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giovedì 23 aprile 2015

Idee innovative, azioni, approcci differenti per favorire l’occupazione dei giovani.

Percepisco molte novità nell’aria.
Qua e là c’è aria di ripresa. Non riguarda tutto e tutti, la senti in nicchie di mercato che guardano all’innovazione, all’internazionalizzazione, che riescono selezionare e motivare talenti in gradi idi fare la differenza per capacità, apertura alla contaminazione, padronanza del loro tempo.
C’è nell’aria poi una deriva anarchica legata alla perdita di rappresentatività e di senso in molto sistema pubblico che per missione, progetti e azioni pare indietro di vent’anni e impaurito dalla sua stessa ombra.
C’è anche aria di nuovo. Ne vedo molto in materia di mercato del lavoro e di sevizi per l’occupazione. Le persone, i cervelli migliori, si incontrano e immaginano in base alle necessità dei giovani e delle aziende.
  • Alla base di questi ragionamenti vedo ad esempio con grande favore la mobilitazione creativa per l’occupazione giovanile  PreOCCUPIAMOCI di RENA, McKinsey e TraiLab per mappare iniziative, progetti e azioni in atto per rispondere in modo efficace e innovativo alla richiesta di occupazione da parte dei giovani (indagine aperta ancora fino a fine Aprile). In tanti si occupano di incrocio tra domanda e offerta e molti con metodo e efficacia. Conoscerli serve a tutti, magari con l’idea di imparare e rendere sistemici gli interventi. Indagini del genere oscurano nella loro inutilità centinaia di volumi prodotti da ISFOL o Osservatori vari centrati spesso sui servizi, sui processi burocratici e per niente su necessità e impatti reali. E vista la lunga lista degli Enti partner di questa indagine credo di non essere il solo a pensarla così.
  • Vedo di nuovo con grande favore da punto di vista dell’utenza la nascita di piattaforme tematiche per l’incrocio domanda-offerta di lavoro come quella davvero ben fatta appena lanciata da Art Tribune relativa ai profili dell’arte, creatività, design e dintorni.
  • Sono incuriosito oltre misura da un progetto ambizioso come quello di Whatchado che tra poche settimane esce in Italia dopo l’enorme successo avuto nei paesi di lingua tedesca con la logica di raccontare alle persone migliaia di professioni ‘mettendoci la faccia’ e aiutando i giovani a capire la complessità del sistema fuori dalle poche professioni telegeniche. Tra le migliaia di professioni raccontate ci sono anche quelle di cui le aziende hanno bisogno ora, rendendo così più logico e naturale l’incrocio. Lì ad esempio ho appreso che le banche e le assicurazioni non ricevono i cv degli esperti in comunicazione digitale – che desiderano per ammodernarsi - perché viste come posti di lavoro ‘vecchi e noiosi’. Gli infaticabili raccoglitori di storie professionali di Whatchado sono arrivati anche a un profilo indefinito come il mio e lo hanno messo nella loro banca dati.
  • Infine vi lascio con questo splendido video francese in cui si mostra ancora un altro modo bizzarro e efficace di favorire l’incrocio tra domanda e offerta


Insomma, molto di nuovo e di interessante si muove sotto il sole.

domenica 12 aprile 2015

Garanzia Giovani e Servizi per l'Impiego: cosa servirebbe e cosa invece non serve ai lavoratori.

Sono circa 1,5 i miliardi di Euro che si stanno bruciando in questi mesi in una inutile iniziativa denominata Garanzia Giovani. È un intervento di sostegno ai giovani senza lavoro deciso nel 2013, su cui Istituzioni, Enti di Formazione e Agenzie varie si sono accapigliate per oltre un anno a definire i criteri con cui dividere il bottino e l’alibi con cui farlo. A due anni dalle decisioni europee molte regioni stanno ancora definendo le regole del gioco (qui qualche dato).
Le azioni proposte seguono percorsi che si chiamano Orientamento, Tirocinio, Apprendistato, Formazione, Autoimprenditoria (che