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giovedì 15 luglio 2021

Ne è INVALSa la pena?

I risultati dei test INVALSI 2021 appena pubblicati mostrano come quasi la metà dei maturati di quest’anno non abbia sufficienti competenze in lingua italiana, simili drammatici risultati anche nelle materie scientifiche, con situazioni tragiche nel sud Italia.

Siccome ogni anno scrivo almeno un post antipatico, stavolta la voglia mi arriva da questa notizia che completa il dato, sempre sottotraccia, che a leggere almeno 1 libro all’anno è solo il 42% degli italiani.


Il tema mi appassiona per una serie di ragioni che vanno dal mio interessamento per le dinamiche del mercato del lavoro, l’essere docente a molti corsi per adulti, essere genitore, essere preoccupato per la tenuta democratica del Paese, al voler raccogliere per mesi i segnali che arrivano dalle mie reti.

Ammetto di avere un rapporto difficile con i docenti sul tema dell’INVALSI. Gli insegnanti dei miei figli hanno spesso ‘obiettato’ ai test non facendoglieli proprio fare (come se si trattasse di una scelta di coscienza come l’aborto), coperti in questo da presidi che certo non li hanno bacchettati. Negli anni, ho raccolto ogni tipo di obiezione al valutare la formazione, come se si trattasse di un’attività esoterica incomprensibile a chi non entra in classe. Da incontri con sindacalisti della scuola ho poi capito che l’obiezione non è all’INVALSI ma all’idea stessa che la valutazione sia lecita e possibile.

Sarà che come docente ad adulti sono costantemente valutato sia in maniera formale che informale, ma ho sempre trovato puerili queste argomentazioni, veri alibi che indeboliscono molto la credibilità dell’intera categoria. Viaggiando in Europa come esperto Cedefop ho visto come in altri Paesi siano normali: la valutazione esterna, quella tra pari e quella fatta dall’ispettore che entra in classe a sorpresa una volta l’anno, si siede in ultima fila e per un’ora valuta COME insegni. Perché la valutazione non ha nulla a che vedere con la libertà di insegnamento, non si tratta di COSA insegnino i docenti ma interviene nel COME questo avviene. (Per il PERCHE’ lascio la valutazione alla coscienza di chi sale in cattedra)

Come risposta a questa tragedia, la ministra annuncia che assumerà 140.000 insegnanti in 2 anni, senza il dubbio che – visto l’impressionante numero di bocciati agli esami di abilitazione - forse neppure ci siano oggi così tanti docenti non ancora di ruolo in grado di fare bene quel lavoro. Non accenna purtroppo a come diminuire gli alunni per classe, neppure a come formare gli insegnanti che già ci sono, magari con schemi di formazione tra ‘pari’. Non parliamo della formazione dei dirigenti, nati spesso formati per investitura divina. 

Se poi vogliamo volare più alti ecco come la divisione Licei/ Istituti tecnici/ Professionali sia sempre meno adatta al reale, come oggi le competenze digitali siano abilitanti al pari della matematica, italiano e inglese e i ragazzi sono lontanissimi dal possederle.  (certo, ci stupiscono per come sanno usare le app, ma è lo stesso tipo di competenze che stupiva i nostri genitori quando sapevamo usare il videoregistratore: cioè competenze operative che rispondono a mere necessità). Rari sono i presidi preparati per il ruolo, nulli sono gli incentivi ai docenti migliori. Nel dibattito ci si perde nella visione profetica degli ITS, che sono pochi, poco conosciuti, poco finanziati, vere chimere, e non si parla mai (ad es.) del vero buco nero rappresentato dalle scuole medie, dai loro programmi, dalle classi-pollaio, dall’inadatta didattica frontale a oltranza su quell’età.

Non si evidenzia da nessuna parte delle grandi, sterminate, responsabilità che ha l’Università in merito a questa vera tragedia sociale. Il dramma è che l’Accademia non ha niente da dire: è afona, senza temi, lontana dalla società e dall’economia, incapace anche solo di pensare di quali insegnanti e insegnamenti ci sia bisogno. Ci sono, certo, alcune eccezioni ma ininfluenti per ruolo e capacità politiche. Se ne è accorto il mercato della consulenza (‘se vuoi perdere tempo chiama un professore universitario…’) e quello dei convegni dove sono sempre meno i prof invitati a parlare (specie ora con i webinar dove le persone ci mettono un attimo a ‘cambiare canale’ se il relatore pesta acqua nel mortaio). Il paradosso è che il mondo ha enorme necessità di bravi docenti in grado di abilitare al XXI secolo, con programmi interdisciplinari sempre più diffusi, avvalendosi con intelligenza delle tecnologie digitali disponibili, in contesti che premino le competenze e i risultati (dei ragazzi, dei docenti, dei dirigenti).

Nuove richieste di competenze si rivolgono soprattutto alle facoltà umanistiche, artistiche, sociali, che oggi creano migliaia di figure irrisolte che non riescono a concretizzare i loro talenti e passioni a meno che non si lancino in master costosissimi e classisti o percorsi di apprendistato che li portano al prima stipendio non prima dei 30 anni. Con la mortificazione, il calo di motivazione, lo spreco di cellule neuronali diffuso tra chi non può permetterseli o non vuole lasciare il Paese.

Lo so, vi ho portato a spasso in un post che pone molti problemi e propone quasi zero. Mi scuso. Perché da soli, senza la politica attenta al tema, con resistenze pazzesche dello status quo, senza coraggio amministrativo e organizzativo, non ce la si può fare.

Se volete aggiungere riflessioni, scrivete qui sul blog, su FB o su Linkedin dove posterò il testo.


domenica 7 marzo 2021

Se la pandemia fosse un film.

Non si può continuare a dire che l’emergenza giustifica la disattenzione al Fattore Umano in questa pandemia. Si riconduce la perdita di lavoro, le morti, l'anafettività, la mancanza di libertà personali a fattori tecnici. Da mesi, tutti gli interventi si concentrano su fondi, ristori, vaccini, mascherine, sussidi, banchi: tutte dimensioni economiche, logistiche e sanitarie legittime ma insufficienti a sostenere la coesione sociale.


Già, la coesione sociale è la forza  che ci unisce nelle avversità, che mantiene i più sfortunati in relazione con la comunità e con le opportunità, che non spegne la speranza, che alimenta sogni e motivazioni. È il motore che muove a risolvere i problemi e non solo a competere per il proprio pezzo di pane.

Occorre una politica che riconsideri il ruolo della compassione, dell'empatia, il sostegno morale e psicologico, il corpo inteso non solo come oggetto da salvare dal virus ma patrimonio, protagonista, luogo della psiche.

Mi pare di vivere in un brutto film tutto muscoli e scazzottate, dove la regia non presta nessuna attenzione alle emozioni, e se non cambia la trama non prevedo lieti fine. Nella migliore delle ipotesi: saremo tutti vaccinati e arrabbiati perchè impauriti e soli.  

A volte mi sembra un film dove ciascuno decide quale genere debba avere la trama.

