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giovedì 6 febbraio 2014

Di reliquie, di santi e di superstizione.

Ci sono coincidenze che paiono ideate a tavolino da uno sceneggiatore un po’ alticcio a corto di soluzioni narrative.
Recentemente mi ha colpito sentire Giovanardi parlare della figlia che si è messa con un rasta sposato con un altro uomo. Bella anche quella del bancario americano che ha trovato per terra una carta di credito emessa dalla propria banca, che era proprio di una sua ex,  e che si sono ritrovati e infine hanno sparso il Wyoming di fiori d’arancio.
Ma la più bella l’hanno raccontata in pochi.
Si tratta qui di reliquie e reliquiari.
A distanza di pochi giorni:
  • è morto Carlo Mazzacurati, regista de “La Lingua del Santo”,
  • in una chiesetta a L’Aquila alcuni sbandati hanno rubato un reliquiario contenente un drappo insanguinato del vestito di Papa Woytila.
Nel bel film di Mazzacurati due ladri sempliciotti penetrano di notte nella basilica del Santo a Padova e rubano quasi per caso la preziosa reliquia di Sant'Antonio. Poi, resisi conto del valore del malloppo, decidono di chiedere un forte riscatto.  Il film peraltro era ispirato a un fatto vero, avvenuto nella notte del 10 ottobre 1991, quando le reliquie del mento e della lingua di Sant'Antonio da Padova furono trafugate dalla basilica del Santo da parte della Mala del Brenta per ricatto nei confronti dello Stato, e furono ritrovate due mesi dopo in circostanze misteriose vicino a Roma.

Quello che è successo vicino a L’Aquila il 25 gennaio è molto più reale e parodistico assieme. Questi tre balordi entrano in chiesa per cercare qualcosa di valore trovano il contenitore che pare d’oro, o comunque prezioso. Lo prendono. Quando, nel garage antisismico di uno di loro, capiscono che è una patacca, buttano tutto quanto, stoffa non meglio identificata compresa.
Il mondo intero, 50 poliziotti, passano 6 giorni a cercare la stoffa mancante e – tautologicamente – un miracolo la fa trovare. Da un importante e attendibile sito nazionale riporto che subito:  “… la Polizia Scientifica si mette a disposizione per ricomporre definitivamente la reliquia e attende una risposta dall’arcivescovo dell’Aquila, Giuseppe Petrocchi, che la prende in consegna. Il frammento è stato ricostruito in mattinata dal vescovo ausiliario dell’Aquila, Giovanni D’Ercole. Da fonti della curia si apprende che la reliquia, potrebbe non tornare nel santuario in quell’area della montagna tanto cara a Giovanni Paolo II. La Chiesa aquilana potrebbe chiedere una nuova reliquia alla Postulazione della causa di canonizzazione del pontefice che sarà proclamato Santo il 27 aprile. Reliquia ricomposta o nuova potranno comunque essere accolte nella chiesetta solo dopo l’installazione di sistemi di sicurezza: attualmente il suggestivo luogo sacro, infatti, è totalmente incustodito.


Lo ammetto, questi conati di medioevo mi trovano distante e estraneo. Paradossalmente coloro che hanno dimostrato maggiore realismo in tutta la storia sono proprio i tre balordi che la cui la voglia di droga ha cancellato superstizioni e idolatrie. Ma questo non mi consola di certo. Vorrei quasi non credere che a qualcuno interessino amuleti e feticismi correlati, vorrei vivere in una società dove le tuniche macchiate di sangue o si lavano o si mandano al macero, dove la religione abiti nei cuori e non negli abiti, dove all’alienazione dei giovani in cerca di denaro per una dose vengano date risposte vere, una città ricostruita e non un cratere senz'anima, fatti e non pistolotti paternalistici.

giovedì 30 gennaio 2014

Perché il Cake Design è una boiata.

(Per la prima volta pubblico il contributo di un autore esterno al mio blog, e lo faccio con gran piacere. Le osservazioni sagaci e competenti di Roberto sono la prosecuzione di un dialogo che mi pare degno essere posto a un'attenzione più ampia)


Da piccolo ero un vorace estimatore di articoli da pasticceria, ma già allora non capivo perché mescolare ghiottonerie con materiali non edibili -sì, ero onnivoro ma forbito- tipo i fiori di zucchero su torte e uova pasquali; i difensori -leggi i pasticceri che li compravano belli che pronti- argomentavano <È zucchero!> così come oggi, colla mania del light, ti dicono <È ostia!> ma l'unica utilità che rivestono è raccoglierne in quantità sufficienti per coibentare le soffitte.

