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lunedì 23 luglio 2018

"How to be Italian", nel Turismo, nel Lavoro.


Da un paio di mesi sperimento un’Esperienza su AirBnB: propongo una passeggiata di quattro ore per turisti dal titolo “How to be Italian”. Racconto ai partecipanti cosa ci differenzia dal resto del mondo nel pensare, gesticolare, vestire, mangiare, bere, corteggiare, gesticolare. E, soprattutto, mi soffermo sul perché siamo così. A prenotare sono prevalentemente americani.
Da anni avevo in testa di scrivere un libro sul tema e la diffusione del turismo esperienziale su grande scala mi ha dato l’opportunità di poter incontrare degli interlocutori interessati al tema, utili specchi alle mie riflessioni. Con loro il libro si scrive da solo.
A oggi, il bilancio è entusiasmante:
  1. I miei ospiti godono di una mediazione culturale personalizzata che nessuno mai gli propone. Da quello che mi scrivono capisco come cambi in loro la percezione del contesto, delle ragioni, delle esperienze che segnano la loro visita in Italia.
  2. Io ho profondamente cambiato le mie opinioni sul turismo e su molto mondo che mi passa accanto

Ho scoperto ad esempio come:
  • Molti, soprattutto gli americani e australiani, non abbiano il senso del Tempo e invece vogliano ‘fare’. È irrilevante raccontargli come un luogo abbia 2000 anni e illustrare l’avvicendarsi delle epoche o dei periodi artistici, dei Romani agli Etruschi, del gotico al romanico: ciò per loro non ha alcun senso reale. (Noi, d’altronde non abbiamo il senso dello Spazio che hanno loro.)
  • Anche per il motivo precedente, la maggioranza frequenta qualche museo perché ‘deve’, gli è ‘suggerito’, fa ‘cool’ con gli amici. Di solito sono gli Uffizi o i Vaticani, dove il selfie giustifica abbastanza la visita. Fanno la fila lì e disertano del tutto luoghi anche più interessanti che sarebbero adatti a inclinazioni personali che non sanno di avere. L’interessante video di Beyonce e Jay Z al Louvre ben esemplifica tutto questo.
  • Non ci comprendono come forse noi non comprenderemmo il Giappone, o come ci illudiamo di capire New York o New Orleans perché li abbiamo visti in tv. La loro assenza di prospettiva storica, la loro distanza da tutto quello che determina la nostra identità spostano i loro interessi dalle cose alle persone.

Mi è capitata una coppia che nei Musei Vaticani è stata soverchiata dalla folla e ne è subito uscita, senza rimpianti: lì ho capito perché ha successo l’americanata del “Il Giudizio Universale” in scena a teatro.
Molti, ripeto, molti, al quarto giorno a Roma non sono stati a Fontana di Trevi. Non parliamo dei luoghi o musei minori… è escluso arrivare fino a San Giovanni in Laterano, a Sant’Agnese, Villa Adriana o altro.
Però hanno fatto la pizza, fatto la visita ornitologica del Parco della Caffarella e passato una giornata tra i vigneti a Frascati.
Mi scrivono “Mi suggerisci cosa fare a Roma nei tre giorni che sono lì: chiese e musei non mi interessano.
Una coppia contenta mi ha detto, “Abbiamo visto Roma, Firenze, Bologna e Venezia. La nostra preferita è senza dubbio Bologna: bella, piccola e rilassata. Lì si passeggia e si prende l’aperitivo.”

La loro innata pragmaticità punta tutto sul fare. Questo non significa minore curiosità, voglia di relazione  o di conoscenza, però la loro priorità non è capire Cosa c’è in Italia ma Perché l’Italia è così, oggi.
Perché è così bella, varia, interessante, creativa, migliore di loro in svariati campi, perché qui si vive più a lungo e ci si suicida così poco, perché metà dei loro stilisti preferiti sono italiani, perché gesticoliamo parlando, perchè i nostri ospedali e scuole siano meglio delle loro e gratuite, perché il parmigiano non vada sulle linguine alle vongole o perché non camminiamo con un beverone in mano, perché da noi non ci sono attentati terroristici, perchè tolleriamo così tanto l'infrazione delle regole.
Alcuni poi - gratificati dal Perchè - esplorano anche il Cosa secondo nuove prospettive

Questa nuova e prepotente richiesta dal mercato è diffusa, ricca, per noi è un'opportunità nuova: di crescita personale, di nuovi business, di lavori, per dare sostanza a termini modaioli come ‘turismo esperienziale’ e trasforma davvero i turisti in ‘cittadini culturali’: non più concentrati su conoscenze da acquisire ma su competenze nuove per capire e capirsi.

È anche una opportunità unica per specchiarci e imparare molto di noi stessi.                 

domenica 25 ottobre 2015

Cos’è e come funziona il Social Eating.

Da più di un anno sono iscritto come cuoco a una piattaforma di Social Eating. Nel mio caso si tratta di www.eatwith.com , nata in Francia, ce ne sono comunque diverse.
Ho fatto finora 6 cene. Sempre due commensali, tranne nell’ultima che erano quattro. Per loro era sempre ‘la prima volta’ in un contesto del genere, età tra i 35 e i 50, benestanti, amanti della convivialità. Si tratta di cenare a casa di sconosciuti di cui si sa qualcosa attraverso i meccanismi di creazione di fiducia tipici dei social, con cui la naturale riservatezza viene compensata dalla curiosità e dalla sensazione di poter vivere qualcosa di unico. Qualcosa di totalmente diverso dal ristorante.  
Adoro cucinare, ho spesso amici a tavola, sperimento anche quando ceno da solo, cerco anche da sempre di capire come il cibo e la convivialità generino dinamiche di relazione, accoglienza, affetto, comprensione. Ovviamente in quei casi  miei invitati sono ospiti, al massimo si presentano con una bottiglia di vino o una vaschetta di gelato (oltre che con un paio di amici invitati a sorpresa).
Nel socia eating invece le persone pagano per mangiare a casa tua. Tu fissi il prezzo e la piattaforma che mette in contatto e gestisce le transazioni ci aggiunge un 10% per il proprio servizio.
Il perché lo fanno e perché, le persone cucinano può a grandi linee dividere il modello in due grandi categorie:

