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giovedì 9 giugno 2016

E se l’innovazione non portasse voti?

Torino, Milano, Bologna, Trieste: le quattro città star nell’innovazione, i veri passanti della la cintura che tiene ben stretta l’Italia ai processi europei di sviluppo sostenibile, la quintessenza stessa della parola Smart City.
Molti amici innovatori vi lavorano ogni giorno. Con le loro attività sviluppano nuovi processi di creazione del valore per sé e spesso per i territori, contribuiscono a politiche pubbliche di avanguardia, tessono reti che liberano energie. Lì hanno a disposizione infrastrutture efficienti e tanti spazi di qualità che funzionano a loro supporto. In alcune di queste città stanno mettendo a punto prassi amministrative, innovazioni normative e fiscali fondamentali per dare a tutti le possibilità che meritano.  
Lì ci sono il bike sharing, il car sharing, social housing, orti urbani, le tagemutter, i teatri e i festival, le università di punta, qualcosa di nuovo succede ogni giorno. Insomma sono città davvero nel XXI° secolo. Lo percepisco dai racconti di chi ci vive, di chi ci è andato a vivere proprio per queste ragioni. Quando passo per quei posti ne sono convinto anche io. “Questo a Roma non lo faremo mai…” mi dico abbacchiato. “Vorrei vivere qua…” aggiungo non di rado.
Poi si vota.
Si aprono le urne e Fassino/Sala/Merola/Cosolini trovano molto meno consenso del previsto, sono in seria difficoltà (tra 10 giorni vedremo quanta) da competitor che non hanno finora dimostrato nulla, che talvolta  invocano un generico ‘nuovo corso’ per la paura del nuovo e del diverso, che sanno però rispondere ai bisogni di chi vota.
Io rimango perplesso ma i commentatori televisivi mi spiegano che “Non c’è da stupirsi del risultato perché l’amministrazione uscente ha lavorato malissimo, è sotto gli occhi di tutti da anni: zero dialogo con i cittadini, modi autoritari, abbandono delle periferie.” Allora volgo lo sguardo agli amici che ci vivono, confuso, chiedendo ragione di queste ambigue narrazioni.
Lo so, ogni città ha una storia a sé, ma 4 casi diversissimi col medesimo problema forse fanno un caso.
Al di là delle profezie che si autoavverano, occorre forse davvero chiedersi: l’innovazione paga alle urne? Oppure spaventa perché dimostra a tutti come i tempi siano cambiati anche se non si vuole? O perché dimostra che l’inglese è più importante del dialetto, che la velocità vince sulla stabilità, che la distanza non impedisce la comunità, che il territorio non è un tavolo da gioco insensibile ai nostri capricci? O manca qualcosa nei nostri interventi che dia senso anche elettorale al valore degli interventi?
Forse sviluppare spazi di coworking, regolamenti inclusivi, orti urbani, piattafome di collaborazione, percorsi virtuosi per l’inclusione degli immigrati, se da una parte richiede alla pubblica amministrazione nel terrorizzante ruolo di ‘abilitatrice’ dall’altro cala sul cittadino maggiori responsabilità, un ruolo forse non sempre richiesto e spesso non compreso. 
Se è questa la strada che vogliamo percorrere, forse, è ora di pensare modi, spazi e tempi in cui affrontare da cittadini elettori questa evoluzione del contesto che muta anche il patto sociale di chi vive in una città.    
C'è anche un altro aspetto: e che gli innovatori non votino? Che ritengano di non aver bisogno della politica, di lobby, di rappresentanza. Magari rimandando a un  generico ‘appena ho tempo’ il loro impegno in un mondo che percepiscono come inefficiente, parassita, se non inutile. 
Ad esempio nel mito distorto delle start up trovo mille persone che vogliono cambiare il mondo e nessuna il quartiere. Cuori d’oro che si impegnano per l’artigiano pachistano e non colgono la desertificazione delle botteghe del rione.  
Lo ammetto, io stesso mi chiedo ogni volta con maggiore fatica ‘se’ votare ancora prima di ‘chi’.
Sono domande da porsi. Perché se molto è politica (come lo sono molte ore delle nostre giornate al lavoro, in aula, su Skype, come genitori, consumatori, …) è anche vero che il sistema meno imperfetto per organizzare l’equità, la giustizia, le pari opportunità, la resilienza, passa per la partecipazione e la rappresentanza.
Poi però vanno a votare soprattutto le persone arrabbiate, o che nel voto trovano una utilità di scambio, con una totale divergenza di percorsi tra chi ha l’ambizione a costruire e chi quella a difendersi. Ecco che trova maggiore rappresentanza politica maggioritaria chi vuole asfaltare strade e differenze d’opinione, razza e sesso, piuttosto che chi è disposto a una politica inclusiva basata su piccoli passi, con obiettivi ambiziosi ma distanti.
Mi chiedo infine se si stia sviluppando un Creative Divide cioè una forte divisione tra i soggetti che traggono effettivamente vantaggio dalle politiche guidate dall’innovazione e chi ne è invece escluso: con i primi che ritengono superfluo votare (forse anche perché il successo dei loro servizi si basa proprio sull’inefficacia della politica), e con i secondi che hanno ancora speranze o prebende associate al foglio calato nell’urna.