  1. Se amate il film d’Azione, vi consiglio di trovarvi a Roma ogni sabato verso le 18. In Piazza del Popolo va in scena la rissa tra bande adolescenti ben vestite e gioiosamente desiderose di far qualcosa di fisico, fico, instagrammabile e raccontabile nei fuori onda della didattica a distanza. Sono ragazzi isolati, impauriti, assenti dal discorso politico. Sembra quasi che nei talk show vi sia un dictat che imponga di non parlare mai di loro, del fallimento del sistema educativo, della solitudine. L’intero fondo Next Generation EU da noi è stato ribattezzato Recovery Fund, perché la parola ‘Generazione Futura’ suona forse scandalosa. Sono lì, senza scuola, palestre, serate, spazi propri, scoperte, sessualità. Stanno cambiando, come noi adulti ma senza la memoria sul passato: alcuni si interrogano sul futuro e attivano strategie di resilienza; altri scelgono l’isolamento, alcolico e virtuale; c’è chi viola le regole; chi si organizza per dire no; chi vuole solo essere ascoltato.
  2. Se amate il genere Paradossale invece fate finta di essere un alieno messo di fronte alla DAD in una scuola impreparata, abbandonata, non formata, non tecnologica, isolata da anni di politiche scellerate, corporazioni antistoriche, dove tutto è scaricato su alcuni professori volenterosi avviluppati da regole folli. Un mondo incapace di organizzarsi, che ha buttato l’estate a comprare banchi monoposto invece di dotarsi di infrastrutture e competenze digitali, che ha blaterato di uso di musei, parchi, cinema e teatri per far lezione e poi si è arresa e lascia cadere gli ultimi nel baratro dell’abbandono scolastico.
  3. Se comprendete il Surrealismo osservate da vicino quei musei e teatri e cinema che sono stati chiusi nonostante si fossero ben attrezzati per garantire servizi in maniera conforme, a differenza di autobus, negozi e centri commerciali insicuri e affollati. In Canada e in Inghilterra i medici possono prescrivere arte e musei per curare ansia e solitudine con la bellezza; da noi è stato avvilente sentire che senza turisti non serve tenerli aperti, offendendo la Storia dell’Arte, le migliaia di persone che lavorano nel settore e i milioni di italiani che credono che la cultura serva a trovare risposte, a godere, e non solo a fatturare tramezzini e cartoline made in China.
  4. Se sbavate per l’Horror invece provate a pensare cosa potrà succedere alla fine del blocco dei licenziamenti e alla fine della cassa integrazione: misure di certo doverose che hanno sospeso in una bolla centinaia di migliaia di persone e non si sono poste il problema di mantenerne accesi i cervelli, formarli alla transizione digitale, ai temi della sostenibilità. Migliaia di negozi chiudono e noi vediamo solo le merci spostarsi su Amazon, perdendo di vista chi le vendeva, chi presidiava il territorio, chi ha ceduto il progetto di una vita alle offerte delle mafie e degli usurai.
  5. Se amate la Distopia, buttate un occhio critico alla diffusione dello smart working senza regole. Con la fine dell’orario di lavoro, il controllo a distanza, la distanza dal senso delle proprie attività, l’assenza dello scambio, la mortificazione dell’innovazione, la ricerca delle scuse per andare ogni tanto in ufficio. Un mondo muore e mille micromondi cercano di trovare un equilibrio. Il sindacato boccheggia perché la perdita della relazione annulla la corporazione, e l’immaginazione è stata anestetizzata da decenni. 
  6. Se non disdegnate il genere Romantico, infine, immaginate come la fine del contatto stia influendo sulle nostre capacità affettive. Ovviamente è l’ambito in cui le regole sono meno rispettate e quello di cui non si parla, per pudore e ipocrisia. In Austria e Francia il governo ha proprio detto: se siete soli individuate due persone che decidete di frequentare, la vostra ‘bolla’. In tre per parlare, sostenersi, ridere, litigare e fare l’amore: perché siamo umani e non bisogna dimenticarlo.
Tanto è impossibile cambiare canale.

venerdì 8 maggio 2020

Le ragioni (degli altri) per tornare presto in Italia


 Il giornalista Tim Jepson su The Telegraph ci ha dedicato pochi giorni fa un lungo articolo su: “20 Ragioni per tornare in Italia quando sarà finalmente finita”.
L’articolo è molto ricco di spunti, con sprazzi di humor, e interessantissima è la classifica del giornalista che – a mio avviso – stravolge molti dei luoghi comuni sull’idea che abbiamo di noi stessi e su quella che hanno gli altri, gli inglesi nel caso, ma si potrebbe estendere per cuginanza anche a americani e scandinavi).

Alcune testate italiane lo hanno ripreso e, per classica pigrizia, si sono fermate alle prime posizioni. Senza commento. Io penso che le ultime siano anche più importanti.
Va preso come il punto di vista di un attento osservatore che ha vissuto a lungo in Italia. Un utile confronto, anche sfacciato, per chi si occupa di sviluppo e cerca di capire in quale direzione andare.

Mi permetto dunque di ribaltare l’articolo partendo dal 20-esimo posto in classifica. 
Dopo ogni ragione, riporto tradotte alcune parole di accompagnamento dall’articolo originale. Segue poi un mio breve commento in corsivo:

20. Toscana
Tutto ciò che serve a fare una bella vita è qui: città eleganti  e città piene di arte e cultura - Firenze, Siena e Lucca e gemme più piccole come Pienza, Sovana e Cortona; cibo delizioso; ottimo vino; e panorami incantevoli.
Sì, la Toscana rimane un cliché che ricorda il fiasco di vimini i filari di cipressi, la bellezza e l’eleganza. L'inglese Chiantishire. È l’unica regione italiana con un vero Brand internazionale costruito in un altro secolo su bisogni però evidentemente ancora attuali come l'eleganza, il silenzio, il panorama. Altre ci provano molto  distanziate, gettando soldi, perché si muovono con strategie  alla rinfusa con progetti deboli e campanilistici.

19. Le antichità
Altri paesi possono rivendicare rovine romane - un anfiteatro qui, le mura di Adriano lì - e la Grecia non ha carenza di monumenti per il suo antico passato. Ma l'Italia ha le rovine greche - in particolare i templi e i teatri siciliani di 2000 anni fa – e i resti di 1.000 anni di storia romana.
Niente da dire, tranne che il mondo antico finito è al 19-esimo posto… forse non siamo tanto bravi a renderle più interessanti?

18. Arte diffusa
In Italia, più di qualsiasi altro paese europeo, l'arte straordinaria si trova ancora nei suoi luoghi originali. La Cappella Sistina e l'Ultima Cena di Leonardo sono gli esempi più famosi, ma che dire della Basilica di San Francesco ad Assisi, dove Giotto, Cimabue e Simone Martini hanno cambiato la direzione dell'arte occidentale?
Niente da dire anche qui, le città d’arte sono al 18-esimo posto tra le ragioni… Non diciamo sempre che gli stranieri amano le città d’arte? O forse lì ci vanno perché nelle città d’arte c’è altro di interessante, come spazi alla qualità della vita, al sogno? Si parla di Turismo Culturale a scatola chiusa, cosa c'è dentro? Forse poca cultura classicamente intesa e tanta voglia di essere protagonisti della propria fiaba a cui trovare scenografie ideali e iconiche. 

17. Molti Musei
L'Italia ha molte gallerie d'arte di livello mondiale - Uffizi a Firenze, Accademia a Venezia, Brera a Milano e collezioni Vaticane a Roma. In città apparentemente modeste ci sono opere che sarebbero delle stelle altrove. La Galleria Nazionale di Perugia, ad esempio, è ricca di opere umbre; o Carrara a Bergamo; Palazzo Ducale di Urbino; Galleria Regionale di Palermo, Pinacoteca di Siena; Museo Civico di Vicenza e altro.
Finiti sono al 17-esimo posto… questo ultimi tre suonano come campanelli d’allarme nella mia testa. Arte, musei, belli sì, ma sullo sfondo delle vere ragioni per venire in Italia. Perché il signore inglese è ignorante? O disattento? O perché è solo umano e contemporaneo e non si vergogna a scrivere quello che gli italiani si vergognano a dire? Negli ultimi due anni, a Roma, ho sempre camminato in musei vuoti ad ogni giorno (tolti Colosseo e Vaticani dove ti tocca andare per timbrare il cartellino di turista)

16. Gemme costiere
L'Italia non è ovunque superlativa. Le spiagge, ad esempio - tranne in Sardegna - non sono tra le migliori. Ma c'è una bellissima costa. Amalfi e le Cinque Terre sono le più conosciute ma ci sono alternative più tranquille ma quasi altrettanto belle, specialmente al sud. In Puglia, fai del Gargano e del Salento, e in Campania, nel Cilento, sacchi selvaggi e rocciosi disseminati di splendidi villaggi.
Un’altra discreta freccia all’italico orgoglio. Mentre tra di noi ci beiamo piantando ovunque tronfie bandiere blu come a Risiko non capiamo che la competizione è internazionale, le nostre offerte sono spesso mediocri per pulizia, acqua, servizi. Surclassate da Grecia, Turchia e Croazia – solo per star vicini. Portogallo, Tunisia, per dire altri. Che le Canarie straccino la Sicilia non è un gran onore.    

15. Le isole minori
La terraferma italiana è un mosaico di paesaggi che rende facile trascurare le isole. Non ovvie come Capri, più come le Isole Tremiti della Puglia, poco note. E Ponza, o Capraia ed Elba; e le isole Eolie ed Egadi - Lipari e Marettimo in particolare - al largo della costa siciliana.
Un patrimonio da valorizzare, misconosciuto anche agli italiani, che gli stranieri apprezzano. Più dei Musei e l'arte, per dire…

14. Venezia
Il mondo sarebbe un posto molto più povero senza Roma o Firenze, ma un mondo senza Venezia? È  una città problematica, ma puoi sfuggire agli elementi più disturbanti. Venezia usa incantesimi tutto l'anno, visitala in inverno; cammina fino alla periferia, lontano da San Marco, e trascorri qui una settimana, più se puoi, per scoprire la sensazione di una città che vive al di là delle cartoline.
Una Venezia luci e ombre. Vi dico già che è l’unica città citata in classifica, no Roma, né Firenze. Che occorra forse puntare più sulle risposte che un luogo è in grado di dare invece che sul catalogo di monumenti, palazzi e musei?
Quello che cerchiamo a venezia è il silenzio, spesso incubatore dell'amore, il resto è turismo di massa.

