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lunedì 15 giugno 2020

7 Consigli ai formatori ‘tradizionali’ che vanno online


L’anno scorso ho fatto almeno 60 giornate d’aula con adulti in presenza. A febbraio ero già a quota 15. Poi ecco il Covid e la mia agenda si svuota da marzo a settembre in un colpo solo. Quelli sono stati i giorni più difficili da interpretare, stratificati di paure e incertezze.
Ecco che alcuni corsi si piantano dove sono. Molti sono cancellati. Alcuni - i primi - osano lo sbarco online. Mi si propone da subito lo IED di Venezia, il Master della Link, il Living Lab del Comune di Sassari, ad esempio.

Poi, in aprile, la pressione dell’utenza e degli enti di formazione fa saltare la regola che obbliga la formazione finanziata dal Fondo Sociale Europeo alla presenza. Tutto riparte in pochi giorni solo in webinar. È urgente formare storyteller digitali, progettisti, agenti di sviluppo, manager. Ovunque. Le telefonate tipiche che ricevo sono “Vorremmo chiederle uno dei suoi moduli formativi sul tema XY. Mi spiace dirlo ma senza il virus non avremmo mai potuto permetterci un docente da Roma.

Di colpo ecco Bolzano, Udine, Perugia, Cagliari, Reggio Calabria, Trieste. Un ottovolante in una stanza. Per settimane è stato un intenso mettere a punto, argomentare, tentare, sbagliare, ascoltare, ritentare, raccogliere. Dopo due mesi mi lancio nel razionalizzare quello che ho fin qui imparato:

  1. Ripensare l’obiettivo formativo: è stata la mia bussola. Mi sono chiesto ogni giorno “Perché qualcuno deve rinunciare a ore della sua vita per seguirmi davanti a uno schermo nella sua camera mentre intorno il mondo cade a pezzi?”. Che le prime studentesse, a marzo, mi perdonino, gli insegnavo a progettare la promozione di un territorio quando – impauriti - neppure potevamo uscire di casa. Imparavo facendo, evadevo insegnando. “Mi seguiranno solo  se gli servo, nel breve, oggi”, ho deciso che dovesse essere. L’utilità è la motivazione più forte on line, la teoria viene dopo, la suspense lì è difficile da creare, la teatralità vacilla. Occorrono praticità, esempi, scorciatoie sinaptiche che spazzino come fulmini nel buio. E dunque tante storie che spingano all’azione, smontino pregiudizi, attivino e educhino.
  2. Progettare l'Empatia: il primo mese è stata una prova per docenti e studenti. Dopo un po’ è stato chiaro a tutti che non poter stare assieme portava a dover costruire empatia dentro il webinar però nessuno è a suo agio a dichiarare il propri obiettivi a una webcam, quasi tutti lo fanno volentieri al coffe break. Ecco allora come il fare domande, raccontare e dar spazio a racconti, talvolta alla battuta, serviva a tutti. Anche se i presenti erano tanti, chiedere e stimolare risposte in chat diventava il filo che ci rendeva reali. Ho notato poi un cambiamento anche nei corsisti e da inizio maggio qualsiasi cosa chiedessi, in breve la ricevevo. “Mandatemi un progetto per la prossima volta”, “Girate un video di un minuto” o altro tutto era fatto con slancio nel minore del tempo. I ‘compiti’ diventavano necessari testimoni del contatto.
  3. Sincrono e asincrono: siamo partiti col sincrono. È la cosa che noi vecchi formatori sappiamo fare meglio e  quella che presuppone meno preparazione, anche perché c’era fretta e nessuno ci pagava il ripensamento dei modelli. Piano piano abbiamo adattato le slide. Poi creato i quiz. Girato piccoli video. Poi gestito piccoli word café in sottogruppi. Oggi la video chiamata comincia ad andarmi stretta. Voglio dare di più perché gli studenti vogliono di più. Dobbiamo studiare (indovina cosa sperimenterò quest’estate?) perché – ad esempio- la vera FAD con l’integrazione a Moodle o simili diventi la regola.  
  4. Organizzare un Backoffice: è importantissimo quando vi rivolgere a tante persone. Diciamo se sono più di una dozzina non puoi avere il polso del gruppo tramite un video. Serve un assistente attento che raccolga le domande, lanci i quiz, suggerisca dei link, ti faccia presente se le slide non si vedono o l’audio saltella. Un buon backoffice consente al docente di rimanere concentrato e diventa il suo sesto senso. È l’equivalente funzionale del tutor d’aula (che però nelle aule vere è spesso inesistente)
  5. Curare la posizione. Non voglio parlare di sfondi e scenografie, ciascuno la pensa differentemente e penso solo che devono 'vestirti' come desideri. Mi fa piacere però raccontare come con i webinar di Digital Generation abbia iniziato a intervenire da in piedi. All’inizio non ero sicuro poi l’ho trovato ovvio! Il pc posizionato in cima al portaCD e tutta  la libertà di muovermi, usare al meglio il diaframma, far cadere le spalle per liberare il respiro, ossigenare tutto e moltiplicare le sinapsi accese. D’altronde in aula sto sempre in piedi. Ormai quando devo insegnare per non più di 2-3 ore on line, sto in piedi. Tutto (soprattutto il cervello) funziona meglio.
  6. Battere il tempo: Ogni 15-20 minuti occorre cercare e creare il contatto. (anche solo per verificare che la linea non sia caduta ). Sono pochi quelli che si lanciano e interrompono, spesso anche le chat sono poco frequentate per cui occorre tirare fuori le osservazioni, anche col gioco.
  7. To be continued…: il momento peggiore per me è la fine, quando ritorni nella tua cameretta con la funzione inversa al teletrasporto che interrompe il collegamento. Mai come online mi viene naturale dire “ritroviamoci su Linkedin, scrivetemi nel gruppo, questa è la mia mail,” diventano tutti prolungamenti basati sulla conoscenza e la fiducia che nascono in lezione e misurano la tua capacità di essere stato utile e dunque la reputazione di cui potrai godere. Non vedo l’ora di incontravi di persona.


