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sabato 22 agosto 2020

Evidenze utili dal pianeta Austria

Le mie vacanze in Austria, all’apparenza pigre e paciose, portano sempre a considerazioni che sono utili per capire l’Italia. 

Gli highlight del 2020 sono stati:

  • Ricchezza: la vedi, la percepisci, traspare da gesti, abbigliamento, negozi, status simbol, superfluo che diventa necessario. È diffusa, al punto che qui la sinistra non esiste quasi perché non saprebbe davvero cosa rivendicare di più; il massimo che si possono permettere sono i Verdi. Il welfare è incredibile, così come i contributi alle famiglie. L’occupazione è quasi piena e la povertà la vedi quasi solo in relazione al disagio esistenziale (solitudine, separazioni, alcool e simili). La corsa al bio, all’organic, al tofu, al naturale è spasmodica e quasi ridicola; circolano bici elettriche da 4000 euro ovunque; Porche e Tesla come taxi in città; sensazione massima di sicurezza e tranquillità sempre. Nessuno però metterebbe un vestito di seconda mano, accetterebbe un prodotto usato (a meno che non sia una borsa fighissima, fatta con teloni di camion riusati e costi almeno 250 euro). L’evasione fiscale è quasi inesistente.  Certo, hanno i loro scandali finanziari, sessuali, aziendali ma ancora se ne vergognano se vengono beccati, come accadeva da noi prima di Berlusconi.   
  • Arredo urbano: le città sono facili, comode. Le persone sono rispettose del bene comune e questo consente arredi urbani bellissimi, panchine in legno, fontane di acqua fredda, nebulizzatori dall’alto nelle piazze più frequentate e più calde, un’infinità di spazi pubblici per il gioco e lo sport ad ogni età. Ci sono talmente tante ciclabili che immagini che qui Cappuccetto Rosso avrebbe attraversato il bosco in monopattino.
  • Croci: a bordo strada, sulle statali, ogni tanto trovi piantata una smagliante croce bianca. Ho pensato fosse qualcosa di analogo a quanto (abusivamente) si fa in Italia per ricordare qualcuno che in quel tratto è morto. No. È invece una nuova campagna per la sicurezza stradale che parla visivamente e sembra dirti “Ricordati che devi morire… e se non rallenti potrebbe capitare proprio qui”. Creatività e potere di condizionamento.
  • Semafori LGBT: a Vienna, in centro, alcune decine di semafori pedonali sono stati modificati e al posto dell’omino stilizzato abituale in questi casi si trovano: donne, coppie etero, coppie omo nelle versioni uomo-uomo e donna-donna. Mi è stato detto che fu fatto in occasione della finale Eurovision di alcuni anni fa. Poi, gradito dalla popolazione, è rimasto. Simpatico e simbolico.
  • Comunicazione:  vivono abbastanza in una bolla a cui sono stati abituati negli anni della Cortina di Ferro e che gli viene ancora bene per tenere fuori ogni elemento sgradito e dialogare solo con chi vogliono, con chi reputano pari o con chi pagano per i suoi servizi. L’altro giorno tra le 3 notizie date da un canale radio nazionale c’era “La famiglia Fritz ha trovato in cantina un serpente non velenoso lungo 20 centimetri”. Credo si colleghi direttamente al loro benessere: stanno benissimo e non vogliono sapere perché.