13. Architettura
Hai bisogno di più vite per godere lo straordinario patrimonio dell'architettura italiana. Ogni città in Italia ha tesori: chiese romane, gotiche o barocche; un monastero; Monumenti romani o etruschi; piazze medievali; un palazzo rinascimentale.
Grazie, verrebbe da dire. Architettura in quanto tale. Una parola chiara e semplice. Potremmo magari provare a raccontarla come luogo del lavoro, della vita, dell’anima, dei ricordi. Ci aiuterebbe forse anche a migliorarla e a sentirla come uno strumento che genera felicità.

12. La Moda
Come tutti, gli italiani indossano  abbigliamento per il tempo libero a buon mercato e gli standard di moda non sono come quelli di Armani, Valentino, Prada, Versace, Schiaparelli, Pucci, Gucci, Fendi, Ferragamo e molti altri. Puoi acquistare i grandi nomi a Milano, Firenze e altre grandi città, senza  trascurare i centri più piccoli come Como per la seta, Biella per il cashmere e Cogne per il pizzo.
Bello che il Made in Italy irrompa, quasi come arte pop contemporanea tra le ragioni per venire da noi. Valorizziamolo portandolo a sistema! Un buon esempio è la Motor Valley dell’Emilia Romagna


11. Le Montagne
Molti paesi hanno montagne, ma solo l'Italia ha le Dolomiti, le più incredibili  d'Europa. E solo l'Italia ha l'Etna, il vulcano più alto e più attivo d'Europa, e non una ma due grandi catene montuose: le Alpi e la lunga spina dorsale centrale dell'Appennino, con lupi e orsi e vedute che spaziano dalle Alpi Apuane seghettate in Toscana nella vasta regione selvaggia dell'Abruzzo.
Quindi montagne citate, mare e spiagge no. Forse l’autore è la classica mozzarella che preferisce le vette però, in tempo di postCovid la solitudine dei sentieri batte la caciara delle spiagge tre a zero. Facciamoci magari una pensata su…

10. La setta del caffè
Oggi possiamo comprare lattes, caffè espresso, macchiato e cappuccino ovunque nel mondo. Sono parole e bevande che vengono dall'Italia. In ogni bar italiano trovi un caffè incredibile, da sempre, da molto prima dell'arrivo di Starbucks. Lasciati coccolare dal rituale dell’esperienza italiana - in piedi al bar, non seduto, per esempio; o al vetro; e non bere mai il cappuccino dopo mezzogiorno ...
Bologna è da poco entrata in alcuni itinerari sull’asse Venezia-Firenze-Roma. Quando chiedo ai turisti americani che città abbiano preferito si illuminano “Bologna! It’s the best. You can walk easily, sit for a coffe watching people and having a wonderful aperitivo in the evening”. Ecco, giusto per dare un’occhiata più vicino alla piramide dei bisogni di Maslow.

9. Buon bere
Nessuno pretende che il vino italiano sia il migliore al mondo, anche se negli ultimi anni sono emersi nuovi produttori e numerosi vini innovativi. I vecchi nomi sono stati rivitalizzati (Chianti, Valpolicella, Soave) e si sono uniti a vino molto rispettati (Barolo, Barbaresco, Brunello). La Sicilia è una potenza emergente, così come la Franciacorte in Lombardia e Bolgheri sulla costa toscana. Se il vino non è piacevole, ci sono bevande alcoliche come grappa, Cinzano, Campari, limoncello, Sambuca - e alcuni famosi cocktail (Negroni, Bellini).
Equilibrato quadro che evita stupidi confronti con i fantastici francesi e i magnifici cileni o australiani ma va dritto alla nostra infinita varietà. Poi, rispetto a casa loro, qui da noi il rapporto qualità/prezzo non ha eguali.

8. Cucina di classe mondiale
Non francese, non elegante, ma in qualche modo perfetto: il cibo italiano è salutare; gli ingredienti - carne, pesce, frutta, verdura - freschi; la qualità è di prima classe; ci sono grandi variazioni regionali e la cottura è veloce e semplice.
Chiaro? Anche qui lasciamo perdere panzane non misurabili come “La migliore del mondo”. Piacciamo per salubrità, ingredienti, facilità. Siamo grandi, un ottomila, assieme a una manciata di altri.

7. Opera
L’Opera è italiana, così come la maggior parte dei grandi compositori: Verdi, Rossini, Puccini, Monteverdi, Bellini, Donizetti. L'Italia ha anche due dei teatri lirici più famosi al mondo - La Scala e La Fenice - e bellissimi teatri si trovano anche a Bologna, Palermo, Treviso, Prato e Ferrara.
Settima ragione per tornare da noi, magari una ragione in più per farla ripartire e portarci pure gli italiani in questa estate post-Covid

6. Attrazione sui laghi
Poeti e pittori hanno celebrato il Lago italiano per secoli, e non c'è da meravigliarsi, perché rappresentano alcuni dei panorami più belli d'Europa. Giardini lussuosi e splendidi villaggi adornano le loro spiagge con clima mite, con pendii boscosi e Alpi innevate sullo sfondo. Maggiore e Garda sono i più visitati, i più belli di Como; Iseo e Orta sono i più calmi.
Gli inglesi amano molto i laghi, non dimentichiamolo. Forse noi li amiamo ancora troppo poco.

5. Una bellissima lingua
Tutto suona meglio in Italiano. È  il linguaggio dell'amore, della musica e nulla si avvicina se vuoi sapere qualcosa. Anche se capisci a malapena una parola, le chiacchiere in qualsiasi contesto sono un altro promemoria che ti trovi in ​​un paese piacevole. E a differenza di altri paesi – come la Francia - gli italiani sono contenti che tu abbia provato, per quanto in modo terribile, a parlare la loro lingua.
Un asset fantastico e polveroso. Poche iniziative davvero contemporanee che escano dal coro e diano valore (e creino fatturato) a partire da cosa abbiamo sulla punta della lingua.

4. Attività all'aperto
Comprensori sciistici di livello mondiale. Puoi andare in canoa, vela, kayak e immersioni. O coccolarsi a piedi, e andare in bicicletta in Toscana e in Umbria o trekking e circuiti di più giorni su percorsi a lunga distanza nelle Alpi e nelle aree circostanti. E che dire del parapendio in Umbria, del rafting in Calabria o del monitoraggio dei lupi in Abruzzo?
Eccoci con le Esperienze. Ben piazzate. Non tradizionali. All'aperto e dunque perfette per il distanziamento e per l'ossigenazione. Da sviluppare ORA e vendere per un turismo destagionalizzato, lento e sostenibile.

3. Borghi storici
La Toscana e l'Umbria ce l'hanno in abbondanza, ma ogni regione ha le sue: i miei favoriti includono Sulmona in Italia Abruzzo; Enna, Erice e Noto in Sicilia; Matera in Basilicata; Tropea di Calabria; Ostuni in Puglia; Ascoli Piceni nelle Marche; Ravenna di Emilia-Romagna; Camogli in Liguria. L'elenco è lungo ...
Siamo al podio! E con una bella carta da giocare. Moltissimo potenziale per soddisfare i bisogni dei clienti e dei territori. Far rivivere i borghi significa sviluppo, stop all’emigrazione, attrazione di talenti (soprattutto se anche lì fai arrivare la fibra ottica)  

2. Giardini gloriosi
I giardini sono ovunque in Italia, dalle ville venete e del lago Italia a nord agli uliveti ombreggiati in Toscana e al cortile siciliano profumato al limone a sud. I favoriti personali includono Ninf, a sud di Roma; Hanbury vicino a Ventimiglia; Villa Carlotta sul lago di Como; La Mortella ad Ischia; e i pittoreschi e bellissimi Giardini dei Tarocchi nel nord del Lazio.
Con un bel colpo di scena i giardini prendono l'argento! E' una scelta molto british e poco considerata quando ci immaginiamo attrattivi e memorabili. I giardini storici hanno un gran potenziale dopo 3 mesi di lockdown con la vista ridotta ai gerani sul davanzale.
Giardini da agire dunque, per imparare, per godere di spazi e luce. Per piacere.

1. Gli Italiani
Non puoi amare un paese se non ami la sua gente. Sappiamo anche che gli italiani spesso si vedono principalmente come toscani o siciliani, diciamo, o veneziani o napoletani, piuttosto che italiani. Ma sono sempre gli stessi: realisti, cinici; passionali e rumorosi, ma anche formali e conservatori; pragmatici e indipendenti; spontanei e socievoli, e con sensuale apprezzamento per le cose migliori nella vita - e non c'è da meravigliarsi in un paese in cui le cose sono migliori nella vita in modo così ampio.
“Le Persone sono la destinazione” lo sottolineo sempre nei miei corsi di progettazione culturale. Prendo in prestito spesso il piano strategico Wondeful Copenaghen che ha scalato il concetto a politica per la città. Non siamo meglio degli altri. Siamo diversi. E piacciamo così. A partire da questo possiamo candidarci a essere la destinazione preferita di chiunque. Perché chiunque è umano qui può trovare quello che cerca.
Occorre esserne consapevoli e far diventare un dono di natura la principale leva della nostra relazione col mercato  

mercoledì 15 aprile 2020

Ipotesi di lavoro per il Turismo Culturale nell’immediato dopo Covid-19


‘Mantenere le distanze’ è il mantra che condizionerà i nostri comportamenti sociali dell’immediato futuro, specie quelli legati al turismo, al tempo libero e alla fruizione culturale. Per il 2020, significherà scegliere destinazioni meno affollate, prediligere contesti in cui la qualità dell’esperienza abbia più valore della quantità della relazione.