mercoledì 1 maggio 2019

Il Lavoro e il Non Lavoro.


La prendo da lontano… non mi faccio mai consegnare cibo a casa quindi mi sfilo dal dibattito sulle mance ai fattorini di pizze-sushi-hamburger e simili. Non lo faccio perché quei ragazzi mi fanno pena quando li vedo pedalare, e perché in casa amo cucinare. Fanno un lavoro che non può essere sostenibile, gli toglie energia e svuota di senso il lavoro stesso: il valore della merce in ogni viaggio è troppo basso per giustificare il valore aggiunto dal costo della consegna. È una presa in giro, come i tirocini infiniti, i periodi di prova senza termine, il ricatto del ‘fai un lavoro che ti piace… vuoi pure essere pagato il giusto?’  

Conosco abbastanza quei ragazzi, il labirinto in cui si trovano, la disillusione e la rabbia di alcuni. Li incontro  in molti corsi dove insegno. Tra loro non mancano i talenti, parlano tre o più lingue, sono persone quadrate e motivate a cui non viene data la fiducia, l’occasione, la possibilità di sbagliare. In tanti, tantissimi, lavoricchiano spesso in nero, mixano passioni e necessità nel disorientamento complessivo. Molti rischiano di arrendersi ad un eterna attesa coltivata nel rancore, di macerarsi nell’irrilevanza, di rassegnarsi a pedalare come criceti nella ruota, a non strutturare le loro conoscenze in competenze reali e spendibili sul mercato.

Io vivo del mio lavoro – sempre da immaginare, trovare, svolgere, mese dopo mese, nell’incertezza del presente e nella visione di futuri utili e probabili – e gran parte del mio è sviluppare lavoro e opportunità per altri.
Nei miei progetti col pubblico e il privato vedo le potenzialità dei singoli e la disorganizzazione del sistema complessivo che non crea occasioni, benessere e occupabilità.

Mancano servizi adeguati, banche dati di riferimento, marketing territoriale, conoscenza dei bisogni e  visone generale. Mancano perchè non interessano. Nessuno è pagato e motivato a raggiungere obiettivi reali. I tempi degli interventi rispondono a tempi anni ’80 in cui il contesto consentiva piani quinquennali, incongrui con la velocità dell’oggi.  

