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lunedì 10 agosto 2020

Potevo essere un guru

Sono tempi difficili dove non mancano le domande importanti: che lavoro faremo tra sei mesi? Come riusciremo a studiare? Come si comporteranno i miei clienti? Come superare la  paura? Come posso ottenere il successo che merito se devo rimanere chiuso nella mia cameretta inflebato in una fibra ottica? Quali sono le chiavi di accesso ai pensieri di mio figlio teenager? Come faccio a pubblicare il mio nuovo successo? Cosa manca al mio CV? E così via…

Quando il mercato è saturo di domande quello che non manca mai sono i risponditori. Non tutti sono allo stesso livello. Tra loro, per selezione naturale emergono i nuovi guru.

Operano via Zoom, via ebook, su Youtube. Alcuni esistono da tempo, facevano conferenze costosissime a manager e disorientati vari, altri sfornavano libri sulle aquile che non vogliono essere polli, sul pensiero divergente, sulla seduzione comportamentale, sulla pranoterapesi neurostilistica applicata al team building, sull’intelligenza emotiva della danza sufi. Tra di loro monta una coorte sempre più affollata di personaggi sorridenti che si assegnano etichette di motivatori, mentori, coach, spinn doctor, evangelisti digitali, montemagni, ispiratori, tutti con le risposte giuste.

Meno male che esistono. Alcuni di questi guru sono bravissimi, li ammiro e li osservo in azione per ore come faccio con gli stand up comedians, i predicatori e i fenicotteri rosa. Danno risposte chiare e confortanti. Puoi quasi sceglierle da un catalogo: eccoti serviti “5 modi per chiedere un aumento”,  “4 cose da fare per affrontare il lunedì”, “Fare un superbusiness plan in 10 passi”, “I 3 segreti del funnel marketing che ti cambieranno la vita”, “Lo Yoga della risata per dare il meglio di te”, “Il vero te che è in te anche se”, “Vendere è come respirare”. Sono ansiolitici per vocazione e già per questo fanno un grande servizio all’umanità.

Eccoli in azione: prendono la scena con un bel “Sarà capitato anche a voi…”, ci ficcano un aneddoto che riguarda la loro vita passata “…anche io quando ero ancora un pirla…” che li avvicina a tutti  noi, poi ecco “però quella volta è stato diverso perché …” e arriva la folgorazione di come hanno superato l’ostacolo, “e dunque…” sono lì per rendervi edotti dell’illuminazione toccata proprio a loro e che cambierà la vostra vita perché ha cambiato anche la loro. “Perché voi valete”. Grazie. Applausi.

Non si può fare troppa ironia sui guru. Loro hanno il senso dell’umorismo, meno però i loro seguaci. Senti subito il gelo, come capita a volte quando tocchi in pubblico stravaganze come la religione o gli oroscopi. Quando ci ho provato in aula ho capito che metà dei presenti aveva sborsato il prezzo di un volo aereo per Parigi solo per ascoltarli in una grande sala sulla Via Nomentana e senza buffet all’uscita.

Questi guru moderni sanno dare le risposte giuste per lunghezza e complessità, genericamente vere e comode, motivanti e poco responsabilizzanti, che suonano come perle di saggezza e pregne di vision, ponendoti nel giusto e non lontano dalla meta.

Sono dei fuoriclasse nell’elencare Cosa fare e Come farlo, e svicolare dai Perché.

(Quasi ogni anno mi capita di scrivere un pezzo 'intimo' in agosto. Una valvola di sfogo. Lo vorrei evitare ma ecco che arriva da qui in poi.)

Confesso che il perché è l’unica cosa che mi interessa davvero in quello che faccio (e in quello che fanno o non fanno gli altri). E mi stupisco ancora l’interesse di pochi sui perché.  I Perché sono scomodi e spesso non pagano. Però avere chiarezza sui Perché azzera i rimpianti; non averne, genera i rimorsi.