Nella nostra modesta delegazione,  avevamo da una parte una pasticceria che dei fiori di zucchero ha fatto un'arte riconosciuta a livello mondiale (ci crediate o no, stavano pure sulla torta nuziale di Carlo e Diana) dall'altra un bar che a Pasqua, in piena controcorrente, guarniva le uova con decori di sola cioccolata, sfruttandone i colori naturali; quando ho cominciato anch'io a fondere uova, ho mantenuto questa illuminata ispirazione fino a raggiungere un certo virtuosismo. Quello almeno concesso dell'attrezzatura casalinga, per arrivare comunque  a una dolorosa epifania: davanti ad un bonsai interamente in cioccolata -vaso 'Cinese', legno, foglie, terriccio- ho capito la sproporzione tra una pur notevole resa e l'incommensurabile spesa energetica; per poi sentirsi anche dire <Eh, ma non si può mica mangiare!!>... in più, la tenace Biologa cui era dedicato non me la diede neppure in quel modo, e da lì ho cercato vie meno artificiose.

Dopo questi preamboli dovreste avere già ben chiara la mia posizione sul Cake Design -da qui CkD- ma concedetemi ancora una digressione. Dal cinquecento in poi, i ricconi decoravano i banchetti con sculture -trionfi- di burro o zucchero che, dalla loro affinità col cibo, traevano legittimazione tra i piatti ancor più di un centrotavola d'argento. Poi col tempo son diventati di materiali meno appetibili -tipo il grasso animale- ma sempre forieri di suggestioni tipo <Se il cuoco cesella così bene il grasso informe, figurati come arrostisce i pavoni!> In realtà erano maestranze del tutto differenti: chi costruiva i trionfi erano scultori tanto quanto chi fondeva argenti; e poi mica eran scemi, le sculture non si mangiavano di certo!

Veniamo così al CkD, deriva barocca e decadente di un ipertrofismo voyeuristico del cibo.
Negli ultimi decenni abbiamo visto diverse mode culinarie tener banco e invadere le tavole, ma estremismi a parte qualche merito lo hanno avuto: la destrutturazione (esaltare gli ingredienti) la fusion (far conoscere culture alimentari 'altre') la molecolare (andare al cuore dei principi chimici per sfatare superstizioni secolari e trovare metodi più efficaci di preparazione). Solo la nouvelle cousine c'ha costretto a ingollare dosi omeopatiche di preparazioni così complesse, che fisicamente le nostre papille non sono in grado di percepire come in un concerto ad infrasuoni.
Oggi parimenti il CkD ha trasformato l'Arte della Pasticceria in un circo virtuale. Sì, virtuale, perché lo si guarda, si fa <Ohhhh> (io no) e poi la bocca resta spalancata su questi impasti adatti più a Fuksas che Saint Honoré, appetibili e sensuali come un seno rifatto o un bicipite agli steroidi. A proposito, ho intravisto quel programma dove l'italica tamarraggine sposa il gigantismo americano, e sforna “dolci” alti anche 2 metri con led, cristalli, fontane o eruttanti fiamme (NON è un'iperbole!); bene, ho seguito però anche il momento in cui affettano e cercano di mangiarle... pane raffermo. Io stesso ho avuto occasione di assaggiarne, fatte per giunta da persone altrimenti molto abili in cucina: no comment. Ma vuoi mettere com'erano fighe??

lunedì 27 gennaio 2014

Il mio ricordo per non dimenticare mai (che può riaccadere).

