Interessanti le due affermazioni del ministro Poletti
rifilate in un paio di giorni: “Laurearsi
a 28 anni con 110 e lode? Non serve a niente: meglio a 21 con 97″; “Dovremmo
immaginare contratti collettivi che non abbiano come unico riferimento le ore lavorate“
E ieri, si è aggiunto Boeri, presidente di INPS, col suo “I nati negli anni 80 andranno in pensione
dopo i 70 col 25% in meno di pensione” che riflette nei numeri cosa succede
iniziando a lavorare a 30 anni con contratti che non prevedono quasi contributi
versati.
Ci sono stati sindacalisti indignati pronti a sollevare argomentazioni che mai
hanno parlato alla maggioranza di cittadini. Ho letto di docenti o genitori
affermare senza timore del ridicolo che la colpa è solo dell’università se i
giovani hanno dei problemi a laurearsi. Poi c’è chi accusa il ministro di fare
il gioco delle aziende sfruttatrici di mano d’opera, o di – semplicemente – non
capire nulla del mondo reale. Sulla questione previdenziale pochi i commenti,
anche perché tre sono le soluzioni: ricalcolare le pensioni di chi già le
percepisce, rendere più efficiente la pubblica amministrazione e far pagare i
contributi a chi non paga, tutte talmente impopolari che qualsiasi politico,
sindacalista, confederazione, preferisce aspettare il 2040 quando ci sarà la
rivoluzione dei sessantenni in povertà.
Quasi tutti i commenti svicolano il succo delle questioni
con depistaggi paraculi tipo: “Il
ministro offende chi si laurea a 28 anni perché nel frattempo lavora!”, “Vorrei vedere il lavoro di un infermiere o
di una sarta non legato al tempo!”
In fondo sono tutte ovvietà che per come vengono poste non danno
risposte a nulla. A mio avviso emerge forte la necessità di ripensare
completamente l’idea stessa di cosa sia la formazione e cosa il lavoro, per
tutti (e non arroccarsi sulle mosche bianche col tempo indeterminato).
Quelle di Poletti sono due frasi brevi che dovrebbero
sollevare piuttosto una lunga teoria di “dipende”,
“è vero ma…”, distinguo ragionati che
diano il senso di una società e di una economia complesse in cui permangono, ad
esempio, molte professioni in cui il tempo contingentato da un contratto è
centrale sia per la prestazione che a garanzia del lavoratore, e molte altre in
cui è del tutto evaporato, in cui l’orario è una gabbia antistorica e nei fatti
impedisce il lavoro di qualità e lo svolgimento stesso delle attività.
Le tre affermazioni, per caso o per scelta, solo connesse al
Tempo. Forse è intorno a questo che
la riflessione può trovare corpo. Da
almeno 20 anni è finito lo schema che separava i tempi della vita attiva in studio-lavoro-pensione.
Gli ambiti oggi si compenetrano, si alimentano, si sviluppano secondo schemi
non più lineari (una volta: studio ragioneria = farò il ragioniere). Per la
stessa ragione non ci si indentifica più in una professione e in una categoria
(questa è una delle ragioni per cui il sindacato non è più vissuto come
rappresentativo). Ci si riconosce
professionalmente sulla base delle competenze possedute e della forza che si ha
di generare opportunità. Si muta pelle su base annuale, e per farlo si
sviluppano competenze acquisite con percorsi di apprendimento lungo tutta la
vita, in luoghi diversi, con modalità varie, non necessariamente certificate o
certificabili. Alla pensione non si pensa, per non intristirsi, nella speranza di
mettere da parte un gruzzolo che non ti faccia sentire dipendente dal poco che
forse riceverai indietro dallo Stato dopo i 70 anni.
È complicato, non si è educati né formati per ragionare in
questi termini, per avere cura e manutenzione del proprio futuro professionale.
Si perdono un mucchio di anni senza un progetto, come senza un progetto paiono
le università, molte aziende.
Riprogettare il futuro, questa secondo me è la
sfida a cui puntano le tre frasi citate.
Tocca a tutti ma di certo è troppo gravoso per il singolo farlo su larga
scala
Dovrebbe essere la missione di
qualsiasi organismo di rappresentanza che a partire dalle esperienze virtuose
dei singoli e dei piccoli gruppi dovrebbe diffondere i modelli e le soluzioni.
E se non si parte dal fatto che le disparità oggi sono tropo grandi per essere
reiterate nel futuro non si va da nessuna parte.
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