Manca il coraggio di sperimentare soluzioni, valutare gli impatti delle politiche, misurare l’efficacia della Pubblica Amministrazione. 
Si crede che il lavoro nero sia inevitabile, che l’illegalità sia congenita e necessaria, che in fondo aiuti gli ultimi a metterci una pezza, quando invece non fa altro che irrobustire la gabbia in cui sono rinchiusi e annullare in partenza il percorso degli imprenditori che vorrebbero operare in regola, creare valore collettivo, assumere e formare.

Credo che l’Europa, come luogo politico e geografico, ci possa aiutare molto nel cammino necessario per dare forma e efficacia al nostro mercato del lavoro. Non parlo di Fondi, quelli già presenti abbondanti e spesso spesi male in molte regioni, ma nella forma mentis, nella creazione di opportunità, nel lavoro per obiettivi, nella dotazione tecnologica, nella riduzione del digital gap e dell'analfabetismo funzionale che sta rallentando ogni reale ipotesi di sviluppo. Anche questa è una ragione profonda per andare a votare a fine mese. 

lunedì 14 settembre 2015

Tutti in Sardegna, la Sardegna non per tutti.

Ho avuto il piacere di essere selezionato nel team di esperti esterni del Primo Festival della Resilienza a Macomer, organizzato dall’infaticabile Associazione Propositivo. Forse mi sono per la prima volta avvicinato a comprendere lo specifico della Sardegna. 
Il Festival era realizzato in modalità “brainsurfing” e dal nome in poi era tutta un’incognita. Mi è parsa subito una sfida da cogliere, un po’ incosciente, un po’ per sognatori. Si è trattato di osservare con occhi nuovi un territorio ricco di potenziale e di criticità, con molta gente in gamba desiderosa di confrontarsi, innamorata di quei posti bellissimi e difficili.
Per una settimana a Luglio ho incontrato lo splendore della Sardegna. Nel sudore dei pomeriggi a 40° e nelle serate ai nuraghi mi sono confrontato, portando quello che sono. Ho goduto di un’ospitalità smisurata e li ho sentiti ammettere di come invece siano restii nell’accoglienza, li ho visti impegnati a creare ponti con la Cina e gli USA ma anche involuti nella complessità di 8 inutili province (nonostante abbiano meno abitanti della sola provincia di Torino), centinaia di micro e antifunzionali comuni seduti in ragioni antistoriche, affezionati una serie di regioni che non esistono amministrativamente ma radicate nel dna (Macomer ad esempio è prima di tutto nel Marghine, che confina con la Palargia, da qualche parte ti aspetti pure la Terra di Mezzo… in confronto pisani e fiorentini sembrano gemelli siamesi.)
Ho verificato di come la Sardegna sia la regione meno ‘italiana’. In confronto, l’Alto Adige pare un quartiere di Roma popolato da biondi con gli occhi chiari. Il tedesco parlato a Bolzano è lingua comunque in grado di aprire a altri mondi; in Sardegna, il sardo è il muro invalicabile alla comunicazione con l’esterno. Non è solo la lingua a segnare il distacco ma ancor di più il riferimento la civiltà nuragica: un mondo impermeabile a fenici, greci e romani, sconosciuto ai sardi stessi e dunque mitizzabile oltre misura, come accade solo per i vichinghi e Atlantide.

Ho diretto per anni un’azienda leader nazionale nei servizi alla pubblica amministrazione e non partecipavo mai a gare sarde perché “In Sardegna lavorano solo i sardi” era l’imperativo condiviso da tutti nel settore. Mi è parso dunque naturale che in Sardegna nascesse una moneta complementare perfetta come il Sardex, che rende una pippa il Bitcoin. (Il Sardex è una efficace moneta a interessi zero usata da migliaia di imprese, ancorata all’economia del territorio, funziona solo in Sardegna). 
Anche in Sardegna, come è evidente in Calabria e Sicilia, il sistema è drogato dalla logica frammentata e a corto respiro dei finanziamenti europei, in difficoltà nel lavorare assieme per ottenere risultati nel lungo periodo (che è poi la base della resilienza che uno sparuto gruppo di coraggiosi si sforza di portare all’attenzione della politica e dei cittadini). La pubblica amministrazione vede troppo spesso se stessa come erogatrice di fondi a pioggia e non come facilitatrice di processi in grado di abilitare comunità a farsi carico di se stesse. Tanti progettini, dunque, per un’esistenza al presente che scorda le generazioni che verranno. E in troppi se ne vanno.