Buon ballottaggio a tutti. 

domenica 25 ottobre 2015

Cos’è e come funziona il Social Eating.

Da più di un anno sono iscritto come cuoco a una piattaforma di Social Eating. Nel mio caso si tratta di www.eatwith.com , nata in Francia, ce ne sono comunque diverse.
Ho fatto finora 6 cene. Sempre due commensali, tranne nell’ultima che erano quattro. Per loro era sempre ‘la prima volta’ in un contesto del genere, età tra i 35 e i 50, benestanti, amanti della convivialità. Si tratta di cenare a casa di sconosciuti di cui si sa qualcosa attraverso i meccanismi di creazione di fiducia tipici dei social, con cui la naturale riservatezza viene compensata dalla curiosità e dalla sensazione di poter vivere qualcosa di unico. Qualcosa di totalmente diverso dal ristorante.  
Adoro cucinare, ho spesso amici a tavola, sperimento anche quando ceno da solo, cerco anche da sempre di capire come il cibo e la convivialità generino dinamiche di relazione, accoglienza, affetto, comprensione. Ovviamente in quei casi  miei invitati sono ospiti, al massimo si presentano con una bottiglia di vino o una vaschetta di gelato (oltre che con un paio di amici invitati a sorpresa).
Nel socia eating invece le persone pagano per mangiare a casa tua. Tu fissi il prezzo e la piattaforma che mette in contatto e gestisce le transazioni ci aggiunge un 10% per il proprio servizio.
Il perché lo fanno e perché, le persone cucinano può a grandi linee dividere il modello in due grandi categorie:

I social chef PULL
Il mio caso. Mi sono iscritto al sito con le mie credenziali social, ho descritto l’ambiente della mia cucina, il fatto che a tavola potrebbero ritrovarsi anche i miei pupetti, ho messo le foto di un po’ di piatti possibili a titolo di esempio. Non faccio nulla di attivo, mi limito a segnare le giornate in cui posso ricevere ospiti. Sono anche disponibile a farli cucinare con me o a ipotizzare un giro mattutino al mercato assieme. Ogni tanto mi arriva un amail “Pascale vorrebbe cenare da te il 27, accetti?”
Se tutto questo (unito alle recensione degli ospiti precedenti) convince qualcuno, mi contattano. Se posso, il profilo di Pascale mi convince, le sue eventuali  richieste sono di senso (es. ben accetti celiaci, astenersi vegani), accetto. Allora discutiamo (poco)  di menù e di quello che vogliono e li aspetto nella sera e all’ora concordata. 
Il prezzo è il costo degli ingredienti per tutti i presenti al tavolo. Siccome poi offro assaggi, grappini etc, il costo è spesso solo una parte del rimborso alla spesa.
I miei ospiti (massimo 4) arrivano assieme e tra loro si conoscono sempre, sanno che sarò a tavola con loro con la mia famiglia a parlar di cinema, di Italia, viaggi, a dare consigli su come godersi Roma, sui nuovi percorsi di Street Art a Roma, a rispondere domande sul costo degli affitti nella mia zona, sulla provenienza dei porcini che ho accoppiato al pesce spada, sui quadri che ho alle pareti.  
Il cibo sarà una sorpresa per tutti i presenti.  
Lo faccio non più di una volta ogni due mesi, perché voglio dare il meglio, perché non è un gioco e loro si meritano l’accoglienza di uno non annoiato, perché la mia famiglia deve vivere la novità dell’ospite con entusiasmo. Sanno infine che faccio tutto questo anche per poter parlare un po’ il francese, difficile da praticare a Roma.