Era una bellissima giornata di fine ottobre e gli alberi nel campo di rieducazione e correzione di Aushwitz avevano già indossato la livrea autunnale. Le palazzine di mattoni rossi avevano una loro eleganza austera, sembravano quasi gli edifici di un college nella campagna inglese. L’ordine saltava all’occhio e l’unica vestigia che ti ricordava subito dove ti trovavi era il cancello sovrastato dall'anacronistica scritta in ferro “Il Lavoro rende Liberi”.
Entrando in quelle palazzine conobbi la morte attraverso la sua contabilità: migliaia di foto ordinate e numerate dei deportati; poi una montagna di valige con sopra scritti i loro nomi, borsoni con le ammaccature, i manici deformati dal peso e dalla stretta, i segni del tempo e delle vite che le avevano riempite nella speranza che quello fosse solo un trasferimento, nella certezza umana che lo sterminio non potesse essere nei piani di nessuno. Poco oltre la montagna degli occhiali, alta un paio di metri. Avete idea di quanti occhiali servano per fare un cumulo di tali dimensioni? Io gli occhiali li porto e lì, impalato, mi sono affezionato a quest’oggetto come a un feticcio di resistenza alla follia. C’erano altre stanze simili, con i vestiti, le scarpe, e presto ebbi bisogno d’aria. All’esterno ho passeggiato sino al muro delle fucilazioni e agli accessi alle stanze della tortura. Il cielo continuava a essere blu, sei lì e lo immagini identico a quello che anche i deportati hanno visto. Sono entrato negli edifici ristrutturati e curati dagli Stati che hanno avuto deportati al campo, i paesi dell’Est, il Belgio, l’Austria, poi ecco l'ingresso del padiglione Italiano.
Lo hanno chiuso da un paio di anni, il che è già una vergogna. Io l’ho visitato e vi assicuro che era brutto, per niente evocativo, malandato. Era una soluzione di compromesso per la quale avevano coinvolto addirittura Primo Levi per i testi, Luigi Nono per la colonna sonora e Mario Samonà per una strana opera a spirale che percorreva tutto l’enorme salone. Nel complesso illeggibile e vuoto. Si vedeva bene l’imbarazzo di una nazione che non ha affatto riflettuto sul tema, che deve ancora capire se ha vinto o perso la guerra, che nel dopoguerra era popolata solo da nuovi antifascisti con la memoria corta. Ora altri paesi bussano per avere il nostro spazio e di certo lo utilizzerebbero meglio.
La persona che mi accompagnava, al terzo memoriale visitato ha ceduto sotto l’impatto della forza della memoria e all’impossibilità di accettare quella verità e si è seduta a controllare le proprie emozioni sotto uno di quei bellissimi alberi. Io ci sono passato attraverso, senza risposte e sempre più timoroso nel fare domande.
Con un anonimo bus di linea ci siamo poi spostati a Birkenau, a pochi chilometri, il campo di sterminio.
Sto scrivendo questa nota seduto al mio pc su un Frecciabianca diretto a Genova. Il mio è un treno di lavoro, comodo, luminoso e utile a costruire relazioni e idee. A Birkenau ti accoglie il binario che portava i carri piombati, senza aria, carichi di dolore e vite al termine del percorso. I deportati lì scendevano dai treni e in larga parte venivano uccisi immediatamente, con la scusa della doccia disinfettante.
La differenza tra questi due treni la fanno soprattutto 70 anni di pace, la forza dei sopravvissuti, e la voglia di capire il proprio tempo senza provare a semplificarne i problemi con facili capri espiatori.
Quello che a Birkenau mi ha colpito da subito sono state le dimensioni del campo. Immaginate 40 chilometri quadrati, pensate a un quadrato di 5 km per 8. È infinito. Immenso. Le camere a gas sono subito vicino all’arrivo del treno, goffamente implose su se stesse, minate da chi voleva cancellare le tracce lasciate dietro di sé.
La disumanità a Birkenau ha una scala industriale. È facile immaginare migliaia di persone indaffarate a farla funzionare, centinaia di soldati, pare impossibile che i paesi limitrofi non sapessero, hai la certezza che invece avessero chiuso gli occhi, così come le grandi potenze dell’epoca.
“Come è stato? Può ricapitare? Perché l’uomo arriva a tanto?” te lo chiedi per tutta la visita e uscendo di lì te lo porti dentro per sempre. 
Penso che l’orrore sia negli occhi di chi guarda, so bene che il rischio di un nuovo olocausto è dietro l’angolo. Puoi raccontare a te stesso che non sia possibile, di come siamo ormai vaccinati, poi a farti cambiare idea basta un anonimo socio di una cooperativa a Lampedusa, incaricato di spruzzare acqua gelata  in dicembre su profughi nudi allineati all’aperto, che dichiara “L’ho fatto perché me lo hanno ordinato. Sì, un po’ mi vergognavo ma cosa dovevo fare? Ho bisogno di lavorare.”

Allora il dubbio che possa succedere di nuovo diviene certezza e capisci che la tua missione di uomo, di padre, di lavoratore non può essere che quella di difendere la memoria, coccolarla quasi, e combattere per spostare più in là quella data, sempre più in là, sempre più in là. 

lunedì 25 novembre 2013

Ad Ada, una donna di quattro anni.

