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lunedì 23 novembre 2015

Bruxelles: come la conosco, amo e temo.

Frequento Bruxelles con regolarità da oltre 20 anni. Ci ho studiato, sviluppato progetti, ho frequentato centinaia di convegni e riunioni. Molti cari amici ci abitano; molti sono italiani e altri nati sotto ogni bandiera. Più di una volta sono stato tentato da ipotesi di lavoro sul posto ma, conoscendola, ho sempre valutato che per uno come me i contro fossero più dei pro. Insomma, il coprifuoco di questi giorni mi turba, preoccupa ma non sorprende.

È una città diversamente importante. Molto penalizzata dalla II Guerra Mondiale, rispetto alle altre capitali europee sembra quasi anonima. Forse avrebbe avuto un percorso identitario diverso se non fosse diventata la capitale della UE con un ruolo innestato dall’alto per evitare la lotta tra le capitali che contano davvero, quasi equidistante da Londra Parigi e Berlino. Ha un ruolo prestigioso che quando ci sei puoi godere per la concentrazione di opportunità, talenti, interessi, per le politiche che vi si discutono e prendono forma.
Negli anni è diventata però un centro-servizi per l’Europa perdendo molte dei requisiti che definiscono una città come tale. Tutto questo è avvenuto sulla testa di gran parte dei suoi abitanti spesso impegnati come comprimari a pulire, nutrire, curare, coccolare il mondo dei funzionari internazionali.

È una città divisa dove i conflitti si percepiscono all’istante, e si realizza come non siano su nessuna agenda politica. Lì c’è talmente tanta politica continentale che non si sente per nulla quella del Comune o della Regione, relegata a spazi interstiziali o funzionale a far vivere bene gli ospiti di riguardo.
Non si può dimenticare come il Belgio sia stato recentemente 540 giorni senza governo. I cinici hanno detto che le cose hanno funzionato meglio così. È stata una situazione politica oltre i limiti del paradossale, in grado di minare ogni fiducia per lo Stato, barzelletta tra i più, con alcuni analisti lesti a considerarlo come modello invece che come alieno tra le democrazie e ragione di preoccupante avvelenamento delle regole dello stato sociale.

La prima spaccatura che salta agli occhi è quella linguistica tra francesi e fiamminghi. Capisci subito che il tassista all’aeroporto di Zaventem preferisce ricevere indicazioni in inglese piuttosto che in francese. Gli amici che poi incontri ti dicono chiaramente che dopo 10 anni in città non hanno bisogno di sapere una parola di fiammingo.

Poi viene la divisione tra classi, caste quasi. Su un milione circa di abitanti, 100.000 sono funzionari della Commissione, della Nato, ambasciate e altre istituzioni. Molti tra loro sono trapiantati lì da percorsi di carriera, da stipendi spropositati rispetto a impegni e responsabilità, senza alcuna ragione di sentirsene veri cittadini. Non parliamo dell’1% di privilegiati caro a OccupyWallStreet ma di un 10% che nei fatti occupa tutto quello che di qualità esiste e succede in città. Per anni ho percepito dei miglioramenti alla qualità della vita, ora comprendo che a migliorare erano gli aspetti che volevo vedere: rispetto al passato si mangia molto meglio, ci sono mostre strepitose, trovi gli antiquari più interessanti d’Europa, tutto però per gli occhi e le tasche del solito 10%. Non è certo colpa delle persone che vi abitano ma la sproporzione tra i numeri segna a fondo il tessuto sociale.
La città è violenta, lo percepisci appena esci dalle quattro vie della movida (e a volte anche lì). Molti amici mi raccontano fatti di violenza quotidiana che – ad esempio – a Roma sono rarissimi. Vengono vissuti come parte naturale dello stare in città. Il Belgio è nelle prime posizioni in Europa per quasi ogni categoria di crimini (se avete perplessità in merito navigate questa mappa. o altre dello stesso genere da dati ufficiali).
C’è fin una separazione architettonica: cemento e vetro stanno radendo al suolo gli spazi e i quartieri tradizionali con una violenza e disarmonia rara e colpevole. Dopo un po’ che ci vai hai la sensazione che sia giusto e siano le abitazioni 'normali' a disturbare la scale e la possenza delle sedi del potere.

C’è un evento in particolare, gli OpenDays, a cui partecipo ogni anno: 5000 persone di  tutta Europa prendono parte in una settimana a centinaia di seminari che si tengono in parallelo in decine di sedi in tutta la zona delle istituzioni UE. È bello e utile prendervi parte. Ogni due ore ci si mette in movimento e un fiume di persone sciama da un posto all’altro, tutti col badge al collo, sciarponi di lana e voglia di capire il futuro. Negli ultimi anni, per questa transumanza da una sala all’altra, ho più volte scelto i percorsi più brevi e non quelli consigliati; a 200 metri dalla cittadella della Commissione ho trovato gli avamposti della città “di sotto”. Quartieri dove gli onnipresenti e sterili bistrot biologici con frullati al rabarbaro e mango cedono spazio a self service bisunti con menu completo a 7 euro, le boutique setose a rassegne di poliestere al 100%, i bar sono affollati di uomini nullafacenti e le donne non appartengono al panorama.

Sarà difficile ripartire, dire cosa sarà la città dopo il coprifuoco. Una strada può essere quella della polizia, di muri e divisioni sempre più alte e presidiate da videocamere e filo spinato, l’altra guardare invece alla costruzione di ragioni nuove e condivise del vivere assieme. Di certo occorre una forte guardia perché questo processo superi la fase embrionale, nei convegni della UE la chiamerebberro 'resilienza', una politica legittimata dagli abitanti che lavori per unire e sappia arginare Commissione Europea, costruttori e multinazionali, capace di creare pari opportunità per tutti. 

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