I social chef PULL
Il mio caso. Mi sono iscritto al sito con le mie credenziali social, ho descritto l’ambiente della mia cucina, il fatto che a tavola potrebbero ritrovarsi anche i miei pupetti, ho messo le foto di un po’ di piatti possibili a titolo di esempio. Non faccio nulla di attivo, mi limito a segnare le giornate in cui posso ricevere ospiti. Sono anche disponibile a farli cucinare con me o a ipotizzare un giro mattutino al mercato assieme. Ogni tanto mi arriva un amail “Pascale vorrebbe cenare da te il 27, accetti?”
Se tutto questo (unito alle recensione degli ospiti precedenti) convince qualcuno, mi contattano. Se posso, il profilo di Pascale mi convince, le sue eventuali  richieste sono di senso (es. ben accetti celiaci, astenersi vegani), accetto. Allora discutiamo (poco)  di menù e di quello che vogliono e li aspetto nella sera e all’ora concordata. 
Il prezzo è il costo degli ingredienti per tutti i presenti al tavolo. Siccome poi offro assaggi, grappini etc, il costo è spesso solo una parte del rimborso alla spesa.
I miei ospiti (massimo 4) arrivano assieme e tra loro si conoscono sempre, sanno che sarò a tavola con loro con la mia famiglia a parlar di cinema, di Italia, viaggi, a dare consigli su come godersi Roma, sui nuovi percorsi di Street Art a Roma, a rispondere domande sul costo degli affitti nella mia zona, sulla provenienza dei porcini che ho accoppiato al pesce spada, sui quadri che ho alle pareti.  
Il cibo sarà una sorpresa per tutti i presenti.  
Lo faccio non più di una volta ogni due mesi, perché voglio dare il meglio, perché non è un gioco e loro si meritano l’accoglienza di uno non annoiato, perché la mia famiglia deve vivere la novità dell’ospite con entusiasmo. Sanno infine che faccio tutto questo anche per poter parlare un po’ il francese, difficile da praticare a Roma.

I social chef PUSH
Sono cene più organizzate e che vanno molto di più incontro al mercato. 
Ragionano dunque di comunicazione, programmazione di cene, stagionalità.
Sulla piattaforma, una italiana perfetta allo scopo è anche www.gnammo.it , chi apre la propria casa a ospiti presenta la cena, in una data da sé scelta, per un prezzo da fissato, per un menù esplicitato per intero dal principio. Spesso si tratta di eventi aperti a numeri maggiori (anche fino a 15-20 partecipanti).
Anche in questo caso, la reputazione conquistata con precedenti cene favorisce la scelta e rassicura tutti. L’organizzatore rimanda l’evento creato dalla piattaforma attraverso i propri social e con le proprie mailing list. Vi è dunque un importante lavoro di comunicazione non presente nel caso precedente da cui spesso dipende la riuscita della serata.  
In questa tipologia il padrone di casa è straimpegnato e la regia della serata deve essere più accorta e complessa, dedicando il tempo a tutti, includendo i timidi etc. In molti casi questo è favorito dal fatto che le cene sono a tema, o c’è l’ospite di riguardo (architetto, attore, …), magari qualcuno suona.
Sono cene conviviali, dove i commensali tra loro spesso non si conoscono e, anzi, usano l’occasione per allargare la cerchia delle relazioni, sia in ambito professionale che amicale. Per questa ragione è più bassa la presenza di stranieri, al tavolo si parla spesso italiano.

Responsabilità, fiscalità, rapporti con i vicini di casa? E’ tutto poco definito nel dettaglio. Sia chiaro: non si fa ristorazione ma si invitano persone a casa. 
Finché non c’è guadagno in chi ospita, si tratta di un contributo al costo della spesa. Per chi invece guadagna e lo fa spesso esistono i commercialisti, le leggi e la propria coscienza. 
Come per AirBnB, si stanno sviluppando forme assicurative ad hoc.
Come molte pratiche di Sharing Economy, il social eating intercetta bisogni e necessità reali e la realtà è anni avanti alla normativa, agli interessi corporativi, ai vuoti discorsi su certo turismo ‘esperienziale’ fatti dagli esperti di fuffa. Porta turisti nelle periferie e riempie di ricordi i carnet di viaggio. È bello, e mentre lo fai ti rendi conto che è intelligente, utile e mischia le idee generandone di nuove.   

martedì 31 marzo 2015

“Sharing is Tuning” – sensazioni da due corsi di Economia Collaborativa

Sì ma, nel concreto, cosa vuol dire fare Sharing Economy in Italia?
Non trovo molto appassionanti le discussioni sulla natura buona o cattiva dell’economia collaborativa. Cerco di immaginare uno sbocco pacifico agli scontri tra Uber e i tassisti, Airbnb e gli albergatori, attendendo quelli tra Gnammo e i ristoranti, tra servizi tipo-Taskrabbit e le Agenzie per il Lavoro. Guardo perplesso la quantità di tasse evase da migliaia di aziende e cittadini, in larga parte perché regole e normative sono in ritardo sul mondo reale e non è neppure chiaro come e se andrebbero pagate.
Vedo le cose accadere e, siccome mi è chiaro come molte siano giuste e inevitabili, in piccola parte partecipo al farle succedere.
Credo che la marea montante della Sharing Economy dimostri ancora una volta la validità delle teorie evoluzioniste basate sulla adattabilità delle specie. Sopravvive chi si adatta e oggi adattarsi vuol dire diminuire il consumo di risorse, facilitare l’accesso e le relazioni, rigenerare spazi e servizi di sussidiarietà da dove lo Stato si ritira, coinvolgere sulla base dell’esperienza e non del possesso, rinforzare la fiducia per rinforzare la resilienza (e vale per i condomini, le comunità, le community, le parti sociali, i paesi, i territori, ...).
Ho la fortuna e il piacere di aver pensato e preso parte negli ultimi mesi a due corsi sull’Economia Collaborativa per persone interessate a verificarne l’approccio nel concreto delle proprie attività, nel profit come nel sociale, nell’assistenza alle persone e nello sviluppo di sistemi informativi. L’ho fatto inventandomeli in gran parte, lo ammetto, pensandoli da zero, perché la richiesta era palpabile e non c’era nulla del genere sul mercato della formazione.