I social chef PUSH
Sono cene più organizzate e che vanno molto di più incontro al mercato. 
Ragionano dunque di comunicazione, programmazione di cene, stagionalità.
Sulla piattaforma, una italiana perfetta allo scopo è anche www.gnammo.it , chi apre la propria casa a ospiti presenta la cena, in una data da sé scelta, per un prezzo da fissato, per un menù esplicitato per intero dal principio. Spesso si tratta di eventi aperti a numeri maggiori (anche fino a 15-20 partecipanti).
Anche in questo caso, la reputazione conquistata con precedenti cene favorisce la scelta e rassicura tutti. L’organizzatore rimanda l’evento creato dalla piattaforma attraverso i propri social e con le proprie mailing list. Vi è dunque un importante lavoro di comunicazione non presente nel caso precedente da cui spesso dipende la riuscita della serata.  
In questa tipologia il padrone di casa è straimpegnato e la regia della serata deve essere più accorta e complessa, dedicando il tempo a tutti, includendo i timidi etc. In molti casi questo è favorito dal fatto che le cene sono a tema, o c’è l’ospite di riguardo (architetto, attore, …), magari qualcuno suona.
Sono cene conviviali, dove i commensali tra loro spesso non si conoscono e, anzi, usano l’occasione per allargare la cerchia delle relazioni, sia in ambito professionale che amicale. Per questa ragione è più bassa la presenza di stranieri, al tavolo si parla spesso italiano.

Responsabilità, fiscalità, rapporti con i vicini di casa? E’ tutto poco definito nel dettaglio. Sia chiaro: non si fa ristorazione ma si invitano persone a casa. 
Finché non c’è guadagno in chi ospita, si tratta di un contributo al costo della spesa. Per chi invece guadagna e lo fa spesso esistono i commercialisti, le leggi e la propria coscienza. 
Come per AirBnB, si stanno sviluppando forme assicurative ad hoc.
Come molte pratiche di Sharing Economy, il social eating intercetta bisogni e necessità reali e la realtà è anni avanti alla normativa, agli interessi corporativi, ai vuoti discorsi su certo turismo ‘esperienziale’ fatti dagli esperti di fuffa. Porta turisti nelle periferie e riempie di ricordi i carnet di viaggio. È bello, e mentre lo fai ti rendi conto che è intelligente, utile e mischia le idee generandone di nuove.   

venerdì 16 ottobre 2015

Vi racconto l'imperdibile Maker Faire a Roma.

We are Makers since the Big Bang” dichiarano i due cartelloni scritti a mano posti fuori dalla chiesa de La Sapienza per attrarre all’interno qualcuno dei 100.000 visitatori attesi quest’anno. Credo da sempre che i seminari formino i migliori copywriter sul mercato e anche questi non fanno eccezione. La passione e la voglia di cambiare il futuro, per i visitatori, hanno comunque qualcosa di messianico.
Per la prima volta all’interno della cittadella universitaria, la Maker Faire è colossale.  Era pienissimo di gente e oggi Venerdì 16 ottobre era solo il primo giorno.
Si tratta di circa 600 stand che presentano pavimenti che suonano se li calpesti, bici fatte di bambù o tagliate al laser, droni di ogni dimensione che svolazzano qui e là, orti idroponici da appartamento, stampanti 3D capaci di realizzare gioielli o case, tessuti in fibra di legno, tutori intelligenti, sensori che apprendono, una rock band di robot (stonata ma scenografica), una scatola nera per il trasporto di opere d’arte, robot per fare modellazione 3D degli spazi catacombali, specchi che portano il sole nel buio anche negli scantinati, macchine per scrivere sulle pappardelle. Poi robot che annusano, spostano, aiutano anziani, programmabili da bambini, realizzati con lego, gli scarti, la gomma.

