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lunedì 16 marzo 2020

Voi, io, noi: le persone che incontro nella città sospesa dal virus


La quarantena ha esaltato le caratteristiche dei tipi umani che si vedono in giro.
Le loro storie riempiono lo spazio, e l'assenza di rumori di fondo li fa emergere con forza dall’anonimato che li accompagna in tempi di normalità.
A passeggio nel quartiere spiccano:

  • L’uomo di 60 anni a cui hanno chiuso sia il bar che la ricevitoria, le sue lochescion. È incazzato, doppiamente perché  la moglie manda a fare la spesa. Lui le telefona davanti a ogni barattolo di yogurt (ma quanti cazzo di tipi ce ne sono!), di confezione di pasta (ma quanto cazzo di tipi ce ne sono?), di forma di pane (ma quanti cazzo di pani esistono??)
  • La matrona 78enne che ogni mattina vara la sua stazza oltre l’uscio di casa e va a fare la spesa, rompe i maroni a tutti per passare avanti perché lei 'non può stare in piedi' e compra solo 50 gr di prosciutto senza grasso, 1 panino, 1 litro di latte, 2 mele o 1 banana. E ‘Ci vediamo domani’.
  • La negoziante separata con i lunghi capelli sciolti e le dita nervose che porta i figli piccoli in negozio perché non ci sono babysitter disponibili a domicilio. Non sa dove metterli. Loro giocano sul pavimento mentre negli occhi della madre saetta apprensione per ogni cliente sconosciuto che entra.
  • I neogenitori, molto giovani, che spingono la carrozzina per le vie perché ritengono sia l’unico modo in cui è possibile addormentare il pupo. Lei è disinvolta, so fa sempre; lui, accanto, indossa goffe sneacker tardoadolescenziali e dagli sguardi dei passanti assorbe nuove abitudini e ansie inedite.
  • I due operai rumeni che dentro un negozio a piano strada stanno ristrutturando l’ennesimo estetista che se non si riconverte al volo in una sartoria per mascherine aromatizzate al timo dubito che abbia presto la gioia di una inaugurazione con le piante infiocchettate.
  • La ragazza con i capelli biondi e gli occhi seri, incinta al quinto mese a cui le minacce del virus hanno turbato la gioia di una nuova bambina in famiglia. Ogni suo pensiero oscilla tra un futuro radioso e il timore dei controlli in ospedali pieni di possibili pericoli immateriali   
  • Il giornalaio con la barba, con un aspetto a metà tra il senzatetto e il brigatista che, ogni mattina, camminando per i 3 chilometri che lo separano dal suo chiosco teme che la polizia non creda che sta andando a lavorare per un servizio essenziale.
  • Il signore col cane e il passo veloce. Il botolo ha già pisciato e defecato in abbondanza, vorrebbe rientrare, ha la lingua fuori, ma deve seguire questo 50-enne che con la scusa del cane sta fuori due ore e scopre ogni giorno marciapiedi sconosciuti.
  • La trentenne aspirante qualcosa, col tailleur giacca-pantalone che nonostante sia ormai semidisoccupata è ugualmente agitata, ugualmente concentrata su un lavoro che si sfalda, con apericene cancellate, ugualmente severa con se stessa e con qualche stagista che alle 8.30 ha già al telefono e si prende cazziatoni per inadempienze impalpabili come lacrime nella pioggia.
  • Il gabbiano che al centro della carreggiata a due corsie sta eviscerando un piccione. È tranquillo, banchetta in totale assenza di traffico. Osservato da due pedoni in mascherina che ai lati opposti della strada riprendono la scena col telefonino per farne la loro prossima storia social.
  • Il giovane autista dell’87 vuoto come un carico di appuntamenti mancati che percorre i 20 chilometri del suo percorso nel centro di Roma in meno di mezz’ora e poi segna sul suo taccuino personale la performance, da raccontare ai suoi bambini se mai ne avrà.
  • Il cantante di piano bar, brizzolato e piacente 60enni che vive al primo piano e che per preparare a scaletta dell’ormai abituale concerto delle 18 a finestre spalancate, prova le canzoni già dalle 10 del mattino. Lui sa essere per noi Renato Zero, Vasco Rossi, Tiziano Ferro, Celentano, e mette del suo nel combattere il virus.
  • Il ciclista del food delivery laureato in scienze politiche con una tesi su “Dipendenza e sviluppo nei paesi del G8” che porta un carico precotto a chi sceglie equo e sostenibile, ogm free, chilometro zero e intanto riabilita la para schiavitù di questi ciclisti a cui il futuro era negato già prima del virus
  • La coppia che tutte le sere appare sul terrazzo condominiale con un baloon di vino o di cognac in mano e osserva il paesaggio, baciandosi e parlando sottovoce di posizioni estreme o di serie televisive da vedere sul lettone stasera.
  • L’addetto alla raccolta dei rifiuti che col suo camion affianca il bidone d’acciaio, lo aggancia, lo travasa nel pancione del suo mezzo. Provo invano a agganciarne lo sguardo. Non ci riesco. Lo ringrazio con pensiero.
  • Poi ci sono io, col mio trolley usato come coperta di Linus, che ogni volta che decido di uscire per la spesa percorro un chilometro più del necessario per stradine vuote e secondarie, riscoprendo gli odori e i colori del mio quartiere.