Potevo essere un guro. Io lo so. Ho una buona favella, una vasta cultura generale, se lo desidero so pure ascoltare, riesco a produrre una visione laterale di qualsiasi cosa, so stupire con poco, avrei anche i giusti tempi scenici. Però.

Però mi annoierei a morte a dare risposte di buon senso. Preferisco stare dalla parte delle domande. Rinuncio ai consigli per vite che non comprenderei mai a fondo perché non ho i loro occhi e quello che coglierei non è dunque reale.

Saprei dire a 1000 persone cosa dovrebbero fare per avere successo e per 800 almeno suonerà sensato e applicabile, però mi vergognerei per aver servito una pietanza da fast food; se tentassi di sciogliere per loro il nodo del perché debbano aver successo servirebbero ore per ciascuno, prenderei molti vaffa’ e mi mancherebbe almeno una laurea in Psicologia.

Lo ammetto, quando insegno per alleggerire la pressione e prendere fiato a volte ci infilo anche io i “7 passi per…” e mentre li elenco mi annoio come se contassi le formiche in fila sul muro. Però quello su cui mi incaponisco è dare spazio a “Perché qualcuno dovrebbe sceglierti? Farti lavorare? Passare del tempo con te? Acquistare un tuo servizio?” Domande che pongo anche a me stesso, diverse volte la settimana, e le cui risposte, sempre approssimative, si formano costruendo la strada da percorrere.

La guraggine funziona se riesci a spacciare per vero belle parole come “Tutti ce la possono fare”, “Se ti impegni, i risultati verranno”, “E’ ovvio che ti meriti l’aumento!”, “Gli ostacoli sono grandi opportunità” e altre sciocchezze simili che agli occhi di una persona razionale cessano di essere vere già durante le scuole elementari. Però è bello ascoltarle da anche adulti, circondati da altri adulti e poter così credere ancora alle favole. Per il guru è facile dirle specchiandosi nelle aspettative di chi ha davanti, serve solo un po’ di esercizio, preparazione, un grande ego e la capacità di non dire nulla di indigesto.

Io li riconosco subito quelli che non si meritano nessun aumento, che stanno per andare a sbattere perché neppure vedono gli ostacoli, o quelli che della vita vorrebbero solo la panna e che tu manovrassi pure il loro cucchiaino, quelli che sono finiti sul binario sbagliato, quelli che non hanno avuto fortuna, e non ho né la forza né la capacità per influire davvero nelle loro vite, soprattutto se non si chiedono perché questo dovrebbero farlo accadere.

Io li vedo come li vede qualsiasi guru. A dare però rispostine ansiolitiche non ci sto. A dirgli che va tutto bene lascio che siano i film americani e gli hashtag pandemici.

 

martedì 14 maggio 2013

L’intelligenza collettiva può portare anche l'Italia nel XXI secolo.