A cosa serve tutto questo?

Non si sa, non è chiaro neppure agli espositori, e proprio per questa ragione è bellissimo. È necessario. È energia e sogno. È magmatico e si ridefinisce continuamente. 
In posti così capisci che il futuro è adesso. Se si trattasse di prodotti per il mercato la fiera sarebbe solo noia e grosse cravatte su giacche blu. Ogni stand è una sorpresa, ti accende neuroni, ti stupisce.
Sì, alcuni sono destinati al fallimento, altri meno, altri sono figate pazzesche: in questi casi è il tutto che acquisisce valore perché valgono tutti lo stesso rispetto e proprio dai fallimenti nasceranno le più grandi fortune.

Percepisci anche la distanza di quell’accozzaglia di cervelli dalle istituzione e dalla politica. Amici politici, andateci, almeno 4 ore, potrebbe cambiarvi la vita e dare ossigeno ai vostri neuroni. Anche l’Università che l’ospita sembra un guscio vuoto, e i palazzi diventano quinte polverose per  un dinamismo dimenticato tra quelle mura che è forse quello che ha fatto, centinaia di anni fa, nascere l’idea stessa degli studi superiori.

La curiosità è la leva che sposta le persone lì, la collaborazione è il pilastro che le cementa, la fiducia un prerequisito naturale all’essere lì. Il talento l’indicatore di reputazione.
Mi ha colpito la forte presenza femminile in tutti gli stand che leggo secondo due direttrici: più donne nelle facoltà scientifiche, nei gruppi di coding e nei fab lab, così come (finalmente!) la presa d’atto che la tecnologia senza l’umanesimo magari sviluppa mercato ma non ha impatto sulla società e lascia l’Italia sempre più in fondo alle classifiche.
In quei vialoni, oggi ho sentito davvero forte il senso della tanto declamata Social Innovation e di cosa voglia dire progettare con e non per.
Grande la presenza di designer. Intendo dire che le cose presentate erano spesso molto belle, molto più di quello che ti aspetteresti da un nerd o da chi pensa che le soluzioni siano responsabilità delle procedure. Grande attenzione quindi alla esperienza d’uso.
Mi ha sorpreso come gli stand delle grandi aziende come Google, Telecom o Microsoft elemosinassero visitatori a suon di gadget. Se li filavano in pochi, così come le loro soluzioni ‘chiavi in mano’ reperti di una preistoria fatta di SMAU e saloni del genere. A generare la ressa erano invece gli stand che abilitavano gli utenti a fare cose nuove, a esplorare strade, non a applicare procedure codificate in California per essere usate da Tivoli a Tahiti.  

Andateci, lasciatevi stordire, guardatevi intorno, fatelo per voi stessi e poi – chissà – darete anche voi vita a qualcosa di buono per tutti.

martedì 30 giugno 2015

La tirannia del weekend sempre impegnato

Permettetemi uno sfogo: è un numero imprecisato di weekend che lavoro.
È vero, non sputare mai nel piatto in cui mangi e ringrazia, però non posso esimermi dal notare come da tempo molte delle cose più interessanti avvengano nel  fine settimana.