  • Covid19: sono disinteressati al tema. È quasi imbarazzante. Annunci roboanti su esercito alla frontiera col mondo e poi i loro numeri sono peggiori degli altri. La cosa interessante è che (a differenza dell’Italia) la comunicazione è tutta schierata a sottovalutare la cosa. Ad esempio: il numero dei casi oggi a Vienna è il triplo di Milano ma non li mettono mai in relazione; sono molto meno attenti a mascherine e simili appena si esce dalle città; da noi ogni giorno si pubblicano i dati per regione, per ASL, per tipologia… qui niente, solo un dato generale in un occhiello a pagina 6 senza confronti.
  • Psicofarmaci e Mastiti: le statistiche ufficiali legate al Covid19 riportano che nelle case di riposo è stato ridotto del 30% l’uso degli psicofarmaci da quando sono vietate le visite dei parenti; le stesse statistiche dicono che è andato a 0 il numero delle mastiti nei reparti ospedalieri da quando è stato vietato la visita alle donne che hanno appena partorito da parte di parenti e amici. Dati su cui riflettere.
  • Red Bull: cosa c’entra? Vi dico una cosa che non sapete: Mateschitz, il padrone della Red Bull è anche padrone di mezza Stiria e di tanta Austria e Germania. Un personaggio da profilo basso. Oltre all’azienda del toro rosso possiede montagne, laghi, autodromi, riviste nazionali, squadre di calcio in mezzo mondo, isole ai Caraibi, ristoranti di lusso. Un plurimiliardario ritenuto illuminato che proietta su un paio di generazioni austriache l’immagine Red Bull di una vita energizzata, edonsta, spensierata e facile.  Se glielo faccio notare, dai loro sguardi capisci che non si rendono conto di come i Mateschitz siano pericolosi, in un paese così piccolo hai la sensazione che possa diventare un vero ‘governo-ombra’.
  • Italia: ci vogliono bene, molti imparano la nostra lingua. È sempre un calore bello che mi fa anche sentire un po’ in colpa perché dopo tanti anni il mio tedesco è ancora piuttosto basico. In questi giorni, sono passati da “Vacanza in Croazia!” a “Tutti in Italia perché la Croazia ci ha raccontato bugie sul virus!”.
  • Alpeggi: anche qui però in molti sono rimasti a far vacanza in zona. Cosa c'è di meglio che andare in montagna e dormire in alpeggio? Uno dei temi caldissimi è stato quello delel famigliole con i completi firmati da 2000 euro, le bici da 4000 e i bastoncini da passeggio in carbonio che hanno invaso le valli sfraccicanden i cabbasisen a malgari e montanari che si sono assai arrabbiati: le mucche non gradiscono, i cani di città fanno casino nei pascoli, ... tornate a casa vostra insomma! 
  • Qualità della vita altissima: oltre la metà delle persone incontrate a Vienna non possiede auto di proprietà perchè in città non serve; una coppia di amici che si è trasferita lì 3 anni fa dopo 27 anni a Roma conferma “La qualità della vita è altissima, tutto funziona, tutto è semplice.” Passo e chiudo.