Sarà una catastrofe per i parchi divertimenti, hotel, villaggi turistici centrati sull’animazione e le attività a bordo piscina. Sarà una opportunità per le destinazioni minori, i borghi e le aree interne, meno affollate, comunque ricche, che dovranno esaltare la propria differenza con un’offerta e una narrazione adeguate.
Il turismo marino patirà molto; è prevedibile invece un rafforzamento del turismo montano, con le sue passeggiate in solitaria, i grandi spazi e il recupero di quel rapporto con la natura che ci è tanto mancato in queste settimane.

La lunga inattività di questi mesi farà sì che anche le abituali due settimane di chiusura ad agosto si frammentino, sfumino anche nel loro senso di ‘interruzione’. È dunque il momento di favorire con forza un’offerta con la destagionalizzazione dei flussi turistici, anche garanzia di minor affollamento.

Il rapporto con gli operatori del settore cambierà. È probabile una diminuzione di viaggi in gruppo a vantaggio di forme di turismo esperienziale disegnate su misura. Già il fenomeno era in forte crescita, favorito dalla disintermediazione delle piattaforme digitali, ora sarà la scelta prioritaria per chi desidera sostanza, sicurezza e personalizzazione. In questo settore cicloturismo, cavallo camperismo e simili vinceranno.   

Per tranquillizzare le ansie degli appassionati di destinazioni culturali e artistiche, sarà utile contingentare le visite negli attrattori, anche con sistemi di prenotazione più sofisticati degli attuali. Occorrerà allungare gli orari di apertura, sia per diradare i visitatori che per sviluppare nuovi format serali, notturni magari, per piccoli gruppi, famiglie, coppie. Occorrerà far iniziare l’esperienza già prima del viaggio e farla continuare dopo, trasformando i pochi che la faranno in ambasciatori verso molti. Sarà un disastro sul piano della sostenibilità economica però sarà di gran lunga meglio usare i soldi pubblici perché le persone lavorino tenendo aperte strutture, altrimenti in perdita, piuttosto che tenerle a casa in cassa integrazione.

Il 2020 sarà l’anno zero per il turismo internazionale. Saranno quasi solo gli italiani a muoversi in Italia. È molto probabile che – un po’ per timore di contagio e un po’ per tasche molto vuote – l’estate di molti si svolga nella propria area di residenza con qualche weekend nel  raggio di una o due ore di viaggio. Diventerà vincente la proposta di una riscoperta dei luoghi che guardi anche al riappropriazione di cultura,  memorie e spazi, soprattutto all’aperto, delle proprie città.
Per operatori e enti territoriali sarà categorico capire quanto quelle facce pseudoconosciute abbiano però bisogni nuovi. Le persone vorranno proposte in linea con i tempi. La sfida sarà portarli oltre l’idea del semplice ‘fuori porta’ in un viaggio reale in inediti termini spaziali, comunque un’esperienza di crescita e trasformazione.

I pochi stranieri che arriveranno saranno degli avventurieri o saranno già innamorati dell’Italia. I primi cauti, curiosi e da affascinare fuori dagli stereotipi del Belpaese. I secondi magari già proprietari di seconde case in Toscana, Liguria o Sicilia, da coccolare, festeggiare e trasformare nei nostri ambasciatori verso il flusso di loro connazionali auspicabile nel 2021 e oltre.
Questo sarà possibile solo con la capacità di fare rete nelle proposte, ascoltando e coinvolgendo l’utenza e con un’efficace infrastruttura comunicativa e informativa dei luoghi e dell’offerta di servizi, solo ciò sancirà il successo, prima reputazionale e poi economico delle destinazioni.

In materia di cultura prodotta, molti autori stanno approfittando di queste settimane per produrre cultura e nuovi format. Tra loro artisti affermati e non, individualità collegate in/dalla rete, che nella creazione e nell’innovazione trovano salvezza esistenziale ed economica. Tutto questo dovrà trovare  palcoscenici degni, luoghi di confronto e dibattito, utili anche a selezionare ciò che esprima valore estetico, politico e artistico. In tal senso credo che i luoghi della cultura abbiano la responsabilità e l’opportunità di dare asilo a un contemporaneo finalmente non dettato solo dal mercato fatto da pochi ma espressione di bisogni e domande collettive.
In questo contesto emergenziale la cultura e l’arte stanno definendo e prototipando nuovi format e contenuti. Impazzano le visite virtuali, le challenge, videotrailer, curatori e direttori che raccontano, musicisti che suonano in diretta, aste di opere su Instagram. Strepitoso, su tutti, il format di TussenKunstenQuarantine ripreso dal Getty Museum come dal Mibact in cui le opere d’arte sono trasformate in tableux vivants da persone diventate cosplayer pop.

Di tutto ciò, quello che funziona e piace rimarrà. È un punto di non ritorno.
In tal senso il potenziamento dei servizi digitali che molti territori e strutture museali e culturali stanno realizzando in questi giorni è inedito. A volte ancora confuso. Spesso realizzato con coraggio e inventiva, bassi budget e molte idee, su canali e strumenti finora poco o per nulla frequentati. In diversi si buttano e hanno capito che, per sopravvivere domani, oggi è ‘meglio chiedere scusa che chiedere il permesso’. Ciò sta portando a un ripensamento del ruolo stesso delle istituzioni e dei visitatori che sempre più spesso diventano generatori di contenuti e veri partner. 

Nella logica empatica del marketing esperienziale,  il pubblico si sta a abituando a questi nuovi linguaggi e modalità di relazione e fruizione. Dai prototipi di queste settimane nasceranno quelli saranno vincenti in termini audience engagement e quindi development.
Oggi però, in tempo di quarantena, tutto ciò ha un costo non misurabile in quanto è il tempo di professionisti altrimenti inattivi che non godono di ammortizzatori sociali, o di figure già pagate per altre attività che non oggi possono svolgere. Domani gli andrà assegnato un valore e un budget, trovato uno spazio in organizzazione, inquadrati gli obiettivi in una strategia.

Sono molte le competenze alla ribalta in questi giorni. Varie le figure che stanno tenendo in vita la relazione tra cittadini e Beni Culturali e Arti: creatori di contenuti, community manager, esperti di SEO e comportamenti dell’utenza, data analyst, esperti di e-commerce in prodotti e servizi, organizzatori di crowdfunding e parecchi altri ormai da considerare imprescindibili nei futuri organici di una Sovrintendenza, di un Consorzio di Comuni, di una città d’arte, dei musei maggiori o reti tra musei minori, di qualsiasi ‘attrattore culturale’ che abbia domani l’ambizione di attrarre davvero qualcuno.

sabato 25 gennaio 2020

"La società signorile di massa", di Luca Ricolfi - recensione e qualche dubbio.


La società signorile di massa” di Luca Ricolfi è il libro del momento. Lo leggono è discutono amici e colleghi. Molti di loro me ne hanno parlato con punte inedite di ammirazione per le riflessioni che presenta sull’Italia. Per tutti, me compreso, si tratta di un punto di vista originale sull'economia e sui comportamenti che da essa discendono.
Tutto questo ha giustificato in me la scelta di investire i 18 euro del prezzo di copertina.
Letto e masticato per bene. Appunti, post-it, scritte a margine per fissare le idee.  

L’assunto del libro è che: siamo in una società dove la maggioranza non lavora; tra quelli che lavorano c’è una bella fetta di para-schiavi che consentono agli altri (la maggioranza) di fare i signori vivendo poco di lavoro e molto di rendita; l’accesso a consumi opulenti e non necessari è diventato di massa. E la cosa non può durare più di una generazione o due, poi ci sarà il tracollo.

I giovani fotografati da Ricolfi – spesso figli unici - sono destinatari del patrimonio delle famiglie e se scelgono di non fare niente di produttivo è perché si sono fatti bene i loro conti: "fino a trent'anni traccheggio e poi eredito il bottino."
L’alluvione di dati del libro si sposa spesso con opinioni personali da nonno davanti al caminetto. Che diventa autoindulgente verso la ‘vera’ elite, la società signorile e non di massa, che lui vede (senza portare dati) come quasi ascetica e fuori dal coro e non cafona e sbulaccona come appare davanti al mio caminetto.