Possono essere festival, docenze a master, workshop sull’innovazione, sessioni di coprogettazione, o altre diavolerie interessantissime che ti spingono ogni volta pensare “Voglio esserci, per imparare, per scambiare, per partecipare, per dare maggiore spessore ai miei progetti, per ascoltare X che da tempo vorrei incontrare di persona”. 
A volte mi pagano per partecipare, per tenere una relazione o animare un incontro; a volte è pari e patta con una branda e una cena; altre volte pago e sono pure contento di farlo.
E i weekend passano così… come se fosse sano, normale, così da sempre. Non è vero, una volta c'erano le grigliate, l'abbronzante, la gitarella senza post-it né visual map. 
È un segno dei tempi? Devo forse imparare a staccare da tutto il martedì mattina per spiaggiarmi a Capocotta senza sensi di colpa? Le risposte arrivano lente, intanto io arranco per sfiancarmi nei brainstorm del weekend dopo una settimana già a testa bassa.

E poi le Summer School, dove le mettiamo? Una organizzazione che si rispetti deve sempre avere la sua Summer School per non sembrare un dopolavoro o un cenacolo di allegri burloni. Sono tante, attraenti e pure tutte interessanti. Però la School  sta alla violazione delle vacanze estive proprio come i finesettimana sempre pieni lo sono per il riposo.  

Allora ti assale il dubbio…
Che dietro il design thinking ci sia soprattutto voglia di contarsi, riconoscersi, misurare la quantità di speranza che possiamo permetterci di nutrire.
Che le alchimie della misteriosa blockchain non vadano davvero capite ma servano a dirsi: per guadagnarci la birretta al tramonto proviamo a sudare assieme riflettendo sul futuro. Che la Social Innovation sia un'assunzione di responsabilità a tempo pieno e - detto ciò - se ti perdi un TED per svaccarti in agriturismo ci guadagni sia in salute che in conoscenza. 
Che in fondo tutto questo incontrarsi e per affrontare i problemi sia uno speed date della conoscenza, una specie di piattaforma antiedonistica e laica che trasforma il capitale intellettuale in strumento di seduzione e sedizione.

Ora che l'ho scritta non è che la cosa mi spiaccia, mi sono un po' pacificato.
Però per chi ha famiglia e pupi, come il sottoscritto, rimane sempre acrobatico spiegare come l’ennesimo weekend a zonzo sia proprio necessario e importante (perché nessuno ti chiede mai di giustificare l'urgenza e l'importanza di cosa fai il martedì mattina.)

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Dedicato con affetto a tutti gli amichetti che si sbattono per organizzare tutto questo ben di dio. Incluso me stesso e coloro con cui sto progettando con entusiasmo 2 Summer School, domeniche di docenza già in agenda, attività di co-living e varie e eventuali che danno gusto e senso anche a quello che faccio in settimana.


domenica 12 aprile 2015

Garanzia Giovani e Servizi per l'Impiego: cosa servirebbe e cosa invece non serve ai lavoratori.

Sono circa 1,5 i miliardi di Euro che si stanno bruciando in questi mesi in una inutile iniziativa denominata Garanzia Giovani. È un intervento di sostegno ai giovani senza lavoro deciso nel 2013, su cui Istituzioni, Enti di Formazione e Agenzie varie si sono accapigliate per oltre un anno a definire i criteri con cui dividere il bottino e l’alibi con cui farlo. A due anni dalle decisioni europee molte regioni stanno ancora definendo le regole del gioco (qui qualche dato).
Le azioni proposte seguono percorsi che si chiamano Orientamento, Tirocinio, Apprendistato, Formazione, Autoimprenditoria (che associata alla parola Giovane NEET suona come un ossimoro). Tutte  parole create nella forma e nella sostanza negli anni ’90, quando il ministro di riferimento era Treu, il tempo indeterminato era per molti ancora un obiettivo realistico  e Internet lo usava solo la NASA. In breve, un piano destinato al fallimento in culla e i suoi progettisti destinati al girone degli ignavi.
Inoltre, la Garanzia Giovani e il Job Act stesso si calano in un contesto in cui i Servizi per l’Impiego pubblici sono evirati di testa e braccia con l’abolizione delle Provincie e revisione della conseguente delega in materia, e la fantomatica costituzione di una Agenzia Nazionale per l’Impiego da edificare in 2-3 anni sulle carcasse di ISFOL, ItaliaLavoro e (buon senso direbbe) la parte di INPS che eroga gli ammortizzatori sociali.