Il primo realizzato tra ottobre 2014 e gennaio 2015 per Fusolab a Roma, una realtà superdinamica che sviluppa corsi di qualità a basso costo per un pubblico vasto e appassionato. 16 ore in 8 incontri. C’erano 8 iscritti, età media 35 anni, tutti con idee interessanti da realizzare.

Il secondo tra marzo e aprile 2015 per Innovazione Sostenibile, associazione attenta a ogni nuova necessità, finanziato da Regione Lazio su fondi FSE per liberi professionisti e titolari di impresa. 25 ore in 6 incontri che si sommano a un percorso di sviluppo professionale che arriva in totale a 80 ore. Ci sono 13 iscritti, età media sui 50, storie di vita ricche e importanti.

Qualche nota sui partecipanti:
  • Curiosità e Fiducia sono le parole - chiave che dispongono i partecipanti.
  • l’età media piuttosto alta rivela a mia avviso come il capire ‘come cambia il mondo’ per agire da agente del cambiamento sia la chance specifica per chi ha già molte esperienze di vita.
  • la stessa età elevata, e le sicurezze che porta con sé, diventa la linea d'ombra da superare per affrontare un contesto iper dinamico. 
  • Molti ‘fanno’ economia collaborativa: tanti hanno rinunciato l’auto, affittano e scambiano case, ospitano stranieri a cena grazie a piattaforme. Insomma sono attivi prima di essere generativi, e questo è il primo passo.
  • Tutti sono interessati a capire i ‘perché’ prima di affrontare i ‘come’. Così quelle alla base della Sharing Economy diventano logiche adattative, sempre diverse a seconda dei contesti
  • Pochi si fanno intimorire dall’incertezza normativa e fiscale. Adottano il "Metodo ‘Sti Cazzi" che prevede come essere primi sia più importante che essere perfetti, e che prima o poi il contesto si adatterà alla realtà
  • Vogliono casi concreti, cogliere la novità e vestirne i loro business presenti o futuri. Molti sono consulenti e possono fare la differenza rispetto alle scelte delle aziende e delle pubbliche amministrazioni oggi incapaci di intergrare conoscenze, nuovi linguaggi, necessità. 

Hanno nella testa business e interessi magnifici, peraltro. Globali e iperlocali. Spesso con ottimi presupposti di sostenibilità e scalabilità. Ne cito alcuni per dare significato alla concretezza:
  • Lo sviluppo di azioni di crowdfunding per consentire agli anziani abbandonati negli ospizi di passare delle giornate al mare, a teatro o dove gli piace
  • Irrobustire il nascente movimento diffuso dei ‘pulitori’ nelle città per sviluppare nuove forme di cittadinanza,
  • Ragionare sui big data della telefonia per cogliere da sms e whatsup tendenze suicide o depressive degli adolescenti
  • Immaginare comunità di professionisti felici di dare 2-3 ore al mese del loro tempo all’orientamento di giovani disoccupati
  • Ripensare i servizi di catering come congiunzione tra la produzione di qualità, la ristorazione e la socialità
  • Georeferenziare e condividere i luoghi del silenzio nelle grandi città.
  • evolvere le social street in nuovi ambienti per l'apprendimento
  • e tanti altri ...

Il saggio psicologo che tiene dei moduli nello stesso corso mi stimola a proposito osservando “In fondo si tratta di capire se questa dello sharing è una cosa così, una moda che si somma al resto, o possa davvero cambiare l’economia nel suo complesso…”


L’economia è già cambiata, si sintonizza sulle necessità delle persone e delle aziende, che spesso non coincidono però. Si tratta di capire se vogliamo essere cambiati da nuovi monopoli o essere noi gli agenti del cambiamento.