Il fondamento che in Italia lavori meno del 50% delle persone abili è un po' buttato lì (e contraddice il 58% di molte statistiche, comunque basso) e dimentica la stima che il lavoro nero pesi tra i 2 e i 3 milioni di teste (tra 7 e 10 %).
L'analisi su come stiamo messi male di Ricolfi tralascia del tutto che la condizione italiana ci porta ad avere un livello di aspettativa di vita tra i più alti del mondo e un tasso di suicidi tra i più bassi; che tutti i reati solo in calo da molto tempo; sussurra solo che abbiamo una bilancia commerciale in forte attivo.

Ricolfi considera la velocità di cambiamento del contesto una questione accessoria, non una concausa. Molti altri ritengono sia una delle variabili che maggiormente condizionano la crisi della scuola, dell’università, del sindacato e del mondo del lavoro in genere.
Lui elude ogni considerazione sulle piattaforme digitali che hanno stravolto dinamiche di relazione, di reputazione, di partenariato, di organizzazione. 
Arriva fin a criticare duramente la scelta di alcuni farsi un ‘anno sabatico’ dopo le superiori per capire il mondo e scegliere con più criterio la propria via (consuetudine anglosassone che lui ignora pur esaltando le doti pragmatiche e protestanti).
  
Imbarazzante la sua leggerezza e lontananza dal reale quando afferma, chissà con quali dati che “Ieri si leggevano i libri, oggi si va alle fiere per veder parlare l’autore. Assai più gratificante che stare a casa da soli, a leggere”.  

Mi trova sul pezzo quando si incaponisce sulla follia che le spese in gioco d’azzardo valgano quanto la spesa sanitaria (circa 110 miliardi annui), è però un po' colpevole di leggerezza quando non dice che oltre 80 miliardi rientrano in vincite ai giocatori stessi. 

Forse il passaggio dove manifesta maggiore pigrizia intellettuale è dove arriva a criticare la recente propensione all’uso piuttosto che al possesso quasi essa sia un limite e non una risorsa, sia in termini di reddito che di relazione. Quasi non sia un modello di crescita culturale responsabile e auspicabile. La variabile ambientale la evita e canzona alquanto chi magari sceglie il bio, la riduzione del superfluo, la sostenibilità. 

Non sopporta proprio che molti italiani facciano movimento, vadano in palestra e simili, vedendo ciò solo come spesa superflua e non come un vantaggio per il corpo, per lo spirito e per le casse della sanità pubblica.

L’impressione generale è che il Ricolfi sia partito da una sua teoria sull’Italia e abbia scelto con cura dati e percorsi utili a dimostrarne la validità. Questa manipolazione è ben fatta e spesso contiene anche guizzi originali. Non ci sono tuttavia elementi sufficienti a confermare che quello che afferma sia vero, inquadri il reale, soprattutto vada in profondità nel cogliere i bisogni su cui progettare soluzioni.

Riprende molti dei concetti già trattati da Bauman con ben altro spessore, e riconduce la vita senza progetti, l’immediatezza del vivere a questo suo concetto di società signorile di massa, senza nulla concedere a temi più profondi come l’incertezza, la paura.
Tocca, ma sempre di striscio, quasi non voglia sporcarsi la penna, il tema del cattolicesimo come limite all’ambizione personale, alla meritocrazia, come la confessione e l’assoluzione siano una bella comodità in caso di evasione fiscale o altre cosette del genere.
Non si pone la questione di un paese per un terzo in mano alla criminalità e del suo impatto reale sul sistema complessivo e sulla politica. La sua analisi delle relazioni Nord – Sud del paese è ipersemplicistica e datata: sud fannullone e dove si regalano i voti a scuola, nord operoso. 'ndrangheta e mafie non pervenute.  

L’impressione forte è che i 70 anni dell’autore lo portino già in una dimensione nostalgica di chi guarda al passato autoassolvedo la propria  generazione. Un passato dove studiavano in pochissimi, si viveva meno e male, le donne e le minoranza stavano al palo della vita, l'elite passeggiava in alpeggio, la fame spigeva all'azione e il ricordo della guerra determinava le decisioni. Mi ricorda in molti passaggi l’abbaglio di un altro libro discutibile, “Gli sdraiati” di Michele Serra di qualche anno fa, che ufficialmente raccontava di un giovane  demotivato e quasi alieno, nel concreto, parlava di un padre che aveva fallito in pieno la sua missione genitoriale.

Insomma, Ricolfi dice che siamo una società signorile di massa e la prima cosa che mi viene in mente alla fine della lettura è : “Mbè? Dimmi qualcosa di utile o ridammi i miei 18 euro.”

domenica 3 marzo 2019

L'Italia e i suoi Stati.


Per lavoro ho l’opportunità di viaggiare parecchio per l’Italia. Dove mi chiamano, quasi sempre mi occupo di lavoro, disoccupazione, sviluppo locale, cultura, e dunque entro per quanto possibile in temi che caratterizzano la costruzione di una democrazia e l’affermazione della felicità dei singoli e delle comunità.
Quello che vedo è un Paese che non è per niente un solo Paese. Ogni volta, scendendo dal treno, mi sembra di essere all’estero.
Esiste una diversità che è ricchezza se sviluppata dentro un progetto unificante e una diversità che è zavorra individualista se non tiene conto né della realtà né del proprio vicino: mi trovo molto più spesso nel secondo caso.

Arrivare a Milano è recarsi uno Stato a parte. Va ad una velocità tutta sua, con pensieri e azioni che riguardano solo se stessa, in gran parte luminosi e visionari e in altra parte profondamente egoistici. In pratica batte moneta, detta la linea, non si guarda indietro, macina novità in maniera bulimica scommettendo che nella quantità si produca la qualità. Esprimerà presto la classe dirigente e politica del resto d’Italia. È nel XXI secolo, da sola. Bologna non riesce invece a fare i conti con se stessa, decidere se essere una città o un’idea, stenta a capire come e perché è cambiata e dove vuole/rischia di essere tra dieci o quindici anni. Ha anime che cooperano perché credono nel valore della condivisione, e interessi che ne minano l’anima; in una tensione che percepisci lama sottile e dagli effetti imprevedibili. Napoli ti salta addosso e tutto lì ti pare eccessivo, nel bello e nel brutto, impedendo di pensare. Perde qualsiasi treno antecedendo a qualsiasi progettualità la frase “Non si può fare perché a Napoli le cose sono diverse…” e per ‘cose’ intendono leggi, sogni, idee, regole civili. Bella per le foto con Pulcinella tristi come il paesaggio devastato che la circonda da ogni lato e le voragini sociali che ne assorbono le energie.  Reggio Calabria annienta ogni speranza, di chi ci vive e di chi ci passa. Lei e la sua regione paiono il buco nero del resto d’Italia, un luogo che non ha l’attenzione di nessun altro, inclusi i suoi abitanti. Quando la frequenti la ami come si fa al capezzale di un’amica sofferente e ti chiedi perché nessun altro sia lì a immaginare prognosi e cure in grado di cambiarle il destino. Genova invecchia con i suoi abitanti, avvizzendo idee e slanci in una lotta impari contro le scempiaggini che gli uomini che la abitano hanno fatto a se stessi martoriandone territorio e ideali. Non si ama e non ama. Lì essere giovani pare quasi una colpa e la cosa migliore per espiarla è il non dare fastidio o andarsene. A Cagliari e in Sardegna sei in un altrove da sempre, in un Paese bellissimo e enigmatico dove la differenza culturale si erige a barriera e non a valore, che ammette di esistere quando scopre di non poter essere isola fino in fondo e di dover esportare latte senza importare mercato; in una regione felice perché la retrocessione economica le farà prendere più fondi europei destinati ai territori non sviluppati. C’è la sosta a Torino che per un po’ ha creduto di esistere anche fuori dai propri confini, di poter fare e cambiare, di poter uscire dall’isolamento un po’ vezzoso grazie alla laboriosità innata dei suoi abitanti e anche grazie alle Olimpiadi e alla TAV. L’asfissia delle idee e la pressapochezza della politica l’hanno invece molto rallentata.
Anche il posto dove vivo, Roma, è a suo modo all’estero. Lo è rispetto all’Europa che funziona, che traina pensiero ed economia, che reputo l’unica casa possibile per tutti. Una Capitale di serie B arenata nelle opportunità non colte, senza un’idea di futuro e neppure di presente. Dove la domanda inespressa da tutti è “Che ffamo?” e la responsabilità individuale segnata dagli “’Sti cazzi.” 
Dove ogni riflessione politica si arena presto in chiacchiere da stadio o in vaffa’ generici che tengono al sicuro le proprie rendite di posizione. Un posto dove la risposta non è neppure dentro di sé perché lì non albergano neanche le domande.
Ovunque non manca energia, migliaia di persone provano per bisogno o per missione a risolvere problemi rimboccandosi le maniche. Quasi tutti pensano di farlo senza la pubblica amministrazione considerata essa stessa un problema e mai una soluzione, spesso disdegnando anche il denaro pubblico per la sua inefficienza e ottusità di obiettivi.