lunedì 16 marzo 2020

Voi, io, noi: le persone che incontro nella città sospesa dal virus


La quarantena ha esaltato le caratteristiche dei tipi umani che si vedono in giro.
Le loro storie riempiono lo spazio, e l'assenza di rumori di fondo li fa emergere con forza dall’anonimato che li accompagna in tempi di normalità.
A passeggio nel quartiere spiccano:

  • L’uomo di 60 anni a cui hanno chiuso sia il bar che la ricevitoria, le sue lochescion. È incazzato, doppiamente perché  la moglie manda a fare la spesa. Lui le telefona davanti a ogni barattolo di yogurt (ma quanti cazzo di tipi ce ne sono!), di confezione di pasta (ma quanto cazzo di tipi ce ne sono?), di forma di pane (ma quanti cazzo di pani esistono??)
  • La matrona 78enne che ogni mattina vara la sua stazza oltre l’uscio di casa e va a fare la spesa, rompe i maroni a tutti per passare avanti perché lei 'non può stare in piedi' e compra solo 50 gr di prosciutto senza grasso, 1 panino, 1 litro di latte, 2 mele o 1 banana. E ‘Ci vediamo domani’.
  • La negoziante separata con i lunghi capelli sciolti e le dita nervose che porta i figli piccoli in negozio perché non ci sono babysitter disponibili a domicilio. Non sa dove metterli. Loro giocano sul pavimento mentre negli occhi della madre saetta apprensione per ogni cliente sconosciuto che entra.
  • I neogenitori, molto giovani, che spingono la carrozzina per le vie perché ritengono sia l’unico modo in cui è possibile addormentare il pupo. Lei è disinvolta, so fa sempre; lui, accanto, indossa goffe sneacker tardoadolescenziali e dagli sguardi dei passanti assorbe nuove abitudini e ansie inedite.
  • I due operai rumeni che dentro un negozio a piano strada stanno ristrutturando l’ennesimo estetista che se non si riconverte al volo in una sartoria per mascherine aromatizzate al timo dubito che abbia presto la gioia di una inaugurazione con le piante infiocchettate.
  • La ragazza con i capelli biondi e gli occhi seri, incinta al quinto mese a cui le minacce del virus hanno turbato la gioia di una nuova bambina in famiglia. Ogni suo pensiero oscilla tra un futuro radioso e il timore dei controlli in ospedali pieni di possibili pericoli immateriali   
  • Il giornalaio con la barba, con un aspetto a metà tra il senzatetto e il brigatista che, ogni mattina, camminando per i 3 chilometri che lo separano dal suo chiosco teme che la polizia non creda che sta andando a lavorare per un servizio essenziale.
  • Il signore col cane e il passo veloce. Il botolo ha già pisciato e defecato in abbondanza, vorrebbe rientrare, ha la lingua fuori, ma deve seguire questo 50-enne che con la scusa del cane sta fuori due ore e scopre ogni giorno marciapiedi sconosciuti.
  • La trentenne aspirante qualcosa, col tailleur giacca-pantalone che nonostante sia ormai semidisoccupata è ugualmente agitata, ugualmente concentrata su un lavoro che si sfalda, con apericene cancellate, ugualmente severa con se stessa e con qualche stagista che alle 8.30 ha già al telefono e si prende cazziatoni per inadempienze impalpabili come lacrime nella pioggia.
  • Il gabbiano che al centro della carreggiata a due corsie sta eviscerando un piccione. È tranquillo, banchetta in totale assenza di traffico. Osservato da due pedoni in mascherina che ai lati opposti della strada riprendono la scena col telefonino per farne la loro prossima storia social.
  • Il giovane autista dell’87 vuoto come un carico di appuntamenti mancati che percorre i 20 chilometri del suo percorso nel centro di Roma in meno di mezz’ora e poi segna sul suo taccuino personale la performance, da raccontare ai suoi bambini se mai ne avrà.
  • Il cantante di piano bar, brizzolato e piacente 60enni che vive al primo piano e che per preparare a scaletta dell’ormai abituale concerto delle 18 a finestre spalancate, prova le canzoni già dalle 10 del mattino. Lui sa essere per noi Renato Zero, Vasco Rossi, Tiziano Ferro, Celentano, e mette del suo nel combattere il virus.
  • Il ciclista del food delivery laureato in scienze politiche con una tesi su “Dipendenza e sviluppo nei paesi del G8” che porta un carico precotto a chi sceglie equo e sostenibile, ogm free, chilometro zero e intanto riabilita la para schiavitù di questi ciclisti a cui il futuro era negato già prima del virus
  • La coppia che tutte le sere appare sul terrazzo condominiale con un baloon di vino o di cognac in mano e osserva il paesaggio, baciandosi e parlando sottovoce di posizioni estreme o di serie televisive da vedere sul lettone stasera.
  • L’addetto alla raccolta dei rifiuti che col suo camion affianca il bidone d’acciaio, lo aggancia, lo travasa nel pancione del suo mezzo. Provo invano a agganciarne lo sguardo. Non ci riesco. Lo ringrazio con pensiero.
  • Poi ci sono io, col mio trolley usato come coperta di Linus, che ogni volta che decido di uscire per la spesa percorro un chilometro più del necessario per stradine vuote e secondarie, riscoprendo gli odori e i colori del mio quartiere.


martedì 14 agosto 2018

Il Ponte, aorta di una città.