In generale, credo che il mercato del lavoro possa vivere solo se è funzionale a una strategia di sviluppo e investimento sui settori economici ai quali l’Italia è vocata e, in parallelo, rendendo più facile la vita di chi tenta di creare lavoro in termini burocratici, di accesso al credito, di legalità, di giustizia fiscale.

Ho più volte scritto su questo blog come a mancare non siano i soldi ma le idee e il rimpallo tra le istituzioni e le parti sociali sia il segno della diffusa incapacità a confrontarsi col presente.
Per lavoro e come cittadino, assisto allo sviluppo di molti servizi per l’impiego che, nell’assenza istituzionale, portano risposte e efficacia. Vedo anche il pericoloso distacco crescente tra pubblico e privato e la progressiva inutilità del pubblico rispetto a un privato che si auto aiuta senza considerarlo e neppure chiedendogli più soldi.
Nei servizi attuali non si vedono azioni di senso in relazione alle nuove forme di lavoro, allo sviluppo delle competenze legate lavoro autonomo che riguarda almeno il 70% dei nuovi assunti. La cosa più innovativa è forse il Contratto di Collocazione in troppo timida sperimentazione, che riprende prassi che in UK hanno ormai 15 anni e che già vengono ripensate perché superate dai tempi.
Quello che invece vedo è:
  • il nascere di veri e propri pezzi di servizi attivi del lavoro fuori dal sistema, in luoghi come i fab lab, gli spazi di coworking, gli spazi per makers, non nella logica modaiola delle start up (chimere sopravvalutate per pochissimi) ma come luoghi dove avviene l’apprendistato alla libera professione, non sancito da alcuna legge ma destino che riguarda la stragrande maggioranza dei giovani.
  • la fine sul campo della retorica delle relazioni intergenerazionale di molti progetti-fuffa in cui “gli anziani passano competenze e relazioni ai giovani” o del "salviamo i mestieri che non ci sono più". Gli over 50 sono spesso espulsi perché a disagio nelle richieste del mercato del lavoro e sono loro le fasce deboli che i giovani possono sostenere e attualizzare. I mestieri non ci sono più quasi sempre perchè non hanno più senso. Gli stessi over 50 si sforzano di adattarsi a un mondo dove le relazioni (come tutte le informazioni) non sono potere se tenute strette ma solo se scambiate.
  • Grazie alle piattaforme online, è possibile la disintermediazione di ogni servizio e la nuova centralità di concetti come la reputation del candidato e il branding dell’azienda. Se parliamo di lavoro, è già la fine dei modelli on line dell’incrocio domanda offerta pubblici e privati (peraltro in Italia irrilevanti dal punto di vista statistico) per un modello su cui trionfano modelli di selezione in cui l’evidenza pubblica della vacancy c’è se genera anche branding all’azienda, altrimenti i canali di ricerca rimangono ‘informali’.
  • La necessità del bastone e della carota. Nessun servizio può essere standardizzato se non risponde alla regola per cui gli ammortizzatori sociali vengono erogati solo se il lavoratore si attiva davvero per cercare lavoro. La retorica del reddito di cittadinanza è dunque spazzata via dalla logica del reddito minimo garantito, garantito solo “se”. Oggi questo non succede, mai, neppure quando la legge in qualche modo lo imporrebbe come nella CIGS e nella Mobilità.  (Voi lo immaginate in Italia un impiegato del centro per l'impiego che ‘tiene famiglia’ e rifiuta l’assegno a un utente perché non si è attivato, magari lavorando in nero? Io no)
  • La lettura intelligente dei dati. La progettazione dei servizi è scalata di modello con l'uso dei dati. Anche in Italia sono in atto hackaton interessantissime sul come mettere in relazione la grande mole di dati sul tema per comprende il mercato del lavoro e sviluppare servizi che rispondano a esigenze reali e non alle lobby.  Non pensate perà di trovarvi funzionari o accademici, queste nuove piste di lavoro le sviluppano gruppi di cittadini che poi riporteranno alle comunità e ai territori la conoscenza messa a punto.
Lo avrete capito, quello che mi tormenta di più oggi è la mancanza di dialogo tra mondi che si sono voltati le spalle per comodità, autodifesa, paura, interesse e nell'allontanarsi uno dall'altro sfaldano il terreno su cui poter costruire un futuro solido per chi c'è e chi verrà. Bisogna lavorare per ricucire. 


mercoledì 12 novembre 2014

Quando l’Economia Collaborativa non genera collaborazione.