mercoledì 17 dicembre 2014

Cosa vedo nascere in questo Natale

Mi piace il Natale con la sua atmosfera  allegra. Non mi interessa molto la sua dimensione religiosa, sono però toccato dalla celebrazione di una nascita. Come ogni nascita proietta la mia attenzione al futuro. Lo so, c’è tanta morte attorno, la vedo bene, però in queste settimane voglio provare a stupirmi di quanti fenomeni nascenti stiano modificando la mia vita, la società attorno a me, i mercati, le comunità. 
Provo a metterli in fila:
  • Sui muri delle città si diffonde una nuova forma di arte popolare: mi riferisco ai murales, forme di espressione artistica  e narrazione di grande forza, in grado di cambiare l’autopercezione delle periferie, di  attrarre nuovi turismi, di raccontare le storie di zone che hanno perso le radici col passato. Non sono nuovi ma è diverso il modo in cui vengono pensati, guardati, adottati dai quartieri come schegge di bellezza democratica. Se passate per Roma, potete capirmi se andate in giro per quelle gallerie diffuse che sono il Quadraro con le sue viuzze, Ostiense dove ammirare la forza di Blu e Co. e Rebibbia col nuovo elefante di Zerocalcare
  • Tra le persone si sviluppano nuove forme di fiducia: il patto millenario tra Stato e cittadini è in pezzi. Lo scambio che prevedeva la cessione di potere in cambio di sicurezza è collassato nell’impossibilità di garantire sicurezze fisiche, lavorative, alimentari, economiche. La fiducia nelle istituzioni è al minimo. Per reazione si sviluppano nuove dinamiche di fiducia tra persone che, con un approccio quasi tribale, si rappropriano di spazi e poteri prima delegati. Le dinamiche sono molto legate al territorio ma, giovando della potenza della rete, si alimentano tra loro a migliaia di chilometri di distanza confrontando domande e scambiando soluzioni. Nascono dunque anche forme di fiducia e collaborazione tra sconosciuti.
  • Ecco allora la nascita di una economia collaborativa che muta alla radice gli assunti di quella capitalistica tradizionale basata sulla creazione del bisogno. Si tratta di processi, prodotto e servizi in cui il ‘possesso’ è legato ai tempi e alle necessità dell’ ‘uso’. Che si tratti di tempo, soldi, case, auto, trapani, banda larga il valore viene percepito attraverso la relazione, la reputazione, il risparmio di risorse, l’efficientamento dei processi. È un mondo dove si intravede cosa stiamo diventando, dove crescono nuovi consumatori che vogliono mettere voce in capitolo nei prodotti e servizi di cui sono destinatari.
  • Da qui la nascita di nuove competenze e professioni che facciano della dimensione social e collaborativa uno strumento di sviluppo volto a creare mercati più efficienti e consapevoli, che della potenza del codesign e della partecipazione fanno i loro. Si tratta di competenze umanistiche purtroppo ancora aliene al nostro sistema formativo, acquisibili spesso solo ‘sul campo’ nei luoghi e contesti in cui l’innovazione sociale si sviluppa. Perché l’innovazione abbia ricadute reali si sviluppa anche una nuova governance dell’apprendimento dove gli scambi di competenze avvengano in team, tra peer, e la cui certificazione stessa sia fatta da pari.
  • Vedo poi l’emergere con forza di una generazione nomade che segue le occasioni che portano qualità della vita, reddito e soddisfazioni. E' figlia dell'Erasmus, bramosa di futuro, competente, vogliosa di partecipare al banchetto ovunque sia servito. L’accelerazione che ho visto in questi ultimi due anni nella mobilità di singoli, famiglie, start up mi stupisce ancora. Non sono fughe ma  eplorazioni, sono inseguimenti a quella linea d’ombra che separa l’età adulta dall'eterno presente.

Insomma, per qualche giorno mi balocco con l’immagine di un bicchiere che se non è mezzo pieno contiene almeno qualche goccia di spumante di qualità capace di dare al 2015 speranza di frizzantezza.

Buone Feste e Buon 2015 a tutti voi!

mercoledì 12 novembre 2014

Quando l’Economia Collaborativa non genera collaborazione.

L’Economia Collaborativa non è più terreno di collaborazione quando la corsa al posizionamento dei suoi attori istituzionali scatena gomitate nella competizione per l’accesso ai nuovi fondi disponibili.

Non mi stupisco, non mi scandalizzo, disperde energie ma lo trovo fisiologico ma non riesco a esimermi dal commentarlo.

Chi sarebbero poi questi ‘Attori Istituzionali’ deputati a rappresentare la Sharing Economy? Qui viene il bello, pur non esistendo in natura nascono in questi giorni come funghi, uno dopo l’altro.

La filosofia alla base dell’innovazione sociale e dell’economia collaborativa porta soluzioni sostenibili a problemi concreti; soluzioni spesso diverse come sono diversi i territori e le comunità; esperienze dove il ‘fare’ vinca sempre sul ‘teorizzare’ e sul ‘mettere a sistema’.

Personalmente, nel 2011 ho cominciato a realizzare come la crisi stesse cambiando le persone e il loro ordine di valori e priorità e come l’unica via per uno sviluppo sostenibile sul lungo periodo fosse quella di perseguire strategie fondate sull’Innovazione Sociale in cui collaborazione e partecipazione creassero valore per i business come per i territori. Passavo ore nello studio dei casi, di riflessione sulle prime stentate applicazioni dell’idea. 
Poi alcuni amici mi hanno coinvolto nell’esperienza concreta dell'avvio di Impact Hub Roma che mi ha messo in contatto con nuovi modelli organizzativi, finanziari, produttivi sempre più aperti allo scambio e all’innovazione. 
Ho nel frattempo sperimentato la forza di logiche social e partecipative nelle mie attività quotidiane. Ho imparato sulla mia pelle che le ‘buone prassi’ non significano quasi nulla e che è importante invece coccolare e alimentare i ‘segnali deboli’ che arrivano.
L’impatto più forte che tutto ciò è stato sul mio lavoro, quello di sviluppo di progettazione di servizi per l’occupabilità e per lo sviluppo locale, ambiti che ho reindirizzato in una nuova prospettiva.

Ancora fino all’anno scorso ai rari eventi in materia di Economia Collaborativa, come la Smart City Exibition o la Oui Share Fest, cercavo segnali utili a ripensare il mio intervento e tra i pochi presenti con fatica si cercava di separare la lana dalla seta, la CSR dalla creazione di valore condiviso, il marketing dall’innovazione, costruendo anche una terminologia comune.
Da pochi mesi il fenomeno è esploso ed è un proliferare di eventi e convegni con panel professionali dove in migliaia vagano tra la ricerca dell’illuminazione e quella dell’informazione. 
Tutto è diventato Social Innovation e centinaia di persone e organizzazioni ti dicono che “loro la fanno da sempre” e che la loro è più “Innovation” di quella degli altri. Ci si accapiglia per decidere se quello che fanno gli altri è Sharing Economy o solo una furbata. 
C’è già chi è sul mercato per vendere a qualche migliaio di euro qualche “metodo” per fare innovazione sociale, chi promuove percorsi di cambiamento in 5 o 7 fasi che ricordano la fuffologia organizzata de La Profezia di Celestino. Dilagano i Summer Camp con le loro irritualità postideologiche organizzate che già sanno di nuovo conformismo.