Scopro adesso che si chiamava Ponte Morandi, per me è sempre stato il Ponte della Nonna Angela.
Sotto le enormi campate c’è tuttora un quartiere di case popolari in larga parte destinate ai ferrovieri emigrati dal sud, arrivati negli anni ’40. Come i miei nonni, appunto. In quei 70 metri quadri hanno vissuto per 50 anni e i loro 13 figli hanno costruito le basi della vita al nord.

Me lo ricordo fin da piccolo. Saprei disegnarlo a occhi chiusi. 
Si vedeva da lontanissimo e avvicinandosi a piedi avevi modo di capire quanto fosse fuori misura ed imponente. Per me era come la presenza preistorica di una civiltà aliena, altissimo sopra le case, espressione di uno stile architettonico particolare. Unico nel suo genere. Forse bellissimo. Di certo l’orgoglio del quartiere e della città.
Era la forma più particolare e maestosa che avessi mai visto: nella mia classifica di bambino si giocava il primato solo con le linee della Michelangelo e della Raffaello, transatlantici di bellezza assoluta, miti dello stesso periodo storico. Per me era il design, la simmetria, la forza della bellezza al servizio dell’uomo.
Crescere lì, a pochi metri, attraversarlo sopra e sotto migliaia di volte, per lavoro, per andare al mare, a trovare amici, in Francia, sulle Alpi, all’aeroporto, dagli zii, dalla mia amica Pina, ha significato per molti (per me) trasformarlo in una icona del quotidiano. Era un vero simbolo. Cento volte più presente, possente e significativo  dell'irraggiungibile Lanterna.

Era da sempre in manutenzione, ristrutturazione o quello che volete. Bastava avere un amico nel settore per sentirsi dire “E’ fatto in calcestruzzo precompresso, non resiste. Va continuamente sistemato. È più complicato tenerlo su di come sia stato costruirlo.” Siccome sono un positivista ho sempre pensato che tutto fosse sotto controllo. Mi sbagliavo.

E ora? Voi che non siete di Genova, non potete capire la domanda. È caduto un ponte, suvvia…

No, è stata tagliata l’aorta della città, la strada che rendeva possibile attraversarla, collegarla con i mercati, portare i turisti, muovere la vita. Il ponte è caduto sulla ferrovia che porta le merci da/per il porto che rischia di strozzarsi e di perdere in un attimo il ruolo che verrà in pochi giorni ridistribuito in Italia e all’estero. Se una città non si muove perde qualsiasi ruolo e opportunità.
Metteteci pure che Genova non è servita dall’Alta Velocità, ha un aeroporto che non è mai decollato, indicatori della qualità della vita molto peggiori del resto del nord, un continuo saldo negativo degli abitanti, è gestita senza idee da molti anni, la principale banca è a pezzi, ha un territorio devastato da anni di incuria, ecco che la sfida diventa epocale. Genova non può farcela da sola.

Ci sono tantissimi talenti, energie capaci di affrontare anche questa, di farsi forza. Ci sono imprenditori validi che guardano all’Italia e ai mercato mondiali. Molti di loro non hanno ragioni di rimanervi se non quelle affettive e di legame con territorio. Se questo disastro non ha anche l’effetto di un elettrochoc allora davvero la fuga di tutto quello che ancora si muove rischia di diventare inevitabile. Invece la città deve diventare attrattiva, per chi studia, chi lavora, chi viaggia, chi cerca un posto diverso da ogni altro. Attrarre per evolvere, per innovare, per non spegnersi.

Che il ponte vada ricostruito subito è indubbio. In questi 3-4 anni sarà imperativo ripensare il rapporto tra città-abitanti-territorio.  Che quest’elettrochoc attraversi l’Università, le categorie, i molti immigrati, i zeneizi doc, chi ha il materasso infarcito di euro e chi porta in dote solo le braccia, fino a chi fino oggi si stava chiedendo la ragione vera dell’essere proprio lì ora. Stop al mugugno.
Questa non è un’alluvione in cui con fatica tremenda si cerca di riportare le cose a come erano prima. Questo è un punto di non ritorno.