mercoledì 15 maggio 2019

Il Salone del Libro di Torino per chi non c’era: dalla A alla Z


  •  A – Alberto Angela, presidente del consiglio dei saggi per acclamazione, atteso da una fila immensa. Evocato già dai perquisitori (quelli che all’ingresso ti tolgono le bottiglie d’acqua perché tu possa comprare l’acqua nei bar interni). Sbrilluccicante negli occhi glitterati delle signore phonate. Santo subito.
  • B – Bella Ciao, password popolare che apriva l’accesso alle teste altrimenti rinchiuse nella paura di un forte fascismo percepito. Era scritta sulle spilline indossate dagli editori, appesa agli stand, fischiettata nei bagni e nei corridoi. Mi son svegliato.
  • C – Code, una costante nel paesaggio. Migliaia di bipedi disposti a aspettare per ore in coda la presentazione di Salinger Jr., la dichiarazione di Saviano, la battuta di Pannofino. Code per mangiare, pisciare, pagare. Code.
  • D – Disegnetto, è il miglior modo di vendere libri se fai l’illustratore. Vati del gesto creativo seriale sono Zerocalcare, per avere il di cui disegno su un di cui libro occorreva prendere il numero e attendere qualche ora peggio che allo sportello Equitalia, e Leo Ortolani che invece amava veder la fila davanti a sé; fila così lunga da favorire la nascita di amicizie e amori.  
  • E – Ebook, scomparsi dai radar, schifati dal mercato, hackerati come avenger, sopportati da pochi editori, espulsi da altri. Nessuna traccia, nessuna convenienza. Fino ad alcune case editrici serie che, se proprio lo scrittore vuole, gli fanno l’ebook se se lo paga lui.
  • F – Fascismo, respinto, rimbalzato, esorcizzato, schiacciato da pile di libri e da suole inarrestabili, soprattutto da idee e buon senso che nel salone esondavano fluenti. Chi aveva pubblicato anche solo la biografia del nonno nato in quel periodo la esponeva come feticcio e parafulmine. La forza delle idee vs. la forza  contro le idee.
  • G – Giovani. Tanti, ovunque, in parte scarrozzati da professori, in parte impegnati in progetti di alternanza scuola/lavoro centrati sull’intervistare, scrivere, creare, gestire. Tanta curiosità esibita. Alla ricerca di voci sintonizzate sulle loro orecchie, e di orecchie sintonizzate sulle loro voci, che sono poche.
  • H – Haiaiai a chi pensava di trovare un posto comodo e democratico dove ricaricare il telefonino…
  • I – Ipocrisia. Un mare di editori a pagamento che nel Salone esibiscono verginità e serietà a danno degli allocchi. Stand enormi di sigle neppure distribuite in libreria. Robe così.
  • L – Libraccio. Un enorme stand del Libraccio che stravende testi scontati di un po’ tutti, di molti marchi presenti. Code alle casse. Migliaia in cerca dello sconto con gli editori lì accanto che fanno la fame con gli stessi volumi a prezzo pieno. Toglietelo di mezzo! È concorrenza scorretta, non vi pare? E abbassa di molto la percezione del valore dei testi. Un brutto spettacolo.    