Nasci donna.
Una fortuna, dico io. Una sfortuna, dirai tu almeno 1000 volte nella vita; spero credendoci di meno ogni volta che lo ripeti.
Vi trovo sempre più interessanti degli uomini. Non è perchè mi piacciono le donne, no, è perché in un uomo cerco conferme e in una donna trovo la ricchezza del confronto.
Avete la determinazione, l’intelligenza, la curiosità che vi rendono capaci di guardare al Presente con senso di realtà e al Futuro con speranza, come se fosse uno scrigno di opportunità da scoprire.
Vi ho sempre considerato superiori anche quando voi per prime non ci credete. Se avessi visto tua madre serrare le mascelle per darti lo slancio per venire alla luce, mi capiresti meglio. I sacrifici fatti da tua nonna e dalla tua bisnonna per far quadrare il bilancio familiare, educare i figli, tenere assieme la famiglia, valgono dieci quelli di un uomo amministratore delegato di una multinazionale.
Siete superiori nelle professioni perché la vostra intelligenza si alimenta di soggettività e non solo di fatti. Per voi l’evoluzione è un’opportunità, per noi un ostacolo. Non avete paura dei sentimenti. Sarete sempre indispensabili; noi uomini molto meno. 
Nell’immaginare la ragnatela dei possibili percorsi nel tuo futuro non posso fare a meno di pensare alle donne che conosco, al loro presente e ai loro passati. Tua madre, mia sorella, zie, nonne, amiche, professoresse, colleghe, educatrici, ex fidanzate. Frequentandole ho ammirato il loro slancio nell’affrontare la vita, la sensibilità che le rende partecipi ai drammi come alle gioie, la sicurezza che hanno quando serve davvero, e la loro guerra quotidiana contro gli ostacoli che una società governata dagli uomini gli impone.
Sai, siamo nel 2013 ma capita ancora che su di voi vengano calati a forza ruoli umilianti. Non parlo dei fondamentalismi religiosi in qualche angolo di terzo mondo ma del qui e ora. C’è chi prova a imporvi se, come e quando vestire, lavorare, educare, riprodurvi, pensare, persino amare. C’è a chi fa comodo che l’uomo comandi e la donna obbedisca. È un gioco di ruolo datato, superato dalla Storia, che ha fatto danni epocali provocandolo dolore e infelicità sia tra le donne che tra gli uomini. È che alcuni fanno finta di non averlo capito.
Sai, l’uomo, abituato da sempre a occupare tutti gli spazi che contavano e a amministrare i diritti della donna (con bizzose concessioni soggette a regole e umori da lui solo definiti), ha visto sgretolarsi le proprie possibilità di controllo e ha reagito con violenza. Certo, per alcuni è stato difficile essere degradati da monarca assoluto a membro di un consesso democratico il ché, se non si capisce il valore della democrazia, può sembrare un’umiliazione.
Ciò ha dato vita a scontri cruenti. Sono stati covati in quei piccoli reami che erano le famiglie, isolate nei condomini poi, fuori dalle cucine e dai letti coniugali, sono sfociati nelle piazze in lotte per consentire a tutte di godere di diritti naturali politici e civili.
Oggi di quella netta contrapposizione tra mondi rimane poco. Almeno sulla carta, sono stati fatti molti passi avanti resta però aperta la guerra tra i singoli individui e la società. I diritti “delle donne” sono diventati quelli “della donna”, al singolare. A poche interessa il destino delle altre e la competizione tra persone vince sulla solidarietà tra simili (intesi come donne ma anche come esseri umani) con ogni difficoltà affrontata in inevitabile solitudine.
La stessa solitudine è compagna del genere maschile. 
L’uomo della mia generazione non  ha nessun modello di riferimento che lo guidi nel vivere con donne che non assomigliano (fortunatamente) alla propria madre e con le quali non funziona nessuna eredità biologica importata dai padri.
Chi vuole dunque provarci davvero deve prima riporre tra i cimeli di famiglia l’immagine del padre che ha specchiata dentro di sé e inventare il proprio essere uomo, amico, amante, marito. Io devo perciò essere diverso da mio papà anche perchè tua mamma e tua nonna hanno in comune solo il fatto di essere entrambe mammiferi.
Questa mancanza di riferimenti non è però un alibi e neanche una colpa. Credo che l’ascolto e la tolleranza rimangano gli elementi chiave per avvicinarsi, capirsi, amarsi e costruire assieme. Non sempre ci sono. Vedo donne costrette a tenere un incongruo basso profilo sempre e comunque, con un timore esasperato per le conseguenze delle proprie azioni e delle proprie intenzioni, con sogni e desideri costretti ai minimi termini.
Sono tutti fardelli che faremo il possibile tu riconosca e tenga lontano. So che tua madre sarà fondamentale in questo. Lei, austriaca, piuttosto estranea a schemi che prevedono subalternità e dipendenza, libera e a testa alta. È un modello anche per me, per te sarà di certo un faro.
Che uomini incontrerai? E che donne?
(In effetti qui potresti mettere un bel: “Ma papà, cosa ti interessa?”)
Molti tuoi incontri avverranno con persone insicure e in cerca di continue conferme, di una guida, di un’idea, bisognose di spalle su cui piangere o un braccio a cui reggersi ma restie allergiche alle lacrime altrui. Oggi non è che la sicurezza di sé, dei propri limiti, delle proprie capacità, siano merci diffuse. E non vedo segnali di possibili inversioni di tendenza.
Io e tua mamma ci siamo riconosciuti come diversi e poi ci siamo scelti. Avremmo probabilmente avuto vite complete e degne anche non cogliendo l’opportunità che il caso ci ha dato e su cui con volontà abbiamo costruito. Ma quale spreco sarebbe stato! Invece ecco che ci scegliamo ogni giorno, trovando sempre il modo di confermare le ragioni del nostro amore. La nostra è una famiglia fondata sulla scelta e non sul bisogno: c’è una tensione positiva che porta i passi verso un futuro in cui occorre continuare a meritarsi la scelta dell’altro.
Preparati, più cresci e più proveranno a sottometterti, non in quanto donna ma come essere pensante. La tua femminilità costituirà al più un'aggravante al reato di Libertà di Coscienza. Molti dei tuoi aguzzini saranno uomini, altri saranno donne, avrai a che fare con professori esasperati dalla solitudine, preti impauriti dalla modernità, falsi amici, falsi adulti, veri dittatori. Ti faranno male. Per quanto ottusi nel ragionare saranno esperti nel colpirti perché sarà una delle poche cose che nella vita darà loro soddisfazione. Col tempo imparerai a prevederne i colpi. Nel dolore e nella rabbia troverai gli anticorpi per reagire. La necessità di sopravvivere ti insegnerà a scovarne i punti deboli.
Il non dargliela vinta sarà l’unica via d’uscita per conservare la tua dignità. Nell’amore per te stessa e per gli altri troverai la motivazione per farlo.
Fa che “Essere te stessa” non suoni come una formula buona per i consigli tra amiche germogliati nella retorica alcolica di uno Spritz. Sia piuttosto quella che si potrebbe chiamare una Scelta dalla quale non prescindere ogni volta che sono in gioco il tuo futuro e la tua dignità.
Per riuscire devi crederci, devi sviluppare una qualità rara che noi proveremo a seminare in te col nostro esempio, ma che solo tu potrai far crescere e irrobustire: l’Autostima.
Vuol dire sapersi capaci di volare in alto e cadere sempre in piedi, e credere anche di meritarselo. Non è amica della superbia ma si fonda al contrario nell’umiltà e nella fiducia illimitata in un futuro migliore. Costa fatica costruirla ma una volta sperimentata viene naturale e la si protegge come il gioiello più raro. È nemica della furbizia e amica della giustizia.
Io l’ho imparata da tuo nonno, ne ho vista un po’ nella sua generazione, per la quale costituiva il requisito essenziale per uscire dalla povertà, anche intellettuale. L’ho frequentata molto all’estero e poco in Italia, l’ho sposata in tua mamma. Per il resto, in giro ne vedo proprio poca.
La mia generazione ne ha rimosso l’urgenza, direi quasi l’esistenza. Arrivando al paradosso che quando c’è in qualcuno, agli occhi dagli altri è vissuta come un difetto. Per chi non ne ha (la maggioranza) diventa subito “eccesso di autostima”, eccesso per coloro che non sopportano l’esistenza di chi affronta la vita a testa alta perché questo gli dimostra quanto sia comunque possibile essere se stessi.
Per riuscirci, occorre mantenere una consapevole coerenza tra ciò che si è e come si appare, sapere che nessuno ha il diritto o la facoltà di comprarci, conoscere allo stesso tempo il proprio valore, esigere rispetto e sempre riconoscerlo agli altri senza esserne invidiosi.
Facile? No, affatto, anche se mi auguro tu sia già sulla buona strada.