L’Economia Collaborativa non è più terreno di collaborazione quando la corsa al posizionamento dei suoi attori istituzionali scatena gomitate nella competizione per l’accesso ai nuovi fondi disponibili.

Non mi stupisco, non mi scandalizzo, disperde energie ma lo trovo fisiologico ma non riesco a esimermi dal commentarlo.

Chi sarebbero poi questi ‘Attori Istituzionali’ deputati a rappresentare la Sharing Economy? Qui viene il bello, pur non esistendo in natura nascono in questi giorni come funghi, uno dopo l’altro.

La filosofia alla base dell’innovazione sociale e dell’economia collaborativa porta soluzioni sostenibili a problemi concreti; soluzioni spesso diverse come sono diversi i territori e le comunità; esperienze dove il ‘fare’ vinca sempre sul ‘teorizzare’ e sul ‘mettere a sistema’.

Personalmente, nel 2011 ho cominciato a realizzare come la crisi stesse cambiando le persone e il loro ordine di valori e priorità e come l’unica via per uno sviluppo sostenibile sul lungo periodo fosse quella di perseguire strategie fondate sull’Innovazione Sociale in cui collaborazione e partecipazione creassero valore per i business come per i territori. Passavo ore nello studio dei casi, di riflessione sulle prime stentate applicazioni dell’idea. 
Poi alcuni amici mi hanno coinvolto nell’esperienza concreta dell'avvio di Impact Hub Roma che mi ha messo in contatto con nuovi modelli organizzativi, finanziari, produttivi sempre più aperti allo scambio e all’innovazione. 
Ho nel frattempo sperimentato la forza di logiche social e partecipative nelle mie attività quotidiane. Ho imparato sulla mia pelle che le ‘buone prassi’ non significano quasi nulla e che è importante invece coccolare e alimentare i ‘segnali deboli’ che arrivano.
L’impatto più forte che tutto ciò è stato sul mio lavoro, quello di sviluppo di progettazione di servizi per l’occupabilità e per lo sviluppo locale, ambiti che ho reindirizzato in una nuova prospettiva.

Ancora fino all’anno scorso ai rari eventi in materia di Economia Collaborativa, come la Smart City Exibition o la Oui Share Fest, cercavo segnali utili a ripensare il mio intervento e tra i pochi presenti con fatica si cercava di separare la lana dalla seta, la CSR dalla creazione di valore condiviso, il marketing dall’innovazione, costruendo anche una terminologia comune.
Da pochi mesi il fenomeno è esploso ed è un proliferare di eventi e convegni con panel professionali dove in migliaia vagano tra la ricerca dell’illuminazione e quella dell’informazione. 
Tutto è diventato Social Innovation e centinaia di persone e organizzazioni ti dicono che “loro la fanno da sempre” e che la loro è più “Innovation” di quella degli altri. Ci si accapiglia per decidere se quello che fanno gli altri è Sharing Economy o solo una furbata. 
C’è già chi è sul mercato per vendere a qualche migliaio di euro qualche “metodo” per fare innovazione sociale, chi promuove percorsi di cambiamento in 5 o 7 fasi che ricordano la fuffologia organizzata de La Profezia di Celestino. Dilagano i Summer Camp con le loro irritualità postideologiche organizzate che già sanno di nuovo conformismo.

I casi concreti, i successi e gli insuccessi reali latitano (o sono sempre gli stessi) e ho la sensazione che la loro iper esposizione mediatica rischi più che mai di soffocarli nella culla.
Ci sono poche idee in giro, poco coraggio e poca possibilità di pensare in grande. Nessuno misura impatti e sostenibilità delle azioni, nessuno protegge le creature neonate dalla furia dei monopolisti. 
I casi di vero successo non hanno forza per comunicarsi e chi ha denaro o contatti si accredita comunicando fumo al sapore di futuro. 
Per anni ho combattuto contro il “Modello danese” dei servizi per impiego ritenendolo impraticabile in Italia e già mi trovo a storcere il naso davanti a quello olandese sulla Sharing Economy (ma anche quello milanese o bolognese che perdono significato altrove).

Nessuno è però impazzito, il fenomeno è noto: è semplicemente nato un mercato.
Detto fuori metafora: ci sarà un botto di soldi su questi temi, soprattutto denari pubblici. 
I nuovi Fondi Strutturali presto a disposizione dei territori contengono una litania di termini come ‘Spazi di coworking’, ‘Innovazione sociale per i territori’, ‘Tecnologie abilitanti’, ‘Co design dei servizi’ messi lì da consulenti e pochi funzionari illuminati per dare sapore ai Programmi Operativi ma col rischio di rimanere etichette senza conseguenze reali.  Non mi stupirei se da domani il prefisso ‘Smart’ venisse associato anche alle slot machine e ai corsi di tango. 

Si tratta centinaia di milioni di Euro per i prossimi anni, su tutto il territorio e dunque il mercato spinge chi fino a ieri ha fatto corsi per estetiste o web designer a virare su qualcosa tipo ‘Social Innovation Empowerment and Strategic Thinking’ di fantozziana memoria. Le società di consulenza turbocapitaliste riscopriranno il valore della famiglia o dell'usignolo palustre. Chi ha fatto cucine le farà ‘Smart’, chi ha gestito balere per anziani le renderà ‘attività resilienti’, le Pro Loco si chiameranno ‘Living Lab’, ignari NEET si baloccheranno col mito delle Start Up fino a finire tra le grinfie degli strozzini e nel frattempo tre quarti della saggistica si contenderà nel titolo la parola ‘comunità’ o ‘collaborazione’ per descrivere un mondo piccolo e troppo autoreferente.

Paradossalmente una destinazione del denaro fortemente etichettata nel senso della Sharing Economy o della Social Innovation diventa facilmente fattore di rallentamento del processo di cambiamento e porta alla creazione di ‘riserve di caccia’ che già si stanno ben delineando.

Sento parlare già di professioni della Sharing Economy come se questa dovesse per forza crearne (perlopiù le distrugge perché diminuire il consumo di risorse farà scendere il lavoro ben retribuito. Tuttavia si crea altro: valore sociale, relazioni, nuovi rapporti tra generazioni). 
Mi pare che le uniche professioni nuove che si vedono in giro sono quelle degli ‘Evangelizzatori dell’Economia Collaborativa’.

Questa spinta all’istituzionalizzazione mal si adatta alla natura poliforme di un approccio al mondo fatto di collaborazione tra pari. 
È pericoloso etichettare o etichettarsi come “Quelli che…” fanno Innovazione Sociale o Economia Collaborativa ma manterrei le vecchie categorie di Artigiani, Produttori, Amministrazioni Pubbliche, Clienti, Contadini, Politici, Educatori, etc… piuttosto c’è da ragionare sul nostro modo di interpretare la relazione col mercato e con le risorse, il nostro senso di responsabilità, la nostra attitudine alla sperimentazione e alla collaborazione.
Per hanno in Europa hanno provato a sviluppare l'Industria Creativa e Cuturale e ora stanno facendo una virata totale e parlano di spillover, di contaminazione verso gli altri settori e non di un settore a parte. La vedo come unica via efficace anche per l'Economia Collaborativa.

C’è dunque molto da fare e ben vengano i soldi ma che vadano a sviluppare processi e dinamiche di rinnovamento soprattutto interni ai settori pubblici e privati esistenti. Che si sviluppino occasioni e luoghi per il dialogo, sintesi e proposta tecnica e politica tra gli operatori, senza creare nuove e fittizie tecnostrutture fatte solo di parole e portafogli.