  • M – Mangiare, code infinite e qualità da luna park di provincia. Hot dog, hamburger, pizza molliccia. Al Salone è meglio nutrire l’anima.
  • N – Novità, tante e varie.
  • O – Ohhh, facevano tutti davanti all’enorme cilindro di libri altro oltre 10 metri
  • P – Podcast, diversi gli stand interessanti che cercano di trovare la via italiana al podcast. Da Amazon a Storielibere.fm, in diversi fanno capolino in un mercato che trova molte delle sue ragioni nell’invecchiamento della popolazione, nella pigrizia dei lettori, nella diffusione dell’uso degli auricolari, nella qualità dei nuovi prodotti, nei nuovi home assistant (“Alexa leggimi 50 Sfumature di”). Da tenere sott’occhio.  
  • Q – Quando non ne potevo più di stare in piedi mi sono infilato in uno stuzzicante confronto sul western italiano da Tex a Red Redemption 2, da trame elementari a narrative non lineari. Per nerd della scrittura.
  • R – Regioni, hanno fatto i loro stand, molti grandi e grossi, e costosi. Luoghi senz’anima con l’attrattività di una bancarella bulgara di merce contraffatta nella periferia di Stoccarda. Puglia, Marche, Calabria, Sardegna, con libri dal valore dubbio  e la qualità risibile appoggiati su banconi, oscuri funzionari leggenti al massimo gruppi su whatsapp. Da evitare.
  • S – Spritz. Lo stand dello spritz molto pop e gettonato a tutte le ore. 5 euro per gradire. Intellettuali alticci, inebriati dall’arancione. Poco ‘Hare Krishna’, molto ‘... e dove ceniamo stasera?’
  • T – Torino, splendente ed efficiente, che ci ha stupito con la nuova passerella che collega Stazione Lingotto direttamente col Salone. Così si fa.
  • U – Undici i libri che mi sono comprato con la complicità del POS presente in ogni stand, tra cui: “Viviamo in acqua” di J. Walter e “Doppler – la vita con l’alce” di E. Loe di cui non sapevo nulla e contino a non sapere nulla, acquistati solo perché passavo di lì e gli editori sono stati convincenti
  • V – Visitatori. Tanti tantissimi, eterogenei, hipster e nonne, sognatori e fan, aspiranti qualsiasicosa, lettori incalliti e perdigiorno. Continuiamo così, facciamoci del bene.
  • Y – Youtuber, editori di grandi dimensioni che raddrizzano i bilanci con improbabili biografie di sedicenni spettinati che raccontano l’ombelico a una generazione che non ha occhi per vedere la luna. Giovani creature figlie di un’altra generazione che li ha convinti che mai andranno sulla luna, perché neppure esiste ed è stata messa lassù da Photoshop.
  • Z – Zero scuse: leggere fa bene a tutto.


lunedì 10 dicembre 2018

Sullo scrivere e sul leggere ai tempi dell’emoticon


Caso 1) Un amico funzionario  in Commissione Europea mi racconta che in un comitato impegnato a trasferire norme di sicurezza e igiene ai parrucchieri di tutta Europa si è sentito dire: “No, non possiamo presentare questi contenuti con una brochure perché i parrucchieri non leggono mai!” Era chiaro come il problema non fosse ‘quella’ brochure ma l’uso di testi in generale.