sabato 16 novembre 2013

Classifica e somme dopo il Festival del Cinema di Roma

Il Festival del Cinema di Roma è terminato e comincio a digerire l’usuale indigestione di immagini, idee, punti di vista, provocazioni. È stata una bella festa con un livello medo dei film decisamente superiore all’anno scorso (per dire: non ho abbandonato nessuna proiezione a metà come invece mi è spesso capitato negli ultimi anni)
Persiste l’orribile sigletta iniziale con l’insulsa donnina nuda che si inginocchia e tende l’arco: roba per guardoni cinefili o cinefili guardoni. A seguire però hanno messo uno spot del Governo contro le barriere architettoniche, ma forse era per promuovere l’ospitalità, o per il turismo: talmente pasticciato che tutti lo deridevano
Ricordo il primo festival, otto anni fa, in cui ero in giuria e faticammo per trovare una donna a cui assegnare il premio per la miglior attrice. Chi aveva selezionato allora di certo non sopportava le donne. Quest’anno al contrario impazzavano bellissimi ruoli femminili, ben scritti e pensati. I film erano però affollati di uomini insulsi, disorientati, fatti, sbronzi, spenti che in più di un film non volevano fare figli con donne invece dichiaravano che li avrebbero fatti pure con passanti sconosciuti.