Eccolo, il post politicamente scorretto, per dire anche a me stesso che così non può funzionare, che non si può continuare a procedere con occhi e orecchie chiuse, e che gli spazi per ricostruire sono infiniti, basta volerli abitare con l’intelligenza prima che altri li occupino con la brutalità.

venerdì 6 aprile 2018

Cosa sono e come cambieranno il turismo le Esperienze di AirBnB

Da parecchi anni mi occupo di sharing economy e social innovation. Per capirle e per cogliere le conseguenze di questi cambi di paradigma in termini di competenze per i lavoratori e gli impatti sull’economia. Oltre al leggere libri e frequentare convegni cerco di provarle. Ho condiviso auto, bici, moto, case; fondo e lavoro in spazi di coworking; faccio social cooking, uso ogni piattaforma almeno una volta.

Il mondo della condivisione ha molti vantaggi e molti limiti. Sono pratiche sostenibili per l’ambiente, rispondenti a bisogni di esperienza più che di possesso, divertenti, capaci di creare relazioni. Vedo però anche bene come spesso favoriscano un’economia in nero, lavoretti precari, concorrenza selvaggia e sregolata.
Si tratta di trasformazioni epocali, sotto i nostri occhi e vanno gestite al meglio per il valore che possono creare per singoli e comunità. E' impossibile reprimerle.

Occorre che la politica ne colga le opportunità per sanare per tempo le possibili distorsioni. In quest'ottica gli scontri tassisti-Uber o albergatori-AirBnB/Booking  si  potevano risolvere prima del nascere.

Oggi come una suocera stonata, sono di nuovo a scriverne sperando di non dover mai pronunciare “Io l’avevo detto…” quando il fenomeno sarà di nuovo sfuggito di mano.

Quattordici anni fa passai una giornata di luglio splendida  in mezzo al nulla della brughiera irlandese a far biglietti di Natale in carta, metallo, legno e altro, a casa di una signora molto creativa che non rinunciò a rifilarci il the delle cinque. Pagai il mio e uscii dalla mia (allora inconsapevole) prima esperienza di turismo esperienziale.
Poco più di un anno fa AirBnB ha lanciato le sue ‘Experiences’ sulla piattaforma già più usata al mondo per affittare camere o appartamenti. Sono subito un successo pazzesco con una crescita spaventosa. Hanno iniziato con poche città: Milano, Roma, Firenze, Venezia… da oggi è possibile offrire questi servizi  in tutta Italia.

Per capire, ho lanciato la mia Experience tre settimane fa e ho già ricevuto una decina di prenotazioni. La prima cliente è stata con una giornalista tedesca che su di me ha fatto un’intera puntata per un programma radiofonico nazionale. Mi sono divertito, ho imparato tanto, lei era soddisfattissima, io lo rifarò. Insomma… l’effetto è quello di una bomba e sposta di molto quello che può significar viaggiare.

Oltre che da seri giocherelloni come me, le Experiences sono offerte da un variegato movimento di appassionati, esperti della materia, disoccupati che si reinventano, piccoli imprenditori, storyteller con sacro fuoco del racconto, hobbisti che magari per 50 euro ti offrono una giornata con gli aquiloni al parco, l’osservazione delle starne sul Tevere,  un giro con bici vintage, fare gli gnocchi con la nonna, fare il pane con i migranti, contare i passi del dinosauro sulla montagna, la nottata col fantasma nel castello, la cena bendati, un minicorso di fotografia al parco, la pesca del merluzzo albino.
Tutte cose bellissime, nuove e rilassanti, che in una giornata a Roma o a Busto Arsizio possono tranquillamente sostituire un giro al museo, la coda per tirare la moneta a Fontana di Trevi, e talvolta pure una visita al Palatino intruppati in un gruppo.
Alcune esperienze esistevano già sul mercato e oggi hanno una piattaforma mondiale per moltiplicare il proprio bacino d’utenza; la stragrande maggioranza dell’offerta nasce proprio perché esiste la piattaforma. 
Ho capito che:
  • Le Esperienze scalate nella dimensione globale ribaltano il turismo per come lo conosciamo, aumentano spesso la qualità del legame col luogo, liberano cretaività, spingono allo slow turism e a permanenze più lunghe.
  • Metteranno in grande difficoltà il sistema professionale delle Guide Turistiche, Guide Escursionistiche e Guide Alpine, tutte categorie a cui si accede con determinati requisiti e che verranno scosse alle fondamenta.
  • Sono reali opportunità di socializzazione e rientro nel  mercato per chi non ha lavoro, ha competenze, sa qualche lingua, ama il suo territorio.
  • Sono anche una opportunità per gli hotel, i tour operator che sapranno cogliere il senso di un’offerta così diversa e integrativa,
  • L’offerta ‘tradizionale’ più intelligente le sta già inserendo con nuovi format  in cui si ripensa come luogo di scoperta, in un confronto dove le visite valgono il senso che esse assumono per i visitatori.

Se però non vengono pensati come parte di un più complessivo sistema turistico legato al terriotrio le Esperienze rischiano solo di alimentare un precariato già molto diffuso.
In fondo si tratta di nuove forme di autoimpresa e in tal senso occorre che si creino le condizioni perché questo insieme di attività venga esercitata al meglio, con chiarezza fiscale, certezze per clienti e operatori, senza finire però per strozzare di regole la creatività innata dell’offerta.

Visto che state facendo il Governo, mettete un po' di attenzione anche all'Esperienza (vostra e nostra ;-)

domenica 25 febbraio 2018

Il futuro che vogliamo, a nostra insaputa.

Remo ha due figli da poco maggiorenni e mi guarda, sconsolato, “Sono ragazzi fantastici, anche impegnati. Il problema vero è che con loro non litighiamo mai. Intendo sulle cose importanti, cose come la politica, il futuro, il lavoro, la coppia. Una volta fissata la paghetta settimanale tutto il resto va da sé… non hanno una visione del mondo diversa dalla mia: proprio non hanno una visione del mondo di cui sentirsi responsabili.”
La difficoltà a immaginare il futuro è il limite di una generazione e di un’epoca. Non parlo di pessimismo ma dell’oggettiva difficoltà a immaginare come saranno le cose  5 o 10 anni. Chi lo sa? Io guardavo mio padre, gli zii, nonni e prendevo su di loro le misure di quello che volevo e non volevo ‘essere da grande’. Oggi è inimmaginabile ipotizzarsi a 20 anni di distanza. Certo, tutti d’accordo su Pace e Amore ma poi? Quale Pace? Quale Amore? Con quale significato?

Il modello è forse quello falso e modaiolo dello startupper? Patetico. Quello dell’influencer? Peripatetico. O quello dell’ingegnere che se non emigra si ritiene il nuovo operaio della catena di montaggio?
Più di venti anni di ammollo nel berlusconismo hanno azzerato gli anticorpi a una generazione o due. Siamo autoimmuni alle nostre coscienze. La colpa è sempre di qualcun altro. Il fine giustifica i mezzi. Tre quarti dei cantanti che passano in radio usa meno di 3000 parole perché, come i politici, hanno capito che la lettura di un bugiardino è oltre le capacità (e la voglia) di quasi tutti i loro ascoltatori. La politica gemma furboni, cretini e pupi bidimensionali  come Renzi e Di Maio, berlusconiani a loro insaputa, con la voglia di piacere, tutta tattica e zero strategia (B. la strategia l’aveva e si riassume nel fare politica per salvarsi da inchieste e fallimenti).  

Il Paese come sta? In Italia non ci sono mai stati così tanti occupati (nella storia); economia e fatturati aziendali sono in decisa crescita; criminalità in calo costante e importate. Da decenni non venivano legiferate riforme sociali così importanti e incisive. I clandestini sono in deciso calo. Le infrazioni comunitarie dimezzate. Eppure…
Eppure gli urlatori hanno uno spazio immenso, tra bugie e verità distorte, e chi le cose le ha fatte ha quasi timore a ricordarle. Ho tra le mani il volantinone delle 100 cose che il PD si propone di fare nella prossima legislatura e lo trovo confuso e infelice, quasi timoroso di dire “Siamo di sinistra. Riteniamo che l’interesse collettivo venga prima dell’individuale. Che la paura si combatta con la conoscenza e non con i muri. Che le tasse vadano pagate come dovere. Le case abusive abbattute. Le regioni governate dalle mafie, liberate. I dipendenti pubblici premiati per il loro lavoro quando è meritevole e cacciati quando fanno i furbi. Gli istituti di cultura italiana all’estero potenziati. I nostri cervelli (in fuga o no) coccolati. Gli insegnanti valutati, oltre che assunti e ben pagati. Gli stipendi dei parlamentari dimezzati. Gli imprenditori sostenuti, soprattutto se investono in economie sostenibili.”
La paura va combattuta con argomenti: il tempo indeterminato è finito, defunto, stop, chiaro?  e i migranti possono essere una risorsa determinante come lo sono in molti Paesi. La tecnologia è un toccasana per mille cose e una criticità in altri contesti, che si possono gestire se non si interviene sempre in ritardo. La Scienza non ha a che fare con la democrazia, e i vaccini non portano l’autismo.
Per vivere in questo futuro ci sono parecchi modelli di intervento che escludono la pistola ad ogni famiglia.
Il futuro comunque rimarrà un’incognita e dunque i venditori di risposte facili non valgono un lettore di tarocchi al luna park.

