Pagine

mercoledì 2 dicembre 2015

Sul tempo del lavoro, quello dello studio e quello della pensione.

Interessanti le due affermazioni del ministro Poletti rifilate in un paio di giorni: “Laurearsi a 28 anni con 110 e lode? Non serve a niente: meglio a 21 con 97″; “Dovremmo immaginare contratti collettivi che non abbiano come unico riferimento le ore lavorate“
E ieri, si è aggiunto Boeri, presidente di INPS, col suo “I nati negli anni 80 andranno in pensione dopo i 70 col 25% in meno di pensione” che riflette nei numeri cosa succede iniziando a lavorare a 30 anni con contratti che non prevedono quasi contributi versati.
Ci sono stati sindacalisti indignati  pronti a sollevare argomentazioni che mai hanno parlato alla maggioranza di cittadini. Ho letto di docenti o genitori affermare senza timore del ridicolo che la colpa è solo dell’università se i giovani hanno dei problemi a laurearsi. Poi c’è chi accusa il ministro di fare il gioco delle aziende sfruttatrici di mano d’opera, o di – semplicemente – non capire nulla del mondo reale. Sulla questione previdenziale pochi i commenti, anche perché tre sono le soluzioni: ricalcolare le pensioni di chi già le percepisce, rendere più efficiente la pubblica amministrazione e far pagare i contributi a chi non paga, tutte talmente impopolari che qualsiasi politico, sindacalista, confederazione, preferisce aspettare il 2040 quando ci sarà la rivoluzione dei sessantenni in povertà.
Quasi tutti i commenti svicolano il succo delle questioni con depistaggi paraculi tipo: “Il ministro offende chi si laurea a 28 anni perché nel frattempo lavora!”, “Vorrei vedere il lavoro di un infermiere o di una sarta non legato al tempo!

In fondo sono tutte ovvietà che per come vengono poste non danno risposte a nulla. A mio avviso emerge forte la necessità di ripensare completamente l’idea stessa di cosa sia la formazione e cosa il lavoro, per tutti (e non arroccarsi sulle mosche bianche col tempo indeterminato).
Quelle di Poletti sono due frasi brevi che dovrebbero sollevare piuttosto una lunga teoria di “dipende”, “è vero ma…”, distinguo ragionati che diano il senso di una società e di una economia complesse in cui permangono, ad esempio, molte professioni in cui il tempo contingentato da un contratto è centrale sia per la prestazione che a garanzia del lavoratore, e molte altre in cui è del tutto evaporato, in cui l’orario è una gabbia antistorica e nei fatti impedisce il lavoro di qualità e lo svolgimento stesso delle attività.

Le tre affermazioni, per caso o per scelta, solo connesse al Tempo. Forse è intorno a questo che la riflessione può trovare corpo. Da almeno 20 anni è finito lo schema che separava i tempi della vita attiva in studio-lavoro-pensione. Gli ambiti oggi si compenetrano, si alimentano, si sviluppano secondo schemi non più lineari (una volta: studio ragioneria = farò il ragioniere). Per la stessa ragione non ci si indentifica più in una professione e in una categoria (questa è una delle ragioni per cui il sindacato non è più vissuto come rappresentativo). Ci si riconosce professionalmente sulla base delle competenze possedute e della forza che si ha di generare opportunità. Si muta pelle su base annuale, e per farlo si sviluppano competenze acquisite con percorsi di apprendimento lungo tutta la vita, in luoghi diversi, con modalità varie, non necessariamente certificate o certificabili.  Alla pensione non si pensa, per non intristirsi, nella speranza di mettere da parte un gruzzolo che non ti faccia sentire dipendente dal poco che forse riceverai indietro dallo Stato dopo i 70 anni.
È complicato, non si è educati né formati per ragionare in questi termini, per avere cura e manutenzione del proprio futuro professionale. Si perdono un mucchio di anni senza un progetto, come senza un progetto paiono le università, molte aziende. 

Riprogettare il futuro, questa secondo me è la sfida a cui puntano le tre frasi  citate.

Tocca a tutti ma di certo è troppo gravoso per il singolo farlo su larga scala
Dovrebbe essere la missione di qualsiasi organismo di rappresentanza che a partire dalle esperienze virtuose dei singoli e dei piccoli gruppi dovrebbe diffondere i modelli e le soluzioni. E se non si parte dal fatto che le disparità oggi sono tropo grandi per essere reiterate nel futuro non si va da nessuna parte.

Nessun commento:

Posta un commento