Ecco la mia personale classifica dei film visti:
  1. HER (di S. Jonze). Grandissima prova d'autore sugli incubi della digitalizzazione dei sentimenti. Lui si innamora del nuovo sistema operativo – e fin qui nulla di nuovo – ma le cose diventano interessanti quando il sistema operativo ricambia l’amore. Recitazione, dialoghi e fotografia memorabili. Da far circolare nelle scuole perché si capisca il pericolo insito nella riduzione che separa il diaframma tra la realtà e la proiezione dei propri desideri nel virtuale. 10 minuti di meno e piacerebbe a tutti, ma un po' di lentezza serve a fermarsi e pensare.
  2. CAPO E CROCE - LE RAGIONI DEI PASTORI (di P. Carbini e M. Pani). Meraviglioso documento sulla attuale lotta dei pastori sardi contro politici ottusi, mafie commerciali, disinteresse del mondo alla al loro mestiere e al valore culturale, ambientale e economico che ha per la collettività. Emozionante l'incontro finale con i protagonisti del film presenti in sala. Lo vorrei in prima serata su Rai1. Tornato a casa ho addentato con più gusto quel tocco di grana di pecora di Anglona in agguato nel mio frigo.
  3. QUOD ERAT DEMONSTRANDUM (di A. Gruzsniczki) la Romania del 1985 ci racconta con gelida chiarezza come la libertà di pensiero sia alla base della dignità e il maggior pericolo per la dittature. Tutti hanno un prezzo? Tutti possono essere vittime e delatori? Fidatevi, vi stupirà.
  4. JE FAIS LE MORT (di J. Salomè) spassosa, originale e attuale detective story ambientata sulle alpi francesi. L’attore disoccupato viene mandato dai servizi per l’impiego a impersonificare il morto nelle ricostruzioni della polizia. Una bella spremuta di bel cinema che ha il coraggio di osare una lettura non banale della crisi.
  5. SONG'S E NAPULE (by Manetti Bros) scoppiettante magnifico melodramma pop napoletano. Il poliziotto imboscato appassionato di pianoforte viene infiltrato in un gruppo neomelodico che suonerà al matrimonio del grande camorrista ricercato. Ben recitato, scritto e cantato. C'è più spremuta di Italia lì dentro che in 10 serate di Santoro. Io lovvo Manetti Bros. e Giampaolo Morelli.
  6. L'AMMINISTRATORE (di V. Marra). Sincero e umanissimo spaccato del lavoro meno invidiato del mondo urbanizzato. Intelligente documentario in cui la macchina da presa segue le liti, le furbizie, le lacrimucce e i trucchi di una Napoli struggente.
  7. IL VENDITORE DI MEDICINE (di A. Morabito) la mafia delle industrie farmaceutiche che lucrano sulle nostre malattie. Bravo Santamaria. Film davvero scomodo a rischio insabbiamento prima di arrivare in sala.
  8. UVANGA (di M. Cousineau) la casa è dove è la famiglia, anche al Polo Nord. Suggestivo film canadese di poche parole, grandi paesaggi, timidi sorrisi e sinceri sentimenti.
  9. TAKE FIVE (di G. Lombardi) colorito furto in banca con buco attraverso le fogne in terra napoletana. IL colo riesce ma niente va per verso giusto. Personaggi scombinati e varia umanità in giro per una città che arranca nel riveder le stelle.
  10. THE HUNGER GAMES (di. F. Lawrence). Tachicardico action movie per il quale mi sono alzato alle 6.45. Ti prende le viscere e te le porta avanti nella storia per 2 ore e mezza. Poi, sul più bello ti da appuntamento al terzo capitolo della saga.
  11. PATEMA INVERTED (by ) cartoon giapponese sulla difficoltà di accettare il diverso e l'inverso. Il film stesso è stranamente diverso e piacevole con mezza umanità che viene respinta dalla forza di gravità a cadere verso il cielo. Visto in una sala piena di adolescenti orfani di Zalone, ululanti e timorosi del buio.
  12. HARD TO BE GOD (di A. German) Russo, in bianco e nero, iconoclasta, attesissimo, scatologico, disassato, forse necessario, ispirato, piove tutto il film e io trattenevo la pipì, dura tre ore. Ci hanno messo tredici anni per farlo ma non si capisce perché. Inquadrature e movimenti di macchina stupefacenti. Sputano più che in un derby all’Olimpico.
  13. JULIETTE (P. Godeau) film parigino affollato di giovani confusi e confondenti. Lavoro? Può attendere. Responsabiiltà? Dopo. Futuro? Eterno presente. Ma in un modo o nell'altro cresceranno. Malinconico.
  14. SNOWPIERCER (di J. Bong). Action movie post apocalittico pieno di poveracci che se menano su un treno che pare un fulmine e attraversa una terra ghiacciata. Raggelante e scontato ma denso di feromoni.
  15. L'ULTIMA RUOTA DEL CARRO (di G. Veronesi). Storia sgangherata di un tipo dickensiano che vive a Borgo Pio. Vivacchia e ammicca, come il film. Presuntuosa panoramica tentennante degli ultimi trenta anni in questo paese che sta disimparando a raccontarsi, così come a ascoltarsi.
  16. ENTRE NOS (P. Morelli) il Grande Freddo do Brasil. Gli amici di un tempo si ritrovano dopo 10 anni a leggere delle lettere che si erano autoindirizzare poco prima che uno di loro morisse in un incidente. C’è letteratura, giungla, sopravvivenza a ogni costo e un’amicizia ritenuta sempiterna che non regge la prova del tempo.

lunedì 11 novembre 2013

L'Energia più pulita è generata dalla Cultura.

Mentre qui lanciano un film di Zalone in 1200 sale, in Scandinavia, UK, Repubbliche Baltiche lanciano azioni di largo impatto in cui centinaia di artisti entrano in migliaia di scuole (Creative partnership, Cultural Rucksack), in altri Paesi tutti i ragazzi imparano a suonare uno strumento (sull’esempio de El Sistema di Abreu che sta cambiando il volto del Venezuela, ma anche in Olanda o Germania).

Marco Magnifico il vice presente del FAI in un seminario ci raccontava: “Volevamo misurare la distanza tra il FAI e il National Trust inglese. Migliorarci, capire. Ero in visita in un magnifico parco pubblico gestito dal NT e mi sono fermato a guardare delle peonie particolari. Lì accanto c’era un giardiniere che faceva il suo lavoro con la zappetta. Ha notato la mia sosta su quel fiore e si è avvicinato. Abbiamo dialogato per cinque minuti e mi ha spiegato quello che sapeva della pianta, ha risposto alle mie domande si è stupito per le varietà che nascono da noi. L’ho salutato e, uscendo, ho detto alla direttrice del posto ‘Un giardiniere è stato gentile a dedicarmi il suo tempo per spiegarmi tutto di un fiore che non conoscevo’. Lei ha risposto: ‘Non è stato gentile, è pagato per farlo. I giardinieri, come i custodi dei musei, sono pagati per dedicare l’80% del loro tempo alle mansioni specialistiche e il 20% per far sentire il visitatore accolto, fidelizzarlo, appassionarlo’. Lì ho capito che in Italia non ce l’avremmo mai fatta”.
In effetti l’abituale immagine fantozziana del custode di un museo scolpito sulla sua seggiolina fa già apparire ipercinetico il casellante autostradale. Di certo la colpa non è sua, ma non è neanche innocente. Come non lo sono i manager e la politica. Oggi poi, con la crisi e le spending review, la domanda “Ha senso investire nella crescita, nella valorizzazione e nella partecipazione culturale?” assume un’urgenza vitale.