Il 4 si vota e mai come questa volta vedo la discesa in un trampolino per il salto con gli sci, nel mese di agosto. La mia amica Barbara, che vota da San Francisco, crede che l’eventuale vittoria di questa destra becera non ricompatterà affatto le opposizioni come sta accadendo in USA perché “Con la vittoria di Trump, qui siamo rimasti scioccati a livello viscerale. In Italia nessuno si scioccherebbe. È  questo il problema. Lì tutti si adattano.”

Avremo il futuro che ci meritiamo, anche a nostra insaputa. 

lunedì 12 febbraio 2018

Vedi, piccolo, questo si chiama ‘Fascismo’.

Vedi piccolo, questo si chiama ‘Fascismo’.
Quando uno dei migliori direttore museali spiega a una signora poco informata che gli uomini sono tutti uguali, che molti egiziani sono cristiani, che esiste un mondo reale oltre alla voglia di sangue immigrato, e il partito di lei risponde che quando vincerà le elezioni licenzierà tutti i direttori di musei, si chiama Fascismo. Eliminare per primi quelli che pensano meglio e magari in modo diverso, è una delle tecniche del Fascismo: il Fascismo adora i mediocri e ha paura di ogni novità.

Sai piccolo, quest'uomo appassionato mi ha fatto pensare... la settimana scorsa ho lavorato con con un gruppo di ungheresi che raccontavano come lì il presidente eletto abbia per prima cosa cambiato tutti i direttori di teatri e musei. Per paura della cultura, perchè libera le idee. Una signora intelligente mi ha confidato sottovoce “L’unica cosa che spero per mia figlia diciasettenne è che se ne vada prima possibile dal paese,” e mentre lo diceva aveva le lacrime agli occhi. Sì perché diventi diverso appena osi di ritenerti libero, e dal Fascismo vieni cancellato. Sì, questo si chiama Fascismo e mi rifiuto di pensare che per te sia meglio andartene per affermare che i tuoi sogni non sono in vendita.

Perché in Ungheria hanno eletto quel brutto presidente? Bella domanda piccolo. Perché per loro ha abbassato il prezzo del gas e della luce, fermato l’aumento del pane, aumentato le pensioni, distribuito lavori socialmente utili a spese dello Stato, perché gli ha tolto la paura di non arrivare a fine mese spostando l’attenzione dai suoi furti e dalle ruberie dei suoi amici a nemici deboli come gli immigrati e scomodi come i laureati.
Sì, questa è la vecchia tattica del Fascismo: far finta all’inizio di essere buono per poi trasformarti in carne da polpette. Funziona così: darti da mangiare se smetti di pensare; darti la luce se vivi ne buio; e poi chiederti in cambio di girarti dall’altra parte quando ti dicono che per farti continuare a mangiare devono bastonare il giornalista che racconta le storie, l’insegnante che spiega la Shoah, il genitore che si oppone alla tua divisa, il tuo amico perché è gay, la tua amica perché scrive libri che a loro non piacciano.   

A scuola hanno detto che bisogna stare attentissimi ai malintenzionati? Sta' attento ma anche calmo. Adesso ti svelo un segreto che può capire solo chi come me e te ama la matematica: l’Italia non è mai stata così sicura. Il numero di omicidi, di rapine, di cose brutte fatte a grandi e bambini, è diminuito tantissimo in questi anni. Così come gli incidenti stradali, di treno e aereo. E sappi che gli zingari non hanno mai rapito i bambini, zero. Gli immigrati integrati invece, che sono la maggioranza, pagano la pensione dei nonni. I numeri poi dicono bene come vaccini riducano drasticamente le morti ingiuste di bambini come te e gli antibiotici salvino la pelle a tutti.  Questi sono numeri, non favole, perchè la scienza non è fatta di opinioni ma di certezze costruite con fatica. La scienza non semplifica mai, il Fascismo sì.
È che ad alcune persone piace la paura perché così possono evitare di pensare al futuro, che è cosa faticosa anche se magnifica, e poi, se vuoi, con la paura di tutto è anche più facile diventare Fascisti potendo dire sempre “Io non sono fascista ma…”

Sarai Fascista anche tu? Non lo so. Puoi decidere da solo cosa fare del tuo futuro. Anzi, devi. Se ti chiedessi di credermi solo perché sono tuo padre sarei ugualmente Fascista. Ti chiedo di prenderti il tempo per capire cosa è meglio per te e per tutti vivendo a occhi aperti, con una buona dose di scetticismo, con speranza e curiosità, amando le persone, guardando se le donne sono felici (sono sempre un buon indicatore di antifascismo), stando sempre attento a non trasformare le tue paure nelle armi di qualcun altro. 



(Riprendo a scrivere su questo blog dopo quasi un anno di pausa. Non è una bella notizia però, significa che ci sono cose che non riesco più a tenermi dentro, che mi preoccupano oltre misura, sulle quali non mi basta il confronto con la famiglia e gli amici  e che mi impongono di allargare lo sguardo a nuove soluzioni prima che i pensieri diventino paure)

giovedì 13 aprile 2017

‘Give Peace a Chance’, anche nel 2017.

Da un po’ di tempo Papa Francesco riporta all’attenzione di tutti questioni che più che alla religione afferiscono al buon senso e a un etica che può essere cattolica, ma anche laica, buddista e quello che volete. In particolare punta il dito contro le armi. Di certo ne condanna l’uso, tuttavia lui si spinge con forza a condannarne la costruzione e più o meno direttamente anche il lavoro di chi le costruisce.

È una questione che mi sta a cuore e pochissimo dibattuta, sia sul piano economico che su quello etico.
Negli anni ’80 “Give peace a chance” era più di una canzone, era per molti un obiettivo concreto. La leva obbligatoria ti portava a prendere posizione. Come molti amici, ho scelto l’obiezione di coscienza per rifiutare la logica del conflitto e anche per non impugnarle. Ricordo bene il sergente alla visita di leva che mi disse “Attento. Se fai l’obiettore, non potrai avere il porto d’armi per tutta la vita.” Il sorriso che feci allora lo rifarei oggi.
Dopo la laurea rifiutai almeno un paio di lavori perché le aziende che me li proponevano erano produttrici di armi pesanti, sistemi di puntamento missilistico o di telecomunicazione e simili. Erano gli anni in cui ferveva un diffuso dibattito sul tema, piuttosto fuori dagli schemi della politica e della religione. In migliaia manifestammo unendo in una catena umana la base dei Tornado a San Damiano alla Centrale di Caorso, e così via. Quello del disarmo come prerequisito alla Pace era un movimento trasversale che aveva forti oppositori a sinistra, a destra come nella Chiesa.  
Il crollo del Muro di Berlino è il simbolo e il maggior successo di quella stagione. E un po' la fine dello slancio legato all'urgenza di cambiare la logica della violenza.  

Ascoltare oggi il Papa condannare chi col proprio lavoro fabbrica le armi mi torna allora come una voce dal passato da attualizzare. 
Oggi fare armi vuol dire raramente fondere acciai speciali per costruire bombe o mitragliette (vuol dire anche quello comunque), ma sempre di più è scrivere linee di software, progettare scafi o motori, immaginare satelliti, sviluppare realtà virtuale, droni e simili. 
Intendo dire che la distanza del pensiero e del lavoro dalla morte di qualcuno si è fatta abissale e i sensi di colpa si sfumano nell’indefinita destinazione d’uso di quello che si fa. Eppure non ci sono scuse: le armi si fanno per venderle e usarle, e si fanno prevalentemente nei paesi che sono in apparente pace dentro i loro confini, come il nostro, l’Europa, USA, Russia, Giappone, Cina e pochi altri. L'ipocrisia di questo mercato è colossale e silenziosa e ogni rifessione viene messa a tacere deresponsabilizzandosi col "Se non lo facciamo noi lo fa qualcun altro".


Ecco che il Papa  dunque diventa eversivo. Perchè non lavorare per chi fa armi, è una scelta prima di tutto politica, etica e poi educativa.
L'ultimo papa eversivo fu Papa Luciani che disse "Dio è madre" e dopo tre settimane morì in circostanze poco chiare. Far passare l'idea che lavorare per chi fa armi non è cosa buona e giusta potrebbe schiacciare calli ancora più grossi.

lunedì 27 febbraio 2017

Migrare per vivere e per morire.