I casi concreti, i successi e gli insuccessi reali latitano (o sono sempre gli stessi) e ho la sensazione che la loro iper esposizione mediatica rischi più che mai di soffocarli nella culla.
Ci sono poche idee in giro, poco coraggio e poca possibilità di pensare in grande. Nessuno misura impatti e sostenibilità delle azioni, nessuno protegge le creature neonate dalla furia dei monopolisti. 
I casi di vero successo non hanno forza per comunicarsi e chi ha denaro o contatti si accredita comunicando fumo al sapore di futuro. 
Per anni ho combattuto contro il “Modello danese” dei servizi per impiego ritenendolo impraticabile in Italia e già mi trovo a storcere il naso davanti a quello olandese sulla Sharing Economy (ma anche quello milanese o bolognese che perdono significato altrove).

Nessuno è però impazzito, il fenomeno è noto: è semplicemente nato un mercato.
Detto fuori metafora: ci sarà un botto di soldi su questi temi, soprattutto denari pubblici. 
I nuovi Fondi Strutturali presto a disposizione dei territori contengono una litania di termini come ‘Spazi di coworking’, ‘Innovazione sociale per i territori’, ‘Tecnologie abilitanti’, ‘Co design dei servizi’ messi lì da consulenti e pochi funzionari illuminati per dare sapore ai Programmi Operativi ma col rischio di rimanere etichette senza conseguenze reali.  Non mi stupirei se da domani il prefisso ‘Smart’ venisse associato anche alle slot machine e ai corsi di tango. 

Si tratta centinaia di milioni di Euro per i prossimi anni, su tutto il territorio e dunque il mercato spinge chi fino a ieri ha fatto corsi per estetiste o web designer a virare su qualcosa tipo ‘Social Innovation Empowerment and Strategic Thinking’ di fantozziana memoria. Le società di consulenza turbocapitaliste riscopriranno il valore della famiglia o dell'usignolo palustre. Chi ha fatto cucine le farà ‘Smart’, chi ha gestito balere per anziani le renderà ‘attività resilienti’, le Pro Loco si chiameranno ‘Living Lab’, ignari NEET si baloccheranno col mito delle Start Up fino a finire tra le grinfie degli strozzini e nel frattempo tre quarti della saggistica si contenderà nel titolo la parola ‘comunità’ o ‘collaborazione’ per descrivere un mondo piccolo e troppo autoreferente.

Paradossalmente una destinazione del denaro fortemente etichettata nel senso della Sharing Economy o della Social Innovation diventa facilmente fattore di rallentamento del processo di cambiamento e porta alla creazione di ‘riserve di caccia’ che già si stanno ben delineando.

Sento parlare già di professioni della Sharing Economy come se questa dovesse per forza crearne (perlopiù le distrugge perché diminuire il consumo di risorse farà scendere il lavoro ben retribuito. Tuttavia si crea altro: valore sociale, relazioni, nuovi rapporti tra generazioni). 
Mi pare che le uniche professioni nuove che si vedono in giro sono quelle degli ‘Evangelizzatori dell’Economia Collaborativa’.

Questa spinta all’istituzionalizzazione mal si adatta alla natura poliforme di un approccio al mondo fatto di collaborazione tra pari. 
È pericoloso etichettare o etichettarsi come “Quelli che…” fanno Innovazione Sociale o Economia Collaborativa ma manterrei le vecchie categorie di Artigiani, Produttori, Amministrazioni Pubbliche, Clienti, Contadini, Politici, Educatori, etc… piuttosto c’è da ragionare sul nostro modo di interpretare la relazione col mercato e con le risorse, il nostro senso di responsabilità, la nostra attitudine alla sperimentazione e alla collaborazione.
Per hanno in Europa hanno provato a sviluppare l'Industria Creativa e Cuturale e ora stanno facendo una virata totale e parlano di spillover, di contaminazione verso gli altri settori e non di un settore a parte. La vedo come unica via efficace anche per l'Economia Collaborativa.

C’è dunque molto da fare e ben vengano i soldi ma che vadano a sviluppare processi e dinamiche di rinnovamento soprattutto interni ai settori pubblici e privati esistenti. Che si sviluppino occasioni e luoghi per il dialogo, sintesi e proposta tecnica e politica tra gli operatori, senza creare nuove e fittizie tecnostrutture fatte solo di parole e portafogli.

giovedì 26 giugno 2014

Riempiamo i cocci del ‘900 di nuova sostanza.

Amo del mio lavoro l’essere pagato anche per studiare, collegare i fili, immaginare soluzioni che superino le categorie classiche della divisione per ruoli, settori e competenza e intreccino comportamenti, economia, tecnologia, mercato, talenti, scommesse sul futuro.
Ho già parlato altre volte di Economia Collaborativa e nuovi modelli di sviluppo ma l’accelerazione intorno a me mi porta a di nuovo sull’argomento. In queste ultime settimane mi sono trovato in diversi contesti molto ricchi di propensione all’innovazione e al cambiamento.

Il 14 giugno ero al Primo Festival delle Comunità del Cambiamento organizzato da RENA a Bologna.  Era previsto come un evento per addetti ai lavori per fare il punto sulla capacità e sulle esperienza delle Comunità nel farsi carico di se stesse in un dialogo alla pari con le Pubbliche Amministrazioni, le Parti Sociali, le Aziende. E' diventata una kermesse dove nuove domande a vecchi problemi, nuove risposte, ipotesi di futuro sono arrivate da tutta Italia. Erano previste 200 persone e associazioni: gli organizzatori hanno chiuso le iscrizioni a 450 per motivi logistici rifiutando oltre 200 richieste di partecipazione.
In platea un impressionante assortimento di Comuni, associazioni, social street, cohousing, agricoltori, sviluppatori, esperti di Open Data, Makers, gestori di spazi per il coworking e il codesign, fautori della partecipazione dal basso, dello scambio di competenze , della valorizzazione dei beni comuni, della responsabilità sociale del singolo e delle imprese.
Si percepiva voglia di fare e di cambiare portata da chi sta già facendo e cambiando e comprende che solo nella messa a sistema delle esperienze si possono definire delle politiche diverse di sviluppo per il Paese, nell’ottica della sostenibilità sociale, economica e ambientale auspicata da Europa 2020 e da ogni altro atto di indirizzo successivo.
“Non occorre Riformare, come tutti sbandierano”, è stato detto, ma “Risostanziare”. Mi trova d’accordissimo. È stato detto “Occorre ridare senso ai contenitori costruiti nel ‘900 e ormai vuoti di idee e significato” e ci si riferiva ai Partiti, ai Sindacati, agli Ordini, a riti vetusti. Lì, “Meno fiaccolate e più crowdfunding per i beni comuni” si sposava a “Oggi fare impresa è un gesto politico.”

