si possono gestire se non si interviene sempre in ritardo. La Scienza non ha a che fare con la democrazia, e i vaccini non portano l’autismo.
Per vivere in questo futuro ci sono parecchi modelli di intervento che escludono la pistola ad ogni famiglia.
Il futuro comunque rimarrà un’incognita e dunque i venditori di risposte facili non valgono un lettore di tarocchi al luna park.

Il 4 si vota e mai come questa volta vedo la discesa in un trampolino per il salto con gli sci, nel mese di agosto. La mia amica Barbara, che vota da San Francisco, crede che l’eventuale vittoria di questa destra becera non ricompatterà affatto le opposizioni come sta accadendo in USA perché “Con la vittoria di Trump, qui siamo rimasti scioccati a livello viscerale. In Italia nessuno si scioccherebbe. È  questo il problema. Lì tutti si adattano.”

Avremo il futuro che ci meritiamo, anche a nostra insaputa. 

domenica 22 gennaio 2017

Da Roma la gente se ne va, è questa la novità

Il 23 dicembre risalivo l’Italia da Roma a Bologna. Nel mio senso di marcia il traffico filava liscio. Nel senso opposto era un ininterrotto serpentone di lunghi tratti di coda: 20 km da Orte, 15 sotto Firenze, poi tutta la Bologna-Firenze intasata. Tutti a casa, a tagliare panettoni o strufoli.

Sono arrivato a Roma nel 1998 per lavoro come molti altri in quegli anni, In quel periodo la migrazione verso la capitale riguardava intere tribù professionali. Da Genova si andava a Milano o a Roma. Il mio criterio di scelta più rilevante fu che da Milano si scappava nei weekend, a Roma si aspettava il weekend per goderselo con quelli che arrivavano da ovunque,

Mi accolse una città che credeva in se stessa e il faccione sorridente di Rutelli con la sua frenesia nell’inaugurare ogni cosa in fascia tricolore. Sì, di certo rozza e facilona, corrotta e rumorosa ma viva, e bellissima, piena di opportunità, dove il successivo arrivo di Veltroni la innalzò a un livello che per molti aspetti competeva con Parigi, Londra o Barcellona, con un incredibile ventaglio di attività che pompavano l’economia e ti facevano respirare un’aria internazionale.
Anche Veltroni ha perso slancio e sono poi venuti gli anni bui e restauratori di Alemanno dove l’incompetenza era scienza e i partiti come sanguisughe hanno prosciugato la vena dell’economia, del voler fare, della creatività e sul cadavere della città sono calati gli avvoltoi sempre in agguato della mafia, dei palazzinari e della rendita. E tanta mediocrità nella noia di riti stantii, la derisione del rischio in un contesto che davvero non fa una piega neppure se l’alieno gli atterra in giardino.
Della giunta attuale non vale la pena spendere parole, vista la sua irrilevanza.
Adesso la gente se ne va, è questa la novità.

Sono alcuni anni che ha preso il via un percepibile flusso d’uscita di professionisti, manager, creativi, operai, programmatori.
Persone in larga parte benestanti, in carriera, convinte che altrove si possa stare meglio, i servizi funzionino, il mercato del lavoro dia più opportunità.
Un flusso silenzioso ma  continuo, è facile coglierlo sia nelle borgate che nei quartieri borghesi.
A Roma c’è poco da fare se non vivi di rendita o di un posto nella Pubblica Amministrazione. 

Nella classe di mio figlio, una popolarissima elementare semicentrale, 5 bambini si sono trasferiti in 3 anni, solo una bimba  è arrivata, dalla Cina.
Il mio amico S. che ha accettato a Bologna un tempo determinato di 18 mesi  lasciando un indeterminato a Roma, quando mi ha visto preoccupato perché trasferiva tutta la famiglia mi ha detto "Stai tranquillo: è meglio essere disoccupati a Bologna che occupati a Roma."

Quando molti miei amici hanno realizzato di fatturare il 90% altrove, e di avere un conto aperto col Frecciarossa che valeva un affitto mensile, sono partiti con armi e bagagli, verso mete in Italia e all’estero.
Il flusso verso la città si è prima fermato e poi invertito.
In fondo il panorama dei sogni di un paio di generazioni non è più legato al territorio di residenza, specie nelle metropoli. Sì, vogliamo cambiare il mondo e sanarne ingiustizie e perversioni. Di certo è più facile farlo da una posizione comoda, in una città che funziona, con luoghi stimolanti per i nostri figli, dove la politica è attiva nella sua accezione positiva e i cassonetti vengono svuotati spesso.

Camminare per Milano e la sua dinamicità ricca di creatività allora diventa uno shock culturale; Torino e Bologna mete di molte ditte di traslochi con i loro carichi di libri, mobili e destini provenienti da Roma.

"Mbè? 'Sticazzi,"potreste giustamente obiettare, "Dal sud emigrano a milioni". 
Sì, è vero, sono altri i problemi, però percepisco qualcosa in questo fenomeno così poco raccontato che mi spinge a pensare alle cause, e poi agli effetti per me, la mia famiglia e per una città meravigliosa che in questo periodo getta nelle buche della sua anima i sogni di chi credeva in lei, che diventano occasioni mancate per tutti noi.