Qualcuno però non si arrende. Con me, a Macomer, c’erano almeno sette o otto sardi che dopo anni all’estero o in giro per l’Italia, si sono convinti nel segnare strade di ritorno e non solo vie per trovare futuri altrove. Sono forse loro i primi a incunearsi con agilità nelle fessure che la modernità riesce ad aprire anche lì. E risvegliano, e si saldano a energie non spente: quelle della coraggiosa libraia di Macomer, dell’associazione che vuole rimettere in funzione il fantastico trenino che taglia l’interno dell’isola, di chi la Sardegna la canta e la suona con orgoglio, chi punta sul vino, chi sull’agricoltura idroponica. 

Ottimista? Realista, con una propensione a vedere più chi interviene di chi si lamenta e nega la realtà. Compiaciuto che alcune delle più belle persone che ho incontrato vogliano occuparsi di politica. Stupefacente e controcorrente forse, ma in linea con una grande tradizione e segno che forse proprio da posti diversi come la Sardegna possano ripartire le idee e i progetti di chi vuole pensare in grande (e diversamente).

mercoledì 12 novembre 2014

Quando l’Economia Collaborativa non genera collaborazione.

L’Economia Collaborativa non è più terreno di collaborazione quando la corsa al posizionamento dei suoi attori istituzionali scatena gomitate nella competizione per l’accesso ai nuovi fondi disponibili.

Non mi stupisco, non mi scandalizzo, disperde energie ma lo trovo fisiologico ma non riesco a esimermi dal commentarlo.

Chi sarebbero poi questi ‘Attori Istituzionali’ deputati a rappresentare la Sharing Economy? Qui viene il bello, pur non esistendo in natura nascono in questi giorni come funghi, uno dopo l’altro.

La filosofia alla base dell’innovazione sociale e dell’economia collaborativa porta soluzioni sostenibili a problemi concreti; soluzioni spesso diverse come sono diversi i territori e le comunità; esperienze dove il ‘fare’ vinca sempre sul ‘teorizzare’ e sul ‘mettere a sistema’.

Personalmente, nel 2011 ho cominciato a realizzare come la crisi stesse cambiando le persone e il loro ordine di valori e priorità e come l’unica via per uno sviluppo sostenibile sul lungo periodo fosse quella di perseguire strategie fondate sull’Innovazione Sociale in cui collaborazione e partecipazione creassero valore per i business come per i territori. Passavo ore nello studio dei casi, di riflessione sulle prime stentate applicazioni dell’idea. 
Poi alcuni amici mi hanno coinvolto nell’esperienza concreta dell'avvio di Impact Hub Roma che mi ha messo in contatto con nuovi modelli organizzativi, finanziari, produttivi sempre più aperti allo scambio e all’innovazione. 
Ho nel frattempo sperimentato la forza di logiche social e partecipative nelle mie attività quotidiane. Ho imparato sulla mia pelle che le ‘buone prassi’ non significano quasi nulla e che è importante invece coccolare e alimentare i ‘segnali deboli’ che arrivano.
L’impatto più forte che tutto ciò è stato sul mio lavoro, quello di sviluppo di progettazione di servizi per l’occupabilità e per lo sviluppo locale, ambiti che ho reindirizzato in una nuova prospettiva.