Uno dei ricordi più limpidi della mia infanzia è legato alla malattia di mia zia. 
Lei abitava sopra di noi e con lei ho passato tanto del mio tempo di bambini. Si ammalò di un tumore incurabile. Siccome era giovane, il suo corpo non cedeva nonostante gli organi interni collassassero uno a uno lentamente fino a portarla al coma. Ricordo negli occhi dei miei genitori tutto lo strazio di quelle settimane, soffrivo in silenzio con i miei cugini. Ero piccolo ma mi era chiaro come l’impotenza di tutti passò presto alla rabbia, al sapere che non c’era rimedio. Fino al giorno in cui mi fu comunicato “Oggi facciamo staccare i tubi e le macchine.”
“Si può?” risposi stupito.
“No, però è giusto. Come si fa sempre in questi casi, diamo centomila lire a una suora di buon cuore e ci pensa lei.”
Qualcosa in me scricchiolò. Era giusto ma non mi sembrava sensato.
Poi passano 40 anni e siamo ancora di fronte al caso di Fabiano Antoniani (alias ‘DJ Fabo’) che sceglie di morire con dignità in Svizzera per non farlo di nascosto in Italia, molti anni dopo il caso straziante e inumano di Michela Englaro costretta per anni a una vita che non voleva, spolpata dalla malattia, dagli avvoltoi più benpensanti e dal coyote Berlusconi. Ed ecco arrivare gli stessi scricchiolii.

Sono rumori sgraziati nella macchina della civiltà, ingiusti cazzotti allo stomaco pochi giorni dopo le polemiche imbarazzanti di fronte alla scelta di un ospedale romano di cercare ginecologi non obiettori alla pratica dell’aborto per garantire un diritto sancito da una legge dello Stato.
E in questo caso ecco che mi tornano alla mente le parole di quel ginecologo che mi erudì: “Le liste di attesa in Italia sono lunghe, la procedura complicata e gli aborti in ospedale si fanno quasi di nascosto. In casi così consiglio ai miei pazienti di prendere un volo da Roma che atterra a Heathrow. Di lì in meno di un’ora sei in clinica, si procede all’aborto e poi si rientra. Tutto in 2 giorni e con meno di 2000 euro.”

C'è da portare avanti una lotta contro tutti gli aspetti del paradosso che ormai vede gli italiani migrare all'estero sia per vivere decentemente che per morire dignitosamente. Temi che darrebbero argomenti solidi e facili voti a qualsiasi forza politica che avesse a cuore il futuro del paese e non solo mantenere il proprio culo sulla poltrona, abbaiare ai migranti e costruire stadi di calcio. 

lunedì 28 novembre 2016

Referendum: La Filastrocca del Sì e del No.

Sì, domenica voterò.
No, non vi dico cosa.
Sì, mi vergogno della scelta.
No, non sarebbe diverso votassi altrimenti.
Sì, è un quesito pasticciato.
No, non dovremmo essere chiamati a votare su cose così.
Sì, sarebbe stato un po’ meglio l’avessero spacchettato in più domande.
No, non ho capito l’impatto di un voto o dell’altro.
Sì, ho letto tanto, ho studiato, ho fatto domande.
No, non mi influenzano le conseguenze per il governo.
Sì, vedo impresentabili in ogni schieramento, e anche brave persone.
No, non ho seguito alcun dibattito televisivo.
Sì, ho trovato utile leggere le opinioni dei costituzionalisti.
No, non mi filo cuochi, sportivi, cantanti e amici su Facebook.
Sì, penso ogni giorno al futuro dei miei figli, al mio, al nostro.
No, non lego il futuro a questo referendum, e nemmeno a questo Paese.
Sì, mi sento truffato.
No, il voto non si spreca mai.
Sì, ho paura.
No, non abbastanza da spegnere il cervello.

mercoledì 9 novembre 2016

L’elefante nella stanza, in Italia come in USA: l’ignoranza.

Ci sono pensieri che possono essere articolati solo in post politicamente scorretti. Quello che percepisco nell’aria, unito al tifone dell’elezione di Trump in USA, mi spingono a buttare giù queste righe sperando di non perdere lucidità di analisi e, forse, concedendomi un po’ di cinismo.

Per lavoro, da tempo mi occupo dei temi del cosiddetto Audience Development inteso come il processo di allargamento e diversificazione del pubblico nella cultura e di miglioramento delle condizioni complessive di fruizione della lettura, dei musei, dell’ arte.
Sì, è bello, stimolante. Si tratta di fidelizzare, trovare nuove occasioni di interesse, attrarre le persone con mezzi e messaggi, saper ascoltare, coinvolgere e creare partecipazione, specie di nuovo pubblico.
Sì, è una gran sfida. Si fanno in merito parecchi progetti. Per riuscire nell’intento si usa molto il gioco (la gamification della cultura), si aprono i Musei la notte, si inventano gli ingressi gratuiti, si mette ovunque Realtà Aumentata, si convincono archeologi sbigottiti a ‘svecchiare’ forma e linguaggio del loro lavoro, si stravolgono le esibizioni mettendo le ninfee di Monet davanti ai video di una gita al lago, si inventano mostre tipo “Da Tutankhamon alla Lamborghini” che dovrebbero allargare il pubblico interessato.
Soprattutto si tenta di affrontare quelle che a detta di molti sono le cause prime della disaffezione del pubblico per l’arte, la cultura, la lettura, l’approfondimento: il costo, il tempo a disposizione, programmi poco interessanti, ubicazioni scomode.

Si fa tutto con l’idea che modificando i mezzi si possano trovare nuovi pubblici a cui diffondere i messaggi.
Osservando i risultati e gli impatti (ad es. l’ebook non ha cambiato di una virgola il mercato del libro è anzi esso stesso in diminuzione di vendite), mi convinco sempre di più che la missione non è compiuta perché le cause identificate sono quelle sbagliate. E i messaggi (di ogni tenore) non arrivano perché troppe persone non sono in grado di capirli.

Provo a vedere le cose da un altro punto di vista.
Circa il 30% degli italiani soffre di analfabetismo funzionale (dati OCSE, alcune fonti arrivano a oltre il 40%), cioè pur avendo a disposizione tutti gli strumenti culturali di base per leggere e scrivere, non è in grado di interpretare dati che siano aggregati in una forma complessa. Non è, ad esempio, in grado di comprendere la posologia di un farmaco, una polizza assicurativa, un libretto di istruzioni, e non riesce a capire un articolo di giornale, o a elaborare ragionamenti su grafici e tabelle. Infine non è in grado di prendere una decisione ascoltando diversi punti di vista ma è legato solo ai propri convincimenti e alla propria esperienza soggettiva. E' questa - secondo me - la principale ragione per cui solo il 42% degli italiani legge almeno 1 libro all’anno, non legge i giornali, si informa poco tramite il web (35%) o va al cinema (solo 48%).
Questo analfabetismo strisciante è l’elefante nella stanza, altro che costo della cultura o mancanza di tempo. Se non lo mettiamo a fuoco, tutto il resto diventa solo un esercizio intellettuale bellissimo riservato a chi ne ha meno bisogno.
Come?
Non se se serva un "Maestro Manzi 2.0". 
Di certo l’educazione gioca un ruolo importante (ricordo che spendiamo in educazione la metà dei paesi del nord Europa). Tuttavia credo anche non bastino scuole migliori. Da analfabeti funzionali si vive benino, si pensa poco, si è in buona compagnia.
Se non mettiamo sul tavolo un'alternativa complessiva che trasmetta la voglia di libertà dai gioghi, il rispetto del prossimo, la forza del libero arbitrio, la spinta alla comprensione della complessità, quale chiavi per l’autonomia e per l’autoaffermazione adulta, non scolleremo nessuna dalla sua poltrona comoda.
Forse si chiama Politica per il futuro, ma non sono le definzioni che mi interessano.

Intanto continuo a progettare capendo che la cultura serve, con la cultura si mangia, la cultura libera. Non sono slogan ma sentimenti che vanno trasmessi. Qualcosa è arte, è cultura, se genera verso di esso una relazione capace di scatenare una reazione in grado di produrre trasformazione. Tutto il resto è marketing.

Come un prodotto del marketing è stato Berlusconi, come è Trump, come sono molti personaggi sulla mediocre scena politica e imprenditoriale italiana. Lo so, a loro ci piace credere; con loro non si cerca né si pretende verità perché la verità piace a pochi, specie quella su se stessi.
In fondo, se neppure loro si sforzano di comprendere la realtà, e ne modellano una a loro piacimento fino a essere eletti, possiamo tranquillamente assolverci anche noi.