In un sera così dolente mi permetto di essere ancora positivo: Genova ce la può fare, Genova non deve crollare.


martedì 4 agosto 2015

Strade pulite, persone pulite.

A volte ospito post importanti, che mi paiono utili a molti, in grado di segnare una strada.
Ecco perchè questo ragionamento sul senso civico e sul futuro del Paese, pubblicato da Elena su FB, va amplificato, fatto girare, ripreso e condiviso. 
Elena è un'amica che ha deciso di fare piuttosto che stare a guardare. Da lei c'è davvero molto da imparare. 
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Mettiamo in chiaro qualche concetto, che mi pare ci sia una certa confusione.
Dico due parole ad una piccola assemblea pubblica, un amico mi dice di metterle nero su bianco, sulle prime esito poi capisco che è il momento giusto. Mi ci metto, i pensieri si allargano, i collegamenti si moltiplicano e quindi parto da lontano.
Chiacchieravo camminando con una mia insegnante, la classica ragazzona americana, allegra, che parla sempre tanto e a voce alta, un metro e ottantacinque di Heather Parisi. Incidentalmente, viene fuori che ho frequentato il liceo Cavour, vicino a Colle Oppio a Roma. Appena lo dico, si ferma, lei sa esattamente dove si trova la scuola, mi fissa con uno sguardo improvvisamente serio e mi dice, in italiano “quindi, tu hai visto il Colosseo tutti i giorni per cinque anni. Tu lo sai che significa questo, vero?” La risposta “yes, I know. It’s a great privilege” la sussurro, quasi mi sento in imbarazzo. Dentro di me l’ho sempre saputo, ma per la prima volta questa pensiero diventa materia, come se lo potessi toccare, della stessa materia del Colosseo.
Semisdraiata sul divano, in pieno zapping nevrotico, mi imbatto in un fotogramma di una corsa ciclistica. Meno di un secondo e passo oltre, giusto il tempo tecnico minimo per decodificare sederi-di-uomini-curvi-che-faticano-inutilmente-fasciati-da-ridicole-tutine-lucide (è la mia considerazione del ciclismo, lo ammetto). Altri due, tre canali e non so bene da dove, dal profondo del cervello, dell’anima, un altro pensiero inaspettato mi dice che sullo sfondo della corsa, quel profilo che separava il cielo dalle montagne sembra proprio quello che si vede dalla casa di nonna in Toscana. Torno indietro, anche se mi sembra impossibile averle riconosciute, sono un pezzo qualunque Appennino; mi costringo a seguire qualche minuto la gara e il telecronista, mi conferma, sembra parlare proprio con me, che sì, oggi il Giro d’Italia passa in Mugello. Resto di stucco, quello che ho riconosciuto in un attimo, senza nemmeno essere consapevole di cosa stessi guardando, è stata la linea d’orizzonte di quasi tutte le mie estati, la corona di monti che abbraccia questa valle, la mia Heimat.
Così ho capito perché mi piace tanto andare in giro per musei, mi piace tutto, ma chi mi incanta sono sempre i soliti Cimabue, Giotto, Andrea del Castagno, Beato Angelico: abbiamo visto la stessa linea d’orizzonte; non li conosco, li riconosco. E ho capito che siamo quello che mangiamo, ma siamo anche quello che vediamo, magari distrattamente, per il solo fatto che fa parte dell’ambiente, che sta all’orizzonte, che passa davanti ai nostri occhi, e giorno dopo giorno, queste visioni modellano il nostro cervello, i nostri sentimenti, i nostri valori, diventano norma, cioè ci suggeriscono cosa considerare normale, accettabile. E cosa no.
Il mio impegno nel movimento di ‪#‎RetakeRoma‬, trova fondamento in quello che ho visto. Ho fatto scorpacciate pantagrueliche di cose belle e adesso che so anche guardarle non posso sopportare che si sciupino solo per approssimazione, distrazione, lassismo. È il contrario del culto ossessivo dell’estetica consumistica.
Inizio quasi un anno fa, da sola e poi in compagnia, incontro persone interessanti, simpatiche, intelligenti, piano piano si impara a conoscersi, si parla sempre di più. All’inizio di acquaragia e strofinacci, poi di una visione della città, degli spazi per la socialità, di uso consapevole delle risorse e si condivide lo sgomento per il pantano corruttivo in cui la città sembra putrefarsi. Sulla strada, nei parchi, nelle scuole tocchiamo con mano le conseguenze di questa barbarie silente: erba che cresce ovunque, altalene sfasciate, cestini dei rifiuti svuotati solo dalle cornacchie, scuole rabberciate alla bell’e meglio devastate da scorribande impunite di vandali, marciapiedi impercorribili occupati da stracciaroli abusivi, monumenti imbrattati, sporcizia, sciatteria e inciviltà che dilagano di pari passo, istituzioni quasi sempre latitanti, forze dell’ordine in affanno. E appalti bloccati, da rifare per ovvi motivi. L’Europa è lontana.