Una settimana dopo ero a Reggio Emilia invitato da ItaliaCamp per il loro incontro Valore Pese – Economia delle Soluzioni, anch’esso affollatissimo,  in un panel di advocacy sulla Finanza d’Impatto Sociale volto a portare suggerimenti di qualità al Governo e alle molte istituzioni in grave deficit di attenzione e poca propensione alla risolvere i problemi sociali sempre nuovi che necessitano di nuove domande e nuovi strumenti per essere capiti e affrontati. Potrei descrivere la Finanza d’Impatto Sociale come il sistema degli investitori privati che finanziano politiche/progetti/imprese con obiettivi sociali e vengono poi remunerati in base ai risparmi che il sistema pubblico ha quando gliinterventi hanno successo e diminuiscono (ad es.) i disoccupati, i malati, gli ex carcerati recidivi, gli abbandoni scolastici.
Ero lì (credo) perché ho una certa familiarità su come si possano mettere assieme politiche, progetti e fondi  e perché mi trovo a mio agio nel pensiero laterale. L’ambiente era diverso da Bologna, per linguaggio e look, ma tutt’altro che differenti erano gli obiettivi finali.

Ho capito come il significato dato ormai a 'Impresa Sociale' sia post-ideologico per diventare: “L’impresa che ha un impatto positivo sulla società e porta soluzioni a problemi”, punto, nessun accenno alle divisioni storiche tra profit e noprofit, cooperativa e Spa, e simili.
Si è parlato molto anche di finanziamenti alle start up “sociali” e a come far decollare progetti che generino qualità della vita, e dunque ricchezza. Di come ottenere valore, qualità e occupazione dalla gestione dei parchi, del patrimonio archeologico e culturale, delle aziende municipalizzate, del patrimonio abitativo.

In entrambe le occasioni ho sentito parlare di soluzioni che passano attraverso una Economia della Condivisione (di beni, denari, risposte, occasioni); della necessità di Generatività intesa come la forza di estrarre valore dall’impensabile e saper cogliere i ‘segnali deboli’ che sono quelli che indicano la strada per il futuro; di Coraggio Istituzionale che indica come per innovare e risolvere occorre mettere in conto la necessità degli errori e delle correzioni in corsa

Nei due incontri erano diversi i moventi e gli interessi ma era evidente come da una parte si cercasse la via per portare a sistema soluzioni vantaggiose per le comunità per generare inclusione sociale e dall’altra si cercassero soluzioni su cui investire che fossero vantaggiose per la comunità producendo ricchezza (e risparmio).

Mai come in questo flusso di occasioni, idee, proposte, ho sentito la necessità dei ruoli di “cerniera”,  di facilitazione, perché le due parti possano superare le diffidenze culturali e i pregiudizi, e stimolare le contaminazione tra sogni, progetti e investimenti necessari a realizzarli
Ovviamente ci proverò, nel mio piccolo, con tutti gli altri.

sabato 17 maggio 2014

Servono regole per questo millennio, non tassisti incazzati.

Oggi a Milano 300 tassisti inferociti hanno fatto irruzione al Wired Next Festival dove si parlava di futuro e di come tecnologia e Economia della Collaborazione stiano ridefinendo le regole del consumo e della produzione, di beni e servizi. I tassisti volevano impedire a Benedetta Arese Lucini, manager per l’Italia dell’app UBER di parlare in qualità di caso di successo della new economy.

Rabbrividisco perché otto giorni fa ho scritto su questo Blog un post sull'Economia della Collaborazione che mi ha stupito per accessi e condivisione, che cito:
Scontri più o meno espliciti sono all'orizzonte: Albergatori contro AirBnB, Ristoratori contro CookeningTassisti contro Uber, distribuzione alimentare contro Food Assembly, banche contro Social Lending e così via, ... qualcosa andrà distrutto, posti di lavoro andranno persi e altri creati, tante cose andranno regolamentate molti dovranno cambiare pelle per continuare a stare sul mercato. Le corporazioni e i monopoli sono tutte destinate a essere travolte dal mercato che cambia.

Non faccio vaticini, né leggo i fondi di caffè. Osservo e sommo, talvolta sottraggo il rumore di fondo di chi si ostina a sottovalutare la potenza dell’innovazione dal basso. E' il mio mestiere.

Ciò che per Wired è una best practice, per Mario Rossi tassista a Lampugnano è una minaccia epocale, una minaccia di estinzione.
Un mondo nuovo è alle porte, che preme per stravolgere regole e consuetudini, corporazioni e monopoli. Se dopo il risibile tentativo di fermare la musica liquida chiudendo Napster servivano altre conferme che i muri si aggirano, ecco che ce le troviamo in casa. Le agenzie di viaggi sono state decimate da Internet, le Poste hanno cambiato pelle, l’editoria si deve reinventare. I tassisti devono trovare un modo per far parte del mondo che verrà o cambiare mestiere. Uber deve rispettare le regole sostenendo le proprie ragioni nel cambiare.