Caso 2) In uno dei miei corsi di storytelling applicato ai beni culturali abbiamo visitato diversi musei. Abbiamo provato a ragionare sulle didascalie alle opere. Mi sono subito reso conto come l’esercizio non destasse entusiasmo. Il perché mi si è chiarito quando, con schiettezza, un partecipante è sbottato: “Vabbè, Andrea, il fatto è che io non leggo mai le didascalie, per me si potrebbero proprio togliere. Dobbiamo inventarci altro…” In molti annuivano.

Caso 3) Non c’è bisogno di un semiologo per notare come lo spostamento verso Instagram dell’uso dei social non coincida affatto con la capacità di fare belle foto quanto piuttosto con la voglia di senso immediato dato dall'imagine ritoccata, fasulla, patinata. Traspare il totale disinteresse per l’approfondimento, e si nasconde una scarsa capacità di approfondire, quasi che la consapevolezza di non avere gli istrumenti per comprendere la complessità travasi l’attenzione e la dedizione dove non c’è nulla da capire.

Caso 4) Il diluvio di whatsapp vocali e la loro illogica serialità che trasforma ogni affermazione in provvisoria. Svuotato dal contesto di un processo di apprendimento, parlare a Siri, Alexa e Hal9000 diventa più dannoso che spiegare l’Iliade a un cane o conversare con gli alberi (perlomeno questi non danno problemi di privacy). L'Intelligenza Artificiale avrà in futuro decine di fantastiche applicazione ma il suo distaccarci dalla parola scritta ci allontanerà anche dalla necessità di capire concetti complessi e al gusto di considerare alternative meno efficienti ma più costruttive alla soluzione dei problemi.

Vivo scrivendo, scrivo per vivere. Mi ricarico leggendo.
Parte delle mie parole esce in forma di libro edito; quando scrivo biografie personali queste diventano un libro privato in edizione limitata; le mie sceneggiature diventano spot o plot; progetto esperienze che fanno ridere, imparare, piangere, scoprire, in musei, negozi, spazi; poi c’è il blog, il sito, i post, le lettere a chi amo, gli appunti lasciati a macerare nei notes per anni che al momento giusto sanno prendere vita.
Nello scrivere trovo manifesto il coraggio di affermare la propria esistenza, è un continuo mettersi in discussione, affrontare la vita adulta, serve a mediare e a comprendere, lascia inermi, muove energie.

Per quello che scrivo vengo anche contestato, talvolta in modo acceso. E sono tra i momenti migliori, quelli che ti fanno capire come scrivere serva, come io di strada ne debba fare ancora tanta, quanto debba imparare, e di nuovi compagni di strada incontrarne molti.
Spesso chi mi contesta non è in grado di argomentare le sue ragioni e la butta in caciara, in quei casi mi spiace. Vorrei sapesse argomentare meglio, contestarmi meglio, usare delle fonti, separare fatti da opinioni. Perché altrimenti il nostro incontro non serve a nessuno dei due.
Perchè scriversi e leggersi è la migliore via conosciuta per moltiplicare le vite che ci sono concesse.




lunedì 23 luglio 2018

"How to be Italian", nel Turismo, nel Lavoro.


Da un paio di mesi sperimento un’Esperienza su AirBnB: propongo una passeggiata di quattro ore per turisti dal titolo “How to be Italian”. Racconto ai partecipanti cosa ci differenzia dal resto del mondo nel pensare, gesticolare, vestire, mangiare, bere, corteggiare, gesticolare. E, soprattutto, mi soffermo sul perché siamo così. A prenotare sono prevalentemente americani.
Da anni avevo in testa di scrivere un libro sul tema e la diffusione del turismo esperienziale su grande scala mi ha dato l’opportunità di poter incontrare degli interlocutori interessati al tema, utili specchi alle mie riflessioni. Con loro il libro si scrive da solo.
A oggi, il bilancio è entusiasmante:
  1. I miei ospiti godono di una mediazione culturale personalizzata che nessuno mai gli propone. Da quello che mi scrivono capisco come cambi in loro la percezione del contesto, delle ragioni, delle esperienze che segnano la loro visita in Italia.
  2. Io ho profondamente cambiato le mie opinioni sul turismo e su molto mondo che mi passa accanto