Per alcuni è facile dire “No”, e lo fanno osservando i costi e i miseri incassi di Teatri, Musei, Biblioteche, Centri Culturali.
Io la penso al contrario ma sono convinto che occorra lavorare duro per far percepire il valore che hanno l’arte e il patrimonio culturale per la vita e la democrazia altrimenti i fiori di Van Gogh valgono le erbacce di uno spartitraffico e i Caravaggio le pennellate di un imbianchino.

Non bastano qui le spiegazioni romantiche, le pretese ovvietà, né le evidenze intellettuali sempre confutabili da chi ha altri interessi e sensibilità. Servono  Indicatori di impatto Culturale che come quelli di Impatto Ambientale o Economico possano quantificare cosa significhi aprire o chiudere un museo, ma anche costruire una ferrovia su un parco o preservare le botteghe storiche di una zona. 
Forse non si può misurare la bellezza ma, ad esempio, la solitudine sì, e con essa il suo 'costo' per i singoli e la collettività
Indicatori ragionevoli di Impatto Culturale possono zittire chi ha interessi anticulturali e vuole vendere le spiagge e quello che esse rappresentano per far cassa.
Si può fare: si possono misurare i suicidi, gli alcolisti, le violenze. Posso misurare la partecipazione alla vita della comunità, la penetrazione e l’uso della banda larga, le propensioni xenofobe e omofobe, la diffusione delle droghe e degli strumenti musicali tra gli adolescenti.
E gli antidoti all’isolamento e alla solitudine sono la cultura e il lavoro, entrambe coniugate col rispetto e la passione.
Si può cominciare allora a ragionare su qual è l’impatto concreto dell'aprire un teatro in un quartiere periferico, quanto valga far partecipare gli abitanti della zona alle attività di un Centro Culturale, quale sia l’impatto culturale di un Bingo o di un centro commerciale; e anche il valore di laboratori artistici in una scuola o in un centro anziani. E quanti sollevi l'opera a Caracalla, un concerto dei Negramaro, o l'estasi davanti a un Kiefer, un Rothko, un Bernini.

Si potrebbe meglio programmare il futuro, zittire quelli che “con la cultura non si mangia” e dimostrare come quella generata dalla Cultura sia la vera energia pulita

venerdì 11 ottobre 2013

Aggiungi un posto a tavola che c'è una crisi in più.