Ancora fino all’anno scorso ai rari eventi in materia di Economia Collaborativa, come la Smart City Exibition o la Oui Share Fest, cercavo segnali utili a ripensare il mio intervento e tra i pochi presenti con fatica si cercava di separare la lana dalla seta, la CSR dalla creazione di valore condiviso, il marketing dall’innovazione, costruendo anche una terminologia comune.
Da pochi mesi il fenomeno è esploso ed è un proliferare di eventi e convegni con panel professionali dove in migliaia vagano tra la ricerca dell’illuminazione e quella dell’informazione. 
Tutto è diventato Social Innovation e centinaia di persone e organizzazioni ti dicono che “loro la fanno da sempre” e che la loro è più “Innovation” di quella degli altri. Ci si accapiglia per decidere se quello che fanno gli altri è Sharing Economy o solo una furbata. 
C’è già chi è sul mercato per vendere a qualche migliaio di euro qualche “metodo” per fare innovazione sociale, chi promuove percorsi di cambiamento in 5 o 7 fasi che ricordano la fuffologia organizzata de La Profezia di Celestino. Dilagano i Summer Camp con le loro irritualità postideologiche organizzate che già sanno di nuovo conformismo.

I casi concreti, i successi e gli insuccessi reali latitano (o sono sempre gli stessi) e ho la sensazione che la loro iper esposizione mediatica rischi più che mai di soffocarli nella culla.
Ci sono poche idee in giro, poco coraggio e poca possibilità di pensare in grande. Nessuno misura impatti e sostenibilità delle azioni, nessuno protegge le creature neonate dalla furia dei monopolisti. 
I casi di vero successo non hanno forza per comunicarsi e chi ha denaro o contatti si accredita comunicando fumo al sapore di futuro. 
Per anni ho combattuto contro il “Modello danese” dei servizi per impiego ritenendolo impraticabile in Italia e già mi trovo a storcere il naso davanti a quello olandese sulla Sharing Economy (ma anche quello milanese o bolognese che perdono significato altrove).

Nessuno è però impazzito, il fenomeno è noto: è semplicemente nato un mercato.
Detto fuori metafora: ci sarà un botto di soldi su questi temi, soprattutto denari pubblici. 
I nuovi Fondi Strutturali presto a disposizione dei territori contengono una litania di termini come ‘Spazi di coworking’, ‘Innovazione sociale per i territori’, ‘Tecnologie abilitanti’, ‘Co design dei servizi’ messi lì da consulenti e pochi funzionari illuminati per dare sapore ai Programmi Operativi ma col rischio di rimanere etichette senza conseguenze reali.  Non mi stupirei se da domani il prefisso ‘Smart’ venisse associato anche alle slot machine e ai corsi di tango. 

Si tratta centinaia di milioni di Euro per i prossimi anni, su tutto il territorio e dunque il mercato spinge chi fino a ieri ha fatto corsi per estetiste o web designer a virare su qualcosa tipo ‘Social Innovation Empowerment and Strategic Thinking’ di fantozziana memoria. Le società di consulenza turbocapitaliste riscopriranno il valore della famiglia o dell'usignolo palustre. Chi ha fatto cucine le farà ‘Smart’, chi ha gestito balere per anziani le renderà ‘attività resilienti’, le Pro Loco si chiameranno ‘Living Lab’, ignari NEET si baloccheranno col mito delle Start Up fino a finire tra le grinfie degli strozzini e nel frattempo tre quarti della saggistica si contenderà nel titolo la parola ‘comunità’ o ‘collaborazione’ per descrivere un mondo piccolo e troppo autoreferente.

Paradossalmente una destinazione del denaro fortemente etichettata nel senso della Sharing Economy o della Social Innovation diventa facilmente fattore di rallentamento del processo di cambiamento e porta alla creazione di ‘riserve di caccia’ che già si stanno ben delineando.

Sento parlare già di professioni della Sharing Economy come se questa dovesse per forza crearne (perlopiù le distrugge perché diminuire il consumo di risorse farà scendere il lavoro ben retribuito. Tuttavia si crea altro: valore sociale, relazioni, nuovi rapporti tra generazioni). 
Mi pare che le uniche professioni nuove che si vedono in giro sono quelle degli ‘Evangelizzatori dell’Economia Collaborativa’.

