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venerdì 11 gennaio 2013

In memoria di Fabrizio de André: la mia piccola storia di quel giorno.

14 anni fa era il l’11 gennaio del 1999. In quel periodo lavoravo talmente a testa bassa da ignorare quasi l’esistenza del mondo che mi circondava. Ero a Roma ormai da quasi un anno. Il mio ufficio di  allora era proprio dietro la fontana di Trevi. Sbucando in Piazza Barberini dalla Metro, ero ogni mattina inebriato dalla possibilità di lavorare in uno dei più bei posti del mondo. In quei mesi, l’azienda che ero stato chiamato a dirigere aveva cominciato a crescere. L’impresa era per me titanica, ogni giorno diverso, ero talmente concentrato sugli obiettivi da dimenticare spesso di mangiare per pranzo, e da crollare sul letto la sera senza accendere neppure la tv.
Fu dunque solo il 12 mattina, passando davanti alla redazione del Messaggero, dove scroccavo sempre la lettura delle prime pagine in bacheca, che lessi il titolone “Addio Bocca di Rosa”. Fabrizio de André era morto il giorno prima.
Il mio corpo continuò a muoversi verso l’ufficio ma un cataclisma dentro mi annodava il cervello con le viscere e in breve mi ritrovai a gocciolare come un rubinetto spanato. Piangevo, senza così evidenti ragioni, senza proporzione con la notizia avvenuta in un mondo lontano da me, senza fitte o dolori, e soprattutto senza sosta. I perché mi sfuggono in gran parte ancora ora, forse perchè per me è bello ignorarli.
Ok, “Creuza de Ma” e “Anime Salve” sono i due più bei dischi della storia della musica, la sua voce di pietra ascoltata al Carlo Felice mi era rimasta calcata dentro come un calcolo renale inoperabile, la sua distanza e e il suo amore per Genova (e amore favorito dalla distanza) mi trovavano solidale e partecipe. Ma null’altro. Non mi era nemmeno particolarmente simpatico e, quel giorno, su due piedi, non l’avrei messo tra i miei 'cantanti preferiti'.
Superai l’ingresso dell’ufficio per andare a piangere più comodamente e senza imbarazzanti sguardi sui gradoni in marmo davanti a Fontana di Trevi. È un posto bellissimo, e d’inverno, col sole, alle 9, con pochi turisti mattutini e i pizzardoni svogliati, vale la vita stessa.
Lì, aspettai per una ventina di minuti che i miei occhi spiovessero finché in qualche modo  fui di nuovo presentabile. Bene, mi confortai, hai finito e ora può cominciare la giornata. Raggiunsi l’ufficio. Strinsi il nodo alla cravatta e entrai salutando i colleghi, e conquistando rapido la mia stanzetta.
Chiusa la porta, respirai a lungo per sintonizzarmi di nuovo con l’agenda della giornata ma non avevo messo in conto che nulla resiste al cuore, specie a Roma dove - vi assicuro - può essere davvero molto grande quando meno te lo aspetti. Dopo pochi minuti la porta si apre senza che nessuno bussi. Ed eccoli, tutti assieme, Alessandra, Natascia, Massimo, Jacopa, Chiara, tutti raccolti per farmi le condoglianze. Loro, a me.
Il perché di nuovo non me lo chiesi perché era allo stesso tempo ovvio e inspiegabile. Mi dissero del loro dolore la sera prima. Che si sentivano tutti più poveri. Quella specie di condoglianze arrivava perché avere un genovese per le mani a Roma non è cosa frequente, e i sentimenti acquistano più valore quando dei simboli in carne e ossa possono creare dei legami con l'immaginario.
Volevano sapere. Tutto di lui. Quasi che tra me e Fabrizio de André ci fosse qualche legame genetico. Avevo poco: aneddoti di seconda mano, ricordi di concerti, incontri nei carruggi quando lui stava già male. Mi chiesero allora di Genova, come se la città e l’uomo coincidessero.
Non era il mio cantante preferito, era Fabrizio de André, di una categoria a parte.
E ancora oggi non so bene cosa mi succeda dentro quando ascolto o scrivo di lui.

Grazie, alla vita che mi ha dato Faber,

1 commento:

  1. ... mi ha dato i piedi che sto trascinando con loro ho guardato cittadine e fango....

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