A fianco dei molti che si lamentano ci sono parecchie proposte. Alcune hanno impatto potenziale sulle città, altre su un quartiere, un settore economico, un gruppo di persone, una famiglia.
Molti applicano schemi totalmente differenti da quelli del qualunquismo o dal semplicismo delle inchieste di molti media. Viene fuori con forza una crescente voglia di assumersi le proprie responsabilità unita però alla demotivazione legata alla solitudine. 
In tanti vorrebbero, ad esempio, fare la raccolta differenziata, usare la bicicletta, scambiare il proprio tempo, privilegiare i negozi di quartiere, partecipare alla vita sociale e culturale, interagire in modo differente, intelligente e costruttivo con i turisti piuttosto che con gli immigrati o i fuorisede. Ma in pochi lo fanno. Dicono di non saperlo fare, che si sentono soli, non si sentono sicuri. Lo farebbero, se ciascuno facesse la propria parte.
Percepisco questo desiderio, la voglia di non sentirsi soli in un’opera di ricostruzione dei valori della socialità da moltissimi ritengono necessaria, e l’intuizione che necessario collaborare. Già, perché esiste una intelligenza collettiva che contiene le risposte al disagio e a molti degli effetti della crisi. Risposte e soluzioni però che sono frammentate nelle esperienze e nei contributi dei singoli.
Ecco, grazie alle storie di molti mi sto convincendo come nella modernità liquida in cui la certezza del tempo indeterminato non è più nelle relazioni, come nei lavori, e neppure nei mobili o nelle idee, un ruolo nuovo richiesto alla politica sia quello di facilitare i processi di collaborazione tra persone (e tra istituzioni, e tra imprese, ...). Intendo dire immaginare luoghi che siano per vocazione destinati a creare socialità. Parlo sia di luoghi fisici, spazi pubblici dove non si sia “destinatari di servizi” o “utenti” ma co-progettisti e protagonisti di scambi di idee, talenti, tempo. Che spazi virtuali, e dunque piattaforme on line dove condividere e/o scambiare tempo, talento, libri, auto, spazi verdi, parcheggi, attrezzature, ricette, consigli medici, camere sfitte, libri, energia pulita. Tutto per mettere a contatto persone che si scoprono affini, magari anche grazie ai facilitatori che includano i più deboli, che spingano al dialogo tra generazioni e tra generi, che sorveglino il rispetto della legalità e dei valori democratici e della libertà di espressione. Un dialogo anche mirato a comprendere i problemi, raccogliere segnalazioni, sviluppare soluzioni, indicare percorsi a chi amministra.
Credo che siamo chiamati a un grosso salto di qualità nelle modalità del vivere collettivo con l’individuazione di nuovi modelli di relazione che funzionino in un tessuto urbano complesso.
Sono cose che nel mondo, quello che va a velocità ben più rapide della nostra si fanno da tempo. Molte soluzioni sono lì, e le vede chi viaggia, chi fa l’Erasmus, che anche solo passa un weekend a Parigi, Londra o Vienna, luoghi che cambiano perché cambiano i comportamenti dei cittadini. Nel mio piccolo, sono ancora turbato dalla scelta di Shangai, definitasi  Sharing City individuando 20 ambiti nei quali la collaborazione tra cittadini ridefinisca l’economia. Un approccio questo che fa sembrare il concetto di Smart City, tanto sbandierato, già obsoleto e utile solo a riempire qualche convegno finanziato con soldi pubblici.
So bene che siamo in Italia, nel 2013, e non mi illudo che il senso civico, il rispetto delle regole, o l’amore per il prossimo muovano le masse verso la tutela del bene comune o – meglio ancora – nella messa in comune. Il senso civico è stato massacrato da decenni di irresponsabilità istituzionalizzata e – tolto l’omicidio – ogni reato contro la collettività è depenalizzato nei fatti dal “tanto lo fanno tutti”. L’Italia non può improvvisamente scoprirsi virtuosa. Ma questo nuovo coinvolgimento si può generare educandoci. Magari non più con le trite campagne di informazione e sensibilizzazione ma con processi di experience design e gamification e vedrete che funziona. 
Lo so, pare surreale far provare alle persone "quanto è emozionante fare qualcosa di utile" ma è ormai una via necessaria. 
Immagino anche ad esempio incentivi alla partecipazione collettiva, come ingressi gratuiti musei o eventi, campagne di fidelizzazione, omaggi da sponsor, questo per chi suggerisce soluzioni, segnala inefficienze, presta il suo tempo, partecipa, si iscrive, ragiona, scambia, per il bene della Società. Verso una Società per Buone Azioni. 

giovedì 27 dicembre 2012

E se il 2013 fosse l'anno della svolta...