Questa spinta all’istituzionalizzazione mal si adatta alla natura poliforme di un approccio al mondo fatto di collaborazione tra pari. 
È pericoloso etichettare o etichettarsi come “Quelli che…” fanno Innovazione Sociale o Economia Collaborativa ma manterrei le vecchie categorie di Artigiani, Produttori, Amministrazioni Pubbliche, Clienti, Contadini, Politici, Educatori, etc… piuttosto c’è da ragionare sul nostro modo di interpretare la relazione col mercato e con le risorse, il nostro senso di responsabilità, la nostra attitudine alla sperimentazione e alla collaborazione.
Per hanno in Europa hanno provato a sviluppare l'Industria Creativa e Cuturale e ora stanno facendo una virata totale e parlano di spillover, di contaminazione verso gli altri settori e non di un settore a parte. La vedo come unica via efficace anche per l'Economia Collaborativa.

C’è dunque molto da fare e ben vengano i soldi ma che vadano a sviluppare processi e dinamiche di rinnovamento soprattutto interni ai settori pubblici e privati esistenti. Che si sviluppino occasioni e luoghi per il dialogo, sintesi e proposta tecnica e politica tra gli operatori, senza creare nuove e fittizie tecnostrutture fatte solo di parole e portafogli.

giovedì 26 giugno 2014

Riempiamo i cocci del ‘900 di nuova sostanza.

Amo del mio lavoro l’essere pagato anche per studiare, collegare i fili, immaginare soluzioni che superino le categorie classiche della divisione per ruoli, settori e competenza e intreccino comportamenti, economia, tecnologia, mercato, talenti, scommesse sul futuro.
Ho già parlato altre volte di Economia Collaborativa e nuovi modelli di sviluppo ma l’accelerazione intorno a me mi porta a di nuovo sull’argomento. In queste ultime settimane mi sono trovato in diversi contesti molto ricchi di propensione all’innovazione e al cambiamento.

Il 14 giugno ero al Primo Festival delle Comunità del Cambiamento organizzato da RENA a Bologna.  Era previsto come un evento per addetti ai lavori per fare il punto sulla capacità e sulle esperienza delle Comunità nel farsi carico di se stesse in un dialogo alla pari con le Pubbliche Amministrazioni, le Parti Sociali, le Aziende. E' diventata una kermesse dove nuove domande a vecchi problemi, nuove risposte, ipotesi di futuro sono arrivate da tutta Italia. Erano previste 200 persone e associazioni: gli organizzatori hanno chiuso le iscrizioni a 450 per motivi logistici rifiutando oltre 200 richieste di partecipazione.
In platea un impressionante assortimento di Comuni, associazioni, social street, cohousing, agricoltori, sviluppatori, esperti di Open Data, Makers, gestori di spazi per il coworking e il codesign, fautori della partecipazione dal basso, dello scambio di competenze , della valorizzazione dei beni comuni, della responsabilità sociale del singolo e delle imprese.
Si percepiva voglia di fare e di cambiare portata da chi sta già facendo e cambiando e comprende che solo nella messa a sistema delle esperienze si possono definire delle politiche diverse di sviluppo per il Paese, nell’ottica della sostenibilità sociale, economica e ambientale auspicata da Europa 2020 e da ogni altro atto di indirizzo successivo.
“Non occorre Riformare, come tutti sbandierano”, è stato detto, ma “Risostanziare”. Mi trova d’accordissimo. È stato detto “Occorre ridare senso ai contenitori costruiti nel ‘900 e ormai vuoti di idee e significato” e ci si riferiva ai Partiti, ai Sindacati, agli Ordini, a riti vetusti. Lì, “Meno fiaccolate e più crowdfunding per i beni comuni” si sposava a “Oggi fare impresa è un gesto politico.”

Una settimana dopo ero a Reggio Emilia invitato da ItaliaCamp per il loro incontro Valore Pese – Economia delle Soluzioni, anch’esso affollatissimo,  in un panel di advocacy sulla Finanza d’Impatto Sociale volto a portare suggerimenti di qualità al Governo e alle molte istituzioni in grave deficit di attenzione e poca propensione alla risolvere i problemi sociali sempre nuovi che necessitano di nuove domande e nuovi strumenti per essere capiti e affrontati. Potrei descrivere la Finanza d’Impatto Sociale come il sistema degli investitori privati che finanziano politiche/progetti/imprese con obiettivi sociali e vengono poi remunerati in base ai risparmi che il sistema pubblico ha quando gliinterventi hanno successo e diminuiscono (ad es.) i disoccupati, i malati, gli ex carcerati recidivi, gli abbandoni scolastici.
Ero lì (credo) perché ho una certa familiarità su come si possano mettere assieme politiche, progetti e fondi  e perché mi trovo a mio agio nel pensiero laterale. L’ambiente era diverso da Bologna, per linguaggio e look, ma tutt’altro che differenti erano gli obiettivi finali.