Perché in questa partita:
  • Non ci sono buoni né cattivi, il mercato vive di vita propria.
  • C’è il passato e il futuro, quelli sì.
  • Ci sono i diritti dei consumatori ad avere servizi di qualità, sicuri e a prezzi equi.
  • C’è il diritto della collettività a esigere  il pagamento delle tasse da chi produce reddito.
  • C’è la fine della divisione tra privato e professione.
  • C’è il disvalore del possesso quando ci basta l’uso.
  • C’è la follia del consumo messa a confronto col riuso, il riciclo, il risparmio.
  • C’è una sfida epocale a cui è chiamata la Pubblica Amministrazione.
Stamattina lavorando a un’ipotesi di piano per lo sviluppo di un ecosistema collaborativo su base regionale scrivevo (scusate la seconda autocitazione, ma questa è perlomeno inedita):


Finora la Pubblica Amministrazione è rimasta passiva rispetto a tali dinamiche, non facendosi permeare (nei processi decisionali, normativi, organizzativi) dalla rivoluzione culturale in atto, senza recepirne l’effettivo potenziale in termini di semplificazione dei processi, progettazione di servizi, creazione di valore per i territori.
Le pubbliche amministrazioni non possono più governare solo in nome dei cittadini, ma se vogliono mantenere credibilità e senso devono farlo con i cittadini che diventano una fonte di energia, talenti, risorse, capacità e idee.
Il settore pubblico è di fronte a una sfida storica: può facilitare lo sviluppo dell’economia della condivisione o osteggiarlo.
Può togliere auto dalla strada, evitare ridurre e rivalutare i rifiuti, includere gli esclusi; mettere a disposizione luoghi, informazioni, competenze perché  acquisiscano creino nuovo valore per la collettività.”
Il ruolo della PA diventa quello di supportare la nascita e l’integrazione di un ecosistema con:
  • Adeguamento della normativa per favorire la transizione da un modello economico all’altro, ammortizzando l’impatto del nuovo paradigma, dando certezze alle imprese e alle startup;
  • Sostegno alle sperimentazioni, con un’attenta analisi di impatto e una rapida messa a sistema laddove auspicabile.
  • Messa a disposizione di luoghi fisici (anche oggi male/sottoutilizzati) dove si sviluppino attività aventi i cittadini come co-progettisti e protagonisti di scambi di idee, talenti, tempo.
  • Promozione di spazi virtuali. Dunque sviluppo e sostegno a piattaforme on line, dove condividere e/o scambiare tempo, talento, libri, auto, spazi verdi, parcheggi, attrezzature, ricette, consigli medici, camere sfitte, libri, energia pulita.
  • Identificare, sostenere, valutare, App a valenza civica in grado di dare soluzioni a bisogni collettivi attraverso strumenti diffusi come smartphone e tablet
  • mettere a contatto esperienze e persone, anche grazie a facilitatori che includano i più deboli, che spingano al dialogo tra generazioni e tra generi, che sorveglino il rispetto della legalità e dei valori democratici e della libertà di espressione.
Le cose succedono anche se non vogliamo. 
Se le affrontiamo con saggezza possiamo  guadagnarci tutti. 

venerdì 9 maggio 2014

Economia della Condivisione, futuro e altre serie amenità collegate.

Possiamo continuare a consumare, inquinare, muoverci, sprecare, isolarci, fregarcene dell’eredità che lasceremo? La domanda è retorica ma la risposta può essere molto pratica.
Ho passato tre giorni al OuiShareFest di Parigi, il Festival dell’Economia Collaborativa, dove amministratori pubblici, grandi aziende, piccole start up, filosofi, smanettoni dell’open source, sognatori e costruttori di futuro si sono dati appuntamento per raccontarsi che si può e si fa.

Amministratori pubblici hanno raccontato come il settore pubblico possa facilitare un’economia della condivisione che tolga auto dalla strada, eviti riduca e rivaluti i rifiuti, includa gli ultimi, metta assieme le diverse informazioni in modo che acquisiscano nuovo valore. A Seul, Berlino, Amsterdam (e anche Bologna) si parla di Sharing City (che forse è la via più equilibrata alla Smart City di sapore tecnologico ma poco vicino alle persone).
La ministra francese alle politiche digitali ha detto con franchezza “Le comunità e le persone sono in cerca di SENSO. Compito della politica è costruire questo senso. Voi potete aiutare molto”. Sottintendeva anche che le migliori idee e comportamenti possano venire con credibilità solo da chi fa, sbaglia, corregge, affina.

L’amministratrice delegata di Castorama ha spiegato come sempre meno gente comprerà trapani poiché quello che serve davvero è solo il buco. Ecco che allora loro affitteranno le attrezzature, metteranno a disposizione dei laboratori attrezzati dove si potrà andare a farsi la mensola o la porta, incontrare appassionati come voi, imparare dai più esperti. E renderanno pubblico il design dei loro prodotti in modo che chi vuole possa riprodurre con stampanti 3D. Non hanno paura di perdere mercato? No, sanno che sarà l’opposto perché la fantasia dei clienti inventerà nuove destinazioni per i loro prodotti. Da fornitori di prodotti molte aziende diventeranno abilitatrici di processi.

Un giovane nepalese ha descritto come funziona la sua scuola per figli di indigenti: uno dei due genitori paga la frequenza lavorando per la scuola due giorni al mese in attività contadine o artigianali ottenendo prodotti che verranno venduti per sostenere la scuola.

Quello di Parigi non era un ambiente naif, né new age, né di sinistra, né di destra.
Era un consesso molto pratico che vedeva come inevitabili certi processi e come sia il profit che il no profit dovessero fare i conti con il cambio di paradigma economico e di comportamento dei mercati.
Scontri più o meno espliciti sono all'orizzonte: Albergatori contro AirBnB, Ristoratori contro Cookening, Tassisti contro Uber, distribuzione alimentare contro Food Assembly, banche contro Social Lending e così via, ... qualcosa andrà distrutto, posti di lavoro andranno persi e altri creati, tante cose andranno regolamentate molti dovranno cambiare pelle per continuare a stare sul mercato. Le corporazioni e i monopoli sono tutte destinate a essere travolte dal mercato che cambia.