Continuiamo, gli interventi si fanno sempre più complessi, costosi anche, ma il giro si allarga, persone veramente speciali infoltiscono le fila o semplicemente si affiancano, c’è chi ci grida “siete grandi!” dal finestrino della macchina. Ci mettiamo alla prova, organizziamo una mega colletta, un successo inimmaginato.
Arriva giugno, fine dell’anno scolastico e chiusura del nostro primo anno di attività. Ci vuole una pausa di riflessione, magari anche un po’ in solitudine per mettere a sistema tanto lavoro, tante conoscenze, tante emozioni.
La realtà chiama, però. Alcuni giorni fa, durante una riunione di Retake qualcuno racconta che un importante concessionario di pubblicità che lavora all’estero e in Italia, anche a Roma, vorrebbe investire di più ma “i problemi che abbiamo a Roma non li abbiamo da nessun’altra parte. Per questo non investiamo anche nel bike sharing, subiamo già troppi danni agli impianti”. Sono arrivati al punto di rinunciare a cospicui introiti pubblicitari per promuovere una campagna contro gli atti di vandalismo. Mi si gela il sangue: secondo questa impresa Roma non garantisce le condizioni ambientali minime per investimenti che fanno tranquillamente altrove. E parliamo di bike sharing, cioè la versione appena evoluta dell’affittasi biciclette, né vale la scusa della burocrazia assurda perché questi a Roma ci lavorano già, il loro problema è il vandalismo.
Contemporaneamente, l’ennesima emergenza. Migliaia di persone approdano straniere in questa città dopo viaggi irraccontabili, persone in fila per un bagno, del cibo, un paio di ciabatte, come in tempo di guerra. Montano orgoglio e sgomento: romani in fila per portare vestiti, cibo, medicine, offrire un po’ di tempo, sezioni di partito come centri di raccolta, finalmente servono a qualcosa, la rabbia al pensiero che con i soldi che ci siamo fatti rubare avremmo potuto accoglierli più dignitosamente. E ancora istituzioni disorientate, appalti bloccati, cittadini di buona volontà che si sostituiscono ai servizi pubblici. Mi presento ad un centro di accoglienza e piombo in un film del neorealismo: in un vicolo che è un manuale di abusivismo edilizio di necessità, con tetti in ondulato e ballatoi con cascate di petunie come neanche a Versailles, incontro facce consumate, occhi che hanno visto l’orrore, ragazzi stravolti che sembrano vecchi, bambini che giocano a spade con i palloncini e ridono scalzi.
A meno di due chilometri, un’armata brancaleone di bigotti fanatici e estremisti non trova niente di meglio da fare che scendere in piazza contro quelli diversi da loro. Vogliono difendere i lori figli e non si accorgono che li stanno consegnando a dei mostri.
L’Europa è sempre più lontana.
Sembrano solo coincidenze, ma il cerchio si chiude e fa impressione. La delinquenza di stampo mafioso ha inghiottito i servizi basilari di questa città, quello che serve per la vita delle persone comuni, i piccoli, gli indifesi, i bisognosi. Per pigrizia, per ignavia, per faciloneria, per distrazione, per non aver visto quanto tutto stesse diventando brutto e cacofonico, abbiamo rinunciato a strade praticabili, scuole sicure, trasporti pubblici efficienti, servizi sociali all'altezza di un paese civile, manutenzione del patrimonio artistico e culturale, piste ciclabili, riduzione dell’inquinamento, servizi turistici, meno soldi per carburante e più in libri, cinema, viaggi. Tutte cose che si traducono in posti di lavoro, in dignità, in opportunità di crescita culturale e spirituale per i ragazzi, per la società intera. Una gigantesca mancanza di visione.
Ma sottotraccia qualcosa si muove e testimonia l’esistenza di un enorme giacimento di attenzione, cura, competenze, serietà, tenacia, intelligenza, disponibilità, generosità ancora sottoutilizzato, di una domanda forte di partecipazione sociale inespressa che non si riconosce nelle forme tradizionali. Cominciano ad essere molti quelli che si ricordano di avere visto un orizzonte, l’avanguardia della società civile crea nuove comunità e organizza festival sul cambiamento e sull'innovazione, scova eccellenze, racconta storie esemplari, progetta il futuro: boccate d’aria fresca, non tutto è perduto, anche se molti restano ancora esclusi.
Con oltre il 40% di disoccupazione giovanile, con il più basso tasso di natalità mai registrato in Italia dai tempi della Grande Guerra, un Mezzogiorno appena certificato come "destinato al sottosviluppo strutturale", con un astensionismo elettorale impensabile solo dieci anni fa, ce lo possiamo ancora permettere? Secondo me, no.

domenica 12 aprile 2015

Garanzia Giovani e Servizi per l'Impiego: cosa servirebbe e cosa invece non serve ai lavoratori.

Sono circa 1,5 i miliardi di Euro che si stanno bruciando in questi mesi in una inutile iniziativa denominata Garanzia Giovani. È un intervento di sostegno ai giovani senza lavoro deciso nel 2013, su cui Istituzioni, Enti di Formazione e Agenzie varie si sono accapigliate per oltre un anno a definire i criteri con cui dividere il bottino e l’alibi con cui farlo. A due anni dalle decisioni europee molte regioni stanno ancora definendo le regole del gioco (qui qualche dato).
Le azioni proposte seguono percorsi che si chiamano Orientamento, Tirocinio, Apprendistato, Formazione, Autoimprenditoria (che associata alla parola Giovane NEET suona come un ossimoro). Tutte  parole create nella forma e nella sostanza negli anni ’90, quando il ministro di riferimento era Treu, il tempo indeterminato era per molti ancora un obiettivo realistico  e Internet lo usava solo la NASA. In breve, un piano destinato al fallimento in culla e i suoi progettisti destinati al girone degli ignavi.
Inoltre, la Garanzia Giovani e il Job Act stesso si calano in un contesto in cui i Servizi per l’Impiego pubblici sono evirati di testa e braccia con l’abolizione delle Provincie e revisione della conseguente delega in materia, e la fantomatica costituzione di una Agenzia Nazionale per l’Impiego da edificare in 2-3 anni sulle carcasse di ISFOL, ItaliaLavoro e (buon senso direbbe) la parte di INPS che eroga gli ammortizzatori sociali.

In generale, credo che il mercato del lavoro possa vivere solo se è funzionale a una strategia di sviluppo e investimento sui settori economici ai quali l’Italia è vocata e, in parallelo, rendendo più facile la vita di chi tenta di creare lavoro in termini burocratici, di accesso al credito, di legalità, di giustizia fiscale.

Ho più volte scritto su questo blog come a mancare non siano i soldi ma le idee e il rimpallo tra le istituzioni e le parti sociali sia il segno della diffusa incapacità a confrontarsi col presente.
Per lavoro e come cittadino, assisto allo sviluppo di molti servizi per l’impiego che, nell’assenza istituzionale, portano risposte e efficacia. Vedo anche il pericoloso distacco crescente tra pubblico e privato e la progressiva inutilità del pubblico rispetto a un privato che si auto aiuta senza considerarlo e neppure chiedendogli più soldi.
Nei servizi attuali non si vedono azioni di senso in relazione alle nuove forme di lavoro, allo sviluppo delle competenze legate lavoro autonomo che riguarda almeno il 70% dei nuovi assunti. La cosa più innovativa è forse il Contratto di Collocazione in troppo timida sperimentazione, che riprende prassi che in UK hanno ormai 15 anni e che già vengono ripensate perché superate dai tempi.
Quello che invece vedo è:
  • il nascere di veri e propri pezzi di servizi attivi del lavoro fuori dal sistema, in luoghi come i fab lab, gli spazi di coworking, gli spazi per makers, non nella logica modaiola delle start up (chimere sopravvalutate per pochissimi) ma come luoghi dove avviene l’apprendistato alla libera professione, non sancito da alcuna legge ma destino che riguarda la stragrande maggioranza dei giovani.
  • la fine sul campo della retorica delle relazioni intergenerazionale di molti progetti-fuffa in cui “gli anziani passano competenze e relazioni ai giovani” o del "salviamo i mestieri che non ci sono più". Gli over 50 sono spesso espulsi perché a disagio nelle richieste del mercato del lavoro e sono loro le fasce deboli che i giovani possono sostenere e attualizzare. I mestieri non ci sono più quasi sempre perchè non hanno più senso. Gli stessi over 50 si sforzano di adattarsi a un mondo dove le relazioni (come tutte le informazioni) non sono potere se tenute strette ma solo se scambiate.
  • Grazie alle piattaforme online, è possibile la disintermediazione di ogni servizio e la nuova centralità di concetti come la reputation del candidato e il branding dell’azienda. Se parliamo di lavoro, è già la fine dei modelli on line dell’incrocio domanda offerta pubblici e privati (peraltro in Italia irrilevanti dal punto di vista statistico) per un modello su cui trionfano modelli di selezione in cui l’evidenza pubblica della vacancy c’è se genera anche branding all’azienda, altrimenti i canali di ricerca rimangono ‘informali’.
  • La necessità del bastone e della carota. Nessun servizio può essere standardizzato se non risponde alla regola per cui gli ammortizzatori sociali vengono erogati solo se il lavoratore si attiva davvero per cercare lavoro. La retorica del reddito di cittadinanza è dunque spazzata via dalla logica del reddito minimo garantito, garantito solo “se”. Oggi questo non succede, mai, neppure quando la legge in qualche modo lo imporrebbe come nella CIGS e nella Mobilità.  (Voi lo immaginate in Italia un impiegato del centro per l'impiego che ‘tiene famiglia’ e rifiuta l’assegno a un utente perché non si è attivato, magari lavorando in nero? Io no)
  • La lettura intelligente dei dati. La progettazione dei servizi è scalata di modello con l'uso dei dati. Anche in Italia sono in atto hackaton interessantissime sul come mettere in relazione la grande mole di dati sul tema per comprende il mercato del lavoro e sviluppare servizi che rispondano a esigenze reali e non alle lobby.  Non pensate perà di trovarvi funzionari o accademici, queste nuove piste di lavoro le sviluppano gruppi di cittadini che poi riporteranno alle comunità e ai territori la conoscenza messa a punto.
Lo avrete capito, quello che mi tormenta di più oggi è la mancanza di dialogo tra mondi che si sono voltati le spalle per comodità, autodifesa, paura, interesse e nell'allontanarsi uno dall'altro sfaldano il terreno su cui poter costruire un futuro solido per chi c'è e chi verrà. Bisogna lavorare per ricucire.