Ho capito come il significato dato ormai a 'Impresa Sociale' sia post-ideologico per diventare: “L’impresa che ha un impatto positivo sulla società e porta soluzioni a problemi”, punto, nessun accenno alle divisioni storiche tra profit e noprofit, cooperativa e Spa, e simili.
Si è parlato molto anche di finanziamenti alle start up “sociali” e a come far decollare progetti che generino qualità della vita, e dunque ricchezza. Di come ottenere valore, qualità e occupazione dalla gestione dei parchi, del patrimonio archeologico e culturale, delle aziende municipalizzate, del patrimonio abitativo.

In entrambe le occasioni ho sentito parlare di soluzioni che passano attraverso una Economia della Condivisione (di beni, denari, risposte, occasioni); della necessità di Generatività intesa come la forza di estrarre valore dall’impensabile e saper cogliere i ‘segnali deboli’ che sono quelli che indicano la strada per il futuro; di Coraggio Istituzionale che indica come per innovare e risolvere occorre mettere in conto la necessità degli errori e delle correzioni in corsa

Nei due incontri erano diversi i moventi e gli interessi ma era evidente come da una parte si cercasse la via per portare a sistema soluzioni vantaggiose per le comunità per generare inclusione sociale e dall’altra si cercassero soluzioni su cui investire che fossero vantaggiose per la comunità producendo ricchezza (e risparmio).

Mai come in questo flusso di occasioni, idee, proposte, ho sentito la necessità dei ruoli di “cerniera”,  di facilitazione, perché le due parti possano superare le diffidenze culturali e i pregiudizi, e stimolare le contaminazione tra sogni, progetti e investimenti necessari a realizzarli
Ovviamente ci proverò, nel mio piccolo, con tutti gli altri.

lunedì 10 marzo 2014

Quello che non vorremmo e che invece occorre sapere sui Fondi Europei 2014-2020.

Tutti in famiglia hanno una zia o un’amica logorroica che ripete “Io l’avevo detto!” al verificarsi di qualsiasi evento. Bene, oggi mi sento così.
Il quotidiano “La Stampa” venerdì ha anticipato alcuni dei rilievi che la Commissione UE solleverà a giorni sull’Accordo diPartenariato dell’Italia, il Piano che serve a impegnare i circa 80 miliardi di Fondi Strutturali per il periodo 2014-2020 destinati al nostro Paese.
I rilievi sono 351, pesantissimi. Prevedibilissimi e tragici. Lo avevo detto e scritto, sperando di essere solo pessimista e non realista. 
Il giudizio su di noi è stato durissimo: «Il documento è ancora lontano dal livello di maturità richiesta» che pare destinato a un adolescente brufoloso che invece di pensare a crescere gioca alla battaglia navale sotto il banco.
Non sapete quante centinaia di riunioni, consulenti, mediazioni, è costato quel documento. E' stato in toto la conseguenza della prassi italiana di accontentare tutti in un Paese senza il senso del bene collettivo e in cui ciascuno tira al suo mulino (che non macina farina per nutrire i cittadini, valorizzare il territorio, generare benessere). Nessuno ha saputo dire “No” alle richieste di interessi particolari e dunque il “No” roboante e autorevole è stato delegato alla Commissione UE.
L’Accordo andrà in gran parte riscritto.
Fa rabbia perché:
·         Questo rimanderà di almeno 6 mesi la disponibilità dei fondi (i primi bandi non ci saranno prima di inizio 2015) in un momento così difficile per il paese
·         si tratta degli unici fondi ‘veri’ e vincolati per temi quali il lavoro, l’innovazione, la formazione, la lotta alla povertà.
·         Nessuno pagherà per questa dabbenaggine, né politici né tecnici che, anzi, sforneranno nuove ricette e nuovi "tavoli di concertazione"
·         Ci hanno detto di concentrare i fondi su pochi e misurabili obiettivi, abbiamo semplicemente camuffato vecchie logiche di finanziamento a pioggia
·         Occorreva vincolare i pagamenti ai risultati reali, ci siamo tenuti ben lontani da questo (forse neppure abbiamo capito cosa voglia dire)
·         Era d’uopo evitare progetti inutili, cattedrali nel deserto, ma si sa quanto a noi piaccia tagliare nastri e alzare flute al cielo
·         Andava ben chiarito come i soldi ricevuti non servissero a tenere in vita le strutture che li ricevessero ma a creare vero sviluppo strutturale e anche qui non abbiamo nemmeno capito il significato del concetto
·         «manca completamente l’analisi della capacità amministrativa nell’ambito dell’Obiettivo Tematico 11» ci dicono. È l’asse di intervento che serve a aumentare le capacità del sistema di pianificare e agire (in particolare la Pubblica Amministrazione). Il dramma è che a pianificare il prossimo decennio è stato chiamato un sistema che ha fallito in toto nei processi, ideali, comprensione del mondo, capacità.   