L’Economia della Collaborazione era di certo nel DNA dei nostri nonni, di chi nella tradizione contadina e nella penuria di risorse del dopoguerra trovava naturale e logico utilizzare tutto, riparare, risparmiare perché consapevole che un futuro poteva e doveva esistere. Questa certezza di un futuro ‘a prescindere’ è diventata talmente nostra che abbiamo sostituito l’essere con l’avere.

In tal senso, la crisi ha aiutato a ristabilire un ordine di valori. E la tecnologia ha reso la possibilità di scambiare e condividere un fenomeno di massa, a partire dalla merce più preziosa: le idee. Soprattutto è così possibile condividere e scambiare con chi è con noi in sintonia anche se non lo conosciamo e non lo conosceremo mai.
Perché qui non si tratta di risparmiare ma di cambiare totalmente una cultura che vorrebbe far coincidere il consumo con la felicità. È semplicemente insostenibile dal punto di vista ambientale, sociale e economico (Già sentito? Oltre che il buonsenso, le stesse cose le dice anche la Strategia Europa 2020).
Anche perché come ha detto l’AD di Bla Bla CarSe una buona prassi non è scalabile, allora non è importante e non porterà a nulla”.

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Che poi i tassisti e Uber si sono scontrati davvero, otto giorni dopo... di questo ne parlo qui

martedì 14 maggio 2013

L’intelligenza collettiva può portare anche l'Italia nel XXI secolo.

A fianco dei molti che si lamentano ci sono parecchie proposte. Alcune hanno impatto potenziale sulle città, altre su un quartiere, un settore economico, un gruppo di persone, una famiglia.
Molti applicano schemi totalmente differenti da quelli del qualunquismo o dal semplicismo delle inchieste di molti media. Viene fuori con forza una crescente voglia di assumersi le proprie responsabilità unita però alla demotivazione legata alla solitudine. 
In tanti vorrebbero, ad esempio, fare la raccolta differenziata, usare la bicicletta, scambiare il proprio tempo, privilegiare i negozi di quartiere, partecipare alla vita sociale e culturale, interagire in modo differente, intelligente e costruttivo con i turisti piuttosto che con gli immigrati o i fuorisede. Ma in pochi lo fanno. Dicono di non saperlo fare, che si sentono soli, non si sentono sicuri. Lo farebbero, se ciascuno facesse la propria parte.
Percepisco questo desiderio, la voglia di non sentirsi soli in un’opera di ricostruzione dei valori della socialità da moltissimi ritengono necessaria, e l’intuizione che necessario collaborare. Già, perché esiste una intelligenza collettiva che contiene le risposte al disagio e a molti degli effetti della crisi. Risposte e soluzioni però che sono frammentate nelle esperienze e nei contributi dei singoli.
Ecco, grazie alle storie di molti mi sto convincendo come nella modernità liquida in cui la certezza del tempo indeterminato non è più nelle relazioni, come nei lavori, e neppure nei mobili o nelle idee, un ruolo nuovo richiesto alla politica sia quello di facilitare i processi di collaborazione tra persone (e tra istituzioni, e tra imprese, ...). Intendo dire immaginare luoghi che siano per vocazione destinati a creare socialità. Parlo sia di luoghi fisici, spazi pubblici dove non si sia “destinatari di servizi” o “utenti” ma co-progettisti e protagonisti di scambi di idee, talenti, tempo. Che spazi virtuali, e dunque piattaforme on line dove condividere e/o scambiare tempo, talento, libri, auto, spazi verdi, parcheggi, attrezzature, ricette, consigli medici, camere sfitte, libri, energia pulita. Tutto per mettere a contatto persone che si scoprono affini, magari anche grazie ai facilitatori che includano i più deboli, che spingano al dialogo tra generazioni e tra generi, che sorveglino il rispetto della legalità e dei valori democratici e della libertà di espressione. Un dialogo anche mirato a comprendere i problemi, raccogliere segnalazioni, sviluppare soluzioni, indicare percorsi a chi amministra.
Credo che siamo chiamati a un grosso salto di qualità nelle modalità del vivere collettivo con l’individuazione di nuovi modelli di relazione che funzionino in un tessuto urbano complesso.
Sono cose che nel mondo, quello che va a velocità ben più rapide della nostra si fanno da tempo. Molte soluzioni sono lì, e le vede chi viaggia, chi fa l’Erasmus, che anche solo passa un weekend a Parigi, Londra o Vienna, luoghi che cambiano perché cambiano i comportamenti dei cittadini. Nel mio piccolo, sono ancora turbato dalla scelta di Shangai, definitasi  Sharing City individuando 20 ambiti nei quali la collaborazione tra cittadini ridefinisca l’economia. Un approccio questo che fa sembrare il concetto di Smart City, tanto sbandierato, già obsoleto e utile solo a riempire qualche convegno finanziato con soldi pubblici.
So bene che siamo in Italia, nel 2013, e non mi illudo che il senso civico, il rispetto delle regole, o l’amore per il prossimo muovano le masse verso la tutela del bene comune o – meglio ancora – nella messa in comune. Il senso civico è stato massacrato da decenni di irresponsabilità istituzionalizzata e – tolto l’omicidio – ogni reato contro la collettività è depenalizzato nei fatti dal “tanto lo fanno tutti”. L’Italia non può improvvisamente scoprirsi virtuosa. Ma questo nuovo coinvolgimento si può generare educandoci. Magari non più con le trite campagne di informazione e sensibilizzazione ma con processi di experience design e gamification e vedrete che funziona. 
Lo so, pare surreale far provare alle persone "quanto è emozionante fare qualcosa di utile" ma è ormai una via necessaria. 
Immagino anche ad esempio incentivi alla partecipazione collettiva, come ingressi gratuiti musei o eventi, campagne di fidelizzazione, omaggi da sponsor, questo per chi suggerisce soluzioni, segnala inefficienze, presta il suo tempo, partecipa, si iscrive, ragiona, scambia, per il bene della Società. Verso una Società per Buone Azioni.