Ogni anno vado per 4 giorni agli Open Days a Bruxelles. È un mega evento dove i 4000 partecipanti si confrontano sulle tematiche di maggior interesse per lo sviluppo sociale e economico dell’Europa. Centinaia di incontri si svolgono in decine di sedi differenti. Si studia, si ascolta, si dialoga. Quest’anno a spingermi era la volontà di capire cosa si stia facendo per superare la crisi e come sarebbe intelligente programmare l'uso dei quasi 60 miliardi di Fondi Strutturali che avremo in dotazione in Italia per il periodo 2014-2020.
Vengo direttamente alle considerazioni conclusive:
  • In Commissione Europea non hanno nessuna idea su come uscire dalla crisi, recuperare gli Stati che sono allo sbando, affrontare il tema della disoccupazione giovanile e non. Ma, con incrollabile fiducia, fanno finta di non saperlo. 
  • La loro strategia è quella di dare regole generali per far sorgere le soluzioni dagli Stati Membri, che poi loro le chiedano alle Regioni che, spaesate, le chiedono a noi, uomini e donne di buona volontà. In questo scenario spicca il volto terreo di una Pubblica Amministrazione sinora abituata a eseguire, a cui di colpo è chiesto di pensare e va subito nel panico.
  • Folgorante in tal senso è il caso della “Garanzia Giovani”, la ‘nuova’ politica europea per combattere la disoccupazione giovanile. A oggi si tratta solo di un brand, di un nome a uso dei media per etichettare gli stessi strumenti datati, fatti con gli stessi servizi claudicanti da anni. Nessuna vera attenzione è data alle molte novità possibili e sperimentate in questi anni, ai bisogni mutati, alle aspettative dei giovani. L’importante oggi è dare la sensazione che si farà qualcosa con un nome nuovo. A mia precisa domanda su "Cosa cambia rispetto al passato?" la delegata della Commissione ha risposto "Nulla di concreto ma se definiamo una politica i disoccupati d'ora in poi sapranno che non è una loro colpa essere senza lavoro." Chapeau.
  • Altra chicca è la “Smart Specialisation Strategy”, la strategia che ogni Regione dovrebbe mettere a punto per definire il quadro degli investimenti dei prossimi 7 anni. Utile e stringente in teoria. Si sta compilando sulla base dell’ovvio e della paura di scontentare qualcuno (della serie “La nostra Grande Strategia Regionale si concentra sulla Qualità della vita, la Qualità dell’Ambiente e il Turismo”. Ma de che?) Il livello nazionale prenderà poi le Strategie regionali e le metterà assieme per fare quella nazionale e poi a Bruxelles faranno il puzzle con quelle degli altri Stati per poi riproporla agli Stati come strategia Europea. Loro la approveranno per riproporla alle Regioni che festeggeranno con tarallucci e vino.
  • A Bruxelles ho avuto evidenza tutto in una volta dai termini che segnano la disfatta della vecchia tecnocrazia autoreferenziale: “Call for Ideas”, “Codesign”, “Social Innovation Competition”, “Place based policies”, “Quadruple Helix”  che in apparenza sembrano benedette aperture a contributi originali e utili si traducono tutti con “Da sempre qui si è fatto come ho detto io, politiche e progetti senza relazioni con i bisogni e la realtà. Ma non ha funzionato, non chiedetemi il perché, siate cortesi. Ora non so più cosa proporre, ditemi voi cosa potrei fare”.
  • Il ‘Voi’ di cui sopra è stato sostanziato  e ha assunto la dignità: Stakeholder. Già perché, se non lo sapete ancora, siamo tutti stakeholder, cioè ‘portatori di interessi’. Figo, vero? Anche  disoccupati lo sono e già li immagino più contenti. (Come disse un'importante direttore regionale: "sono stufo di parlare con gli stessi da vent'anni, fate venire qui qualcuno che sappia qualcosa delle cose di cui parliamo e del mondo reale!")
  • é appurato poi che quello che manca nei decisori è il coraggio. Non è previsto nella prassi amministrativa, è sconveniente, insolito quasi. Si preferisce replicare gli errori e con le visioni a corto termine (tipo ammortizzatori sociali) che osare interventi e soluzioni. Per coraggio intendo ad esempio saper dire dei ‘No’ a iniziative non di interesse collettivo, scegliere le idee migliori e non quelle presentate dagli amici, saper dare fiducia a chi la merita, non fare conti elettorali quando si tratta di salvare la barca che affonda. Da Bruxelles hanno aperto a qualche timido tentativo in questa direzione varando  termini come “Social Sperimentation” o “Living Labs” che vi cito ma di cui siete pregati non chiedere esempi reali perché non sono pervenuti.
  • È evidente come si apra una fase nuova nel governo della società, in cui la politica e i tecnici evergreen ammettono per la prima volta di navigare al buio e di aver bisogno delle nostre idee e supporto nell’elaborarle e realizzarle. Finalmente, direte voi. Ancora non si capisce se questo sia destinato a durare o sia solo un effetto del panico, riassorbibile appena le cose vadano meglio. Quello che nei palazzi molti non si aspettano è che sono molti i cittadini, le aziende, gli stakeholder a non aver bisogno della politica, dei fondi regionali, della carità pelosa.  Questo è pericoloso per la tenuta della coesione sociale, prelude alle fughe dei cervelli, all'interesse personale.
  • ‘Fiducia’ è infatti l’anello mancante grazie al quale cui gli stakeholder improvvisamente considerati 'pensanti' possono essere parte della buona politica, contribuire alle strategie di sviluppo, suggerire soluzioni. Però, tra soggetti che si rispettano, se oggi tu – che mi hai tenuto alla porta per decenni elargendomi come elemosina ciò che mi veniva per diritto - mi coinvolgi nel disegno del nostro futuro comune sappi che poi ho il diritto di partecipare alla sua costruzione, vedere premiati solo i progetti utili e migliori, conoscere i criteri di valutazione, controllare l’avanzamento dei progetti finanziati. Altrimenti lasciamo pure perdere.
  • Le buone idee hanno un gran valore. Se non c’è Fiducia, le sole idee in circolazione saranno mercenarie, fornite da consulenti per nulla poi responsabili degli errori che le istituzioni faranno nel cucinarle, nel servirle, nella scelta degli ingredienti, nel capire se soddisfano i bisogni dei clienti. Nel dubbio, molti  nel ristorante non entreranno neppure.
La vedo così. Anche perché non sono tanto capace a arrabbiarmi e preferisco scrivere.

Poi lo so, c’è chi cerca il leader, l’uomo forte, che ventila l’uscita dall’Europa perché ci fa da specchio e ci fa vedere tropo spesso come siamo brutti. C’è chi si è stufato di farsi governare dalle banche e preferirebbe farsi governare da un uomo forte con le idee chiare, magari poche e semplici, a cui poter delegare tutto per continuare a evadere le tasse, evitando di prendere posizione, giustificando ogni propria scelta inquinante di anime e corpi col classico “Tengo famiglia

Questo non sono io e voglio pensare che non siate neanche voi.