Ho scoperto ad esempio come:
  • Molti, soprattutto gli americani e australiani, non abbiano il senso del Tempo e invece vogliano ‘fare’. È irrilevante raccontargli come un luogo abbia 2000 anni e illustrare l’avvicendarsi delle epoche o dei periodi artistici, dei Romani agli Etruschi, del gotico al romanico: ciò per loro non ha alcun senso reale. (Noi, d’altronde non abbiamo il senso dello Spazio che hanno loro.)
  • Anche per il motivo precedente, la maggioranza frequenta qualche museo perché ‘deve’, gli è ‘suggerito’, fa ‘cool’ con gli amici. Di solito sono gli Uffizi o i Vaticani, dove il selfie giustifica abbastanza la visita. Fanno la fila lì e disertano del tutto luoghi anche più interessanti che sarebbero adatti a inclinazioni personali che non sanno di avere. L’interessante video di Beyonce e Jay Z al Louvre ben esemplifica tutto questo.
  • Non ci comprendono come forse noi non comprenderemmo il Giappone, o come ci illudiamo di capire New York o New Orleans perché li abbiamo visti in tv. La loro assenza di prospettiva storica, la loro distanza da tutto quello che determina la nostra identità spostano i loro interessi dalle cose alle persone.

Mi è capitata una coppia che nei Musei Vaticani è stata soverchiata dalla folla e ne è subito uscita, senza rimpianti: lì ho capito perché ha successo l’americanata del “Il Giudizio Universale” in scena a teatro.
Molti, ripeto, molti, al quarto giorno a Roma non sono stati a Fontana di Trevi. Non parliamo dei luoghi o musei minori… è escluso arrivare fino a San Giovanni in Laterano, a Sant’Agnese, Villa Adriana o altro.
Però hanno fatto la pizza, fatto la visita ornitologica del Parco della Caffarella e passato una giornata tra i vigneti a Frascati.
Mi scrivono “Mi suggerisci cosa fare a Roma nei tre giorni che sono lì: chiese e musei non mi interessano.
Una coppia contenta mi ha detto, “Abbiamo visto Roma, Firenze, Bologna e Venezia. La nostra preferita è senza dubbio Bologna: bella, piccola e rilassata. Lì si passeggia e si prende l’aperitivo.”

La loro innata pragmaticità punta tutto sul fare. Questo non significa minore curiosità, voglia di relazione  o di conoscenza, però la loro priorità non è capire Cosa c’è in Italia ma Perché l’Italia è così, oggi.
Perché è così bella, varia, interessante, creativa, migliore di loro in svariati campi, perché qui si vive più a lungo e ci si suicida così poco, perché metà dei loro stilisti preferiti sono italiani, perché gesticoliamo parlando, perchè i nostri ospedali e scuole siano meglio delle loro e gratuite, perché il parmigiano non vada sulle linguine alle vongole o perché non camminiamo con un beverone in mano, perché da noi non ci sono attentati terroristici, perchè tolleriamo così tanto l'infrazione delle regole.
Alcuni poi - gratificati dal Perchè - esplorano anche il Cosa secondo nuove prospettive

Questa nuova e prepotente richiesta dal mercato è diffusa, ricca, per noi è un'opportunità nuova: di crescita personale, di nuovi business, di lavori, per dare sostanza a termini modaioli come ‘turismo esperienziale’ e trasforma davvero i turisti in ‘cittadini culturali’: non più concentrati su conoscenze da acquisire ma su competenze nuove per capire e capirsi.

È anche una opportunità unica per specchiarci e imparare molto di noi stessi.