Questa bocciatura è doppiamente demoralizzante perché chi ha presentato il Piano ben sapeva che avrebbe generato 351 schiaffoni: era impresentabile anche a una lettura ingenua.
Ho letto molte delle bozze disponibili: vaghe nella strategia, negli obiettivi, nella previsione degli impatti. Non per errore di qualcuno ma esattamente come desiderato dalla politica e accondisceso da molti dei tecnici deputati a tenere dritto il timone.
Da decenni, la nostra concertazione è sinonimo di pura spartizione e non sappiamo fare altrimenti.
Si sapeva tutto da prima. in molti l'avevano detto, ma solo presentandolo così ci siamo guadagnati il ‘rigetto’ da parte della UE, elemento fondamentale per poter dire ora: “E’ la UE a essere cattiva”, “Non ci fanno fare quello che vogliamo con soldi che sono nostri”, “E’ umiliante andare a Bruxelles col cappello in mano”. Antieuropeismi d’accatto alimentati da lobby autoreferenti e incoscienti.
  
Ci massacrano: gli sviluppi degli 11 obiettivi tematici sono «presentati in maniera generale e con deboli riferimenti» alle raccomandazioni dell’UE e all’esperienza del recente passato. La logica è definita «debole nella maggior parte dei casi». Ci chiedono di «chiarire le scelte operate in funzione del grado massimo di valore aggiunto».
La UE aggiunge risulta «impossibile individuare nel documento una chiara strategia di sviluppo» che suona come una pietra tombale sulla retorica a breve respiro dei Jobs Act, Sgravi IRPEF o IRAP, e fanfaronate varie.

Ci dicono insomma che se continuiamo così non ci danno la benzina perché è evidente come non sappiamo dove andare e ci limiteremmo a inquinare ancora di più l’aria.

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Ps. Non mi ero accorto subito di quanto il post sovrastante fosse pessimista finché Michela non mi ha scritto "C'è un modo per cambiare? senza fare di tutta l'erba un fascio?"
Ci sono i bravi, eccome se ci sono, ma nel contesto presente non contano quasi nulla. Anche loro si rinsecchiscono nella solitudine visto che quasi mai sono messi nelle condizioni di lavorare tra di loro.
In questi giorni spero quasi che sotto la spinta della UE la politica realizzi che è il momento delle idee, delle scelte, della programmazione di lungo periodo che vada oltre la durata di un governo e di una poltrona. I tecnici dovrebbero smetterla di compiacere – almeno loro – i bacini elettorali dei capibastone e pensare al bene del Paese e al futuro nostro e dei nostri figli. Tutti dovremmo imparare a osare e capire che per cambiare occorre fare, e facendo si possono fare degli errori, da cui occorre imparare.
Infine, speranze vere di riscossa non ne vedo se non affrontiamo assieme i nodi della criminalità organizzata che tiene sotto scacco un terzo del paese, dei conflitti  di interessi che impediscono concorrenza e meritocrazia, dell’evasione fiscale che affossa i più deboli scavando sempre più profonde disuguaglianze sociali.