Mi piacerebbe chiudere il 2012 con un messaggio di ottimismo perché sento, vedo, che dalla crisi si uscirà, in qualche modo. E i segnali cominceranno a manifestarsi presto.
Fuori dal tunnel ci scopriremo  però molto diversi. Questi anni stanno cambiando gli atteggiamenti e le abitudini, il modo di vivere ma anche di sognare, come mangiamo, viaggiamo, immaginiamo. C’è chi ne è travolto, giace attonito e va aiutato a rimettersi in piedi. C’è chi si è aggrappato a quello che ha incattivendosi. C’è chi sta imparando molto su di sé e il nuovo mondo e sta già ripartendo verso direzioni sconosciuto per definizione. Io forse non sono abbastanza giovane per considerare a crisi del tutto una opportunità ma neppure così arreso da vederne solo le conseguenze tragiche.

Ogni volta che leggo di qualche migliaio di lavoratori messi in cassa integrazione perché si vendono meno automobili (o camicie, o cucine, o filetto di Angus) da una parte sono in pena per loro, ne conosco le difficoltà a reinventarsi per guardare il futuro a testa alto e pagare il mutuo, so bene che le crisi lavorative travolgono i matrimoni e le famiglie, azzerano la stima e l’autostima; dall’altra sono affascinato dalla prospettiva di un mondo con meno auto, o camice inutili, o fornelli supermoderni dove nessuno cucina mai.
I segnali del cambiamento arrivano dalle piccole cose  di ogni giorno. Mi sono trovato a discutere di banalità come schiuma per radersi e dopobarba e i presenti concordavano come siano entrambe cose del tutto inutili (“Basta un po’ di normale sapone messo sul viso, e alla fine sei pure profumato”); ho diversi amici che sono passati con grande soddisfazione al car sharing e non torneranno di certo indietro; c’è chi realizza scaffali e mobili per gli amici in cambio di una cena, quattro sorrisi o sei ore di babysitting; chi fa lo stesso coi siti internet; la disposizione a far circolare i vestiti usati dei bambini supera i confini delle famiglie; ho conosciuto un gruppo di ragazze che si vede per fare la maglia assieme (vabbè, lo chiamano crowdknitting, ma il succo è quello); le vacanze si fanno sempre più in casa di qualcuno e con qualcuno, rinunciando ai lussi degli hotel per riscoprire il piacere delle amicizie coltivate anche lavando i piatti assieme.

In molti di noi sta nascendo un gran bisogno di vedersi e parlare, riflettere sugli errori, chiedere consigli, scambiarsi soluzioni, ecco, forse questa è la vera rivoluzione. Perché è chiaro che da soli si perde, non si comprende il presente e non si può affrontare il futuro. Il percorso è lungo e la meta resta in movimento: se perdiamo tempo a sgambettarci a vicenda ci sarà sempre qualcuno che ci supera. Collaborare è la parola chiave. Lo so, suona un po’ da Alcolisti Anonimi, ma sta cominciando a funzionare. In questo quadro la tecnologia aiuta anche, e quello che sembrava fino a poco fa un mondo rintanato nel virtuale, è grazie al virtuale che sta nascendo un nuovo valore alle attorno alle amicizie che fa anche aumentare il valore reale di ciascuna.
Questa voglia di fare/stare assieme trova un corrispettivo anche nel mondo del lavoro. Le comunità professionali sono ormai solo delle gabbie e 10 ingegneri (o architetti, barman, giornalisti, web designer, psicologi, insegnanti…) messi assieme da soli fanno danni (a se stessi e agli altri). Le chiavi di lettura di realtà e necessità sono talmente complesse che solo unendo diverse competenze, ansie, motivazioni e talenti si può immaginare anche il lavoro che verrà. Capita sempre più spesso che allo stesso tavolo ragionino tecnici, filosofi, artisti e redattori per definire le caratteristiche dei prodotti e delle esperienze che essi dovranno trasmettere. Direi che questa cosa buona è.

Sono da sempre un ottimista, lo so, continuo a esserlo anche quando mi sfugge il perché.
L’anno che sta arrivando tra poco passerà, lo so, ma ci si sta preparando assieme è questa la vera novità.

sabato 8 settembre 2012

Sto dalla parte dei lavoratori se qualcuno sta almeno un pochino anche dalla mia.


Qualche settimana fa una matrona veggente dell’INPS, guardando nel mio futuro ha affermato che potrei andare in pensione a 67 anni e 2 mesi. Ha anche estratto alcuni numeri corrispondenti all’ammontare in euro che percepirò quel giorno, una cifra spiritosa se non mi sbrigo a metterci sopra una ‘pensione integrativa’. Ha infarcito le sue frasi di “forse”, “probabilmente”, “se non cambia la legge”, “con le regole attuali”, che hanno reso del tutto aleatoria ogni altra sua affermazione e mi hanno sempre più convinto che lo schema “lavora, risparmia e alla fine goditi il meritato riposo” tende a avvicinarsi troppo all’eterno riposo.
Non è che non lo avessi sempre pensato. “Lavorano solo quelli che non sanno fare altro”, me lo ha detto a tavola Massimo Bucchi, l’autore geniale della vignetta quadrata al centro del quotidiano ‘La Repubblica’. Lui è un toscanaccio irriverente e buttata lì così l’affermazione sembra un’offesa a chi il lavoro non l’ha ma in realtà è un esorcismo per chi non vuole pensare che dovrà lavorare per tutta la vita e poi morire e dunque vuole illudersi che quello che sta facendo sia altro, magari un hobby evoluto, un passatempo totalizzante, un disturbo che poi passa.
Le cose stanno cambiando più velocemente del sistema che le deve prevedere e governare. Che l’Ilva di Taranto fosse una follia da ogni punto di vista era risaputo, così come lo è l’Alcoa e le miniere di carbone in Sardegna, ma lo è anche la Fiat da almeno 30 anni e molte altre realtà utili solo alla politica, sostenute dalle nostre tasse, pilotate spesso da incompetenti totali se non da ladri in doppiopetto, distruttrici di territorio. Così come una follia sono stati i baby pensionati, ma anche i pensionati a 50-55-60 anni.
Ora il banco è saltato, il modello scricchiola, Schettino che abbandona la nave diventa un furbo da imitare: la rabbia di molti scagliata contro la ‘casta’ serve anche a scaricarsi di responsabilità e a negare che il debito pubblico, il disastro morale e ambientale non siano prodotti anche dall’aver vissuto per decenni nell’ignavia.
È l’ignavia di chi non chiede la ricevuta fiscale, degli inquinatori che avvelenano i propri figli, dei sindacati che difendono privilegi e storture immorali, del lavoratori che non lavorano, dei manager che pensano 60 volte al minuto solo al proprio culo e alla propria sedia, delle banche che piegano la realtà ai propri dividenti, di chi con piccole e grandi mafie scende a patti ogni giorno.  
Ma gli ignavi vanno all’Inferno, di questo sono certo. Non sono molti, sono moltissimi, e il guaio è che ci trascinano anche molti che le responsabilità proprio non le hanno: tutti gli altri.
Ormai è chiaro come non si possano salvare certi posti di lavoro, servirebbe solo a prolungarne l’agonia spendendo un altro fiume di denaro. Come le logiche che governano il pubblico impiego andrebbero del tutto riviste. Servono coraggio, idee, cuore e, soprattutto, fiducia. Allora le soluzioni nascono e si sviluppano, i soldi si trovano, eccome.E anche molti ignavi possono aprire gli occhi, perché sono un ottimista e penso che se si costruisce un contesto di fiducia le persone cambino
D'altronde queste operazioni, senza la fiducia, le fanno solo i regimi totalitari, che molti gradirebbero, è evidente, ma che io spero si sia in grado di evitare.
Sto dalla parte dei lavoratori, dunque, se qualcuno sta almeno un pochino anche dalla mia.