Per lavoro ho l’opportunità di viaggiare parecchio per l’Italia. Dove mi chiamano, quasi sempre mi
occupo di lavoro, disoccupazione, sviluppo locale, cultura, e dunque entro per
quanto possibile in temi che caratterizzano la costruzione di una democrazia e
l’affermazione della felicità dei singoli e delle comunità.
Quello che vedo è un Paese che non è per niente un solo Paese.
Ogni volta, scendendo dal treno, mi sembra di essere all’estero.
Esiste una diversità che è ricchezza se sviluppata dentro un
progetto unificante e una diversità che è zavorra individualista se non tiene
conto né della realtà né del proprio vicino: mi trovo molto più spesso nel
secondo caso.
Arrivare a Milano
è recarsi uno Stato a parte. Va ad una velocità tutta sua, con pensieri e
azioni che riguardano solo se stessa, in gran parte luminosi e visionari e in
altra parte profondamente egoistici. In pratica batte moneta, detta la linea,
non si guarda indietro, macina novità in maniera bulimica scommettendo che
nella quantità si produca la qualità. Esprimerà presto la classe dirigente e
politica del resto d’Italia. È nel XXI secolo, da sola. Bologna non riesce invece a fare i conti con se stessa, decidere se
essere una città o un’idea, stenta a capire come e perché è cambiata e dove
vuole/rischia di essere tra dieci o quindici anni. Ha anime che cooperano perché
credono nel valore della condivisione, e interessi che ne minano l’anima; in
una tensione che percepisci lama sottile e dagli effetti imprevedibili. Napoli ti salta addosso e tutto lì ti
pare eccessivo, nel bello e nel brutto, impedendo di pensare. Perde qualsiasi
treno antecedendo a qualsiasi progettualità la frase “Non si può fare perché a
Napoli le cose sono diverse…” e per ‘cose’ intendono leggi, sogni, idee, regole
civili. Bella per le foto con Pulcinella tristi come il paesaggio devastato che
la circonda da ogni lato e le voragini sociali che ne assorbono le energie. Reggio
Calabria annienta ogni speranza, di chi ci vive e di chi ci passa. Lei e la
sua regione paiono il buco nero del resto d’Italia, un luogo che non ha l’attenzione
di nessun altro, inclusi i suoi abitanti. Quando la frequenti la ami come si fa
al capezzale di un’amica sofferente e ti chiedi perché nessun altro sia lì a
immaginare prognosi e cure in grado di cambiarle il destino. Genova invecchia con i suoi abitanti,
avvizzendo idee e slanci in una lotta impari contro le scempiaggini che gli
uomini che la abitano hanno fatto a se stessi martoriandone territorio e ideali.
Non si ama e non ama. Lì essere giovani pare quasi una colpa e la cosa migliore
per espiarla è il non dare fastidio o andarsene. A Cagliari e in Sardegna sei in un altrove da sempre, in un Paese
bellissimo e enigmatico dove la differenza culturale si erige a barriera e non
a valore, che ammette di esistere quando scopre di non poter essere isola fino
in fondo e di dover esportare latte senza importare mercato; in una regione
felice perché la retrocessione economica le farà prendere più fondi europei
destinati ai territori non sviluppati. C’è la sosta a Torino che per un po’ ha creduto di esistere anche fuori dai propri
confini, di poter fare e cambiare, di poter uscire dall’isolamento un po’
vezzoso grazie alla laboriosità innata dei suoi abitanti e anche grazie alle
Olimpiadi e alla TAV. L’asfissia delle idee e la pressapochezza della politica
l’hanno invece molto rallentata.
Anche il posto dove vivo, Roma, è a suo modo all’estero. Lo è rispetto all’Europa che
funziona, che traina pensiero ed economia, che reputo l’unica casa possibile per tutti. Una Capitale di serie B arenata nelle opportunità non colte, senza un’idea di futuro e neppure di presente. Dove la domanda inespressa da tutti è “Che ffamo?” e la responsabilità individuale
segnata dagli “’Sti cazzi.”
Dove ogni
riflessione politica si arena presto in chiacchiere da stadio o in vaffa’ generici
che tengono al sicuro le proprie rendite di posizione. Un posto dove la
risposta non è neppure dentro di sé perché lì non albergano neanche le domande.
Eccolo, il post politicamente scorretto, per dire anche a me
stesso che così non può funzionare, che non si può continuare a procedere con occhi e orecchie chiuse, e che gli
spazi per ricostruire sono infiniti, basta volerli abitare con l’intelligenza
prima che altri li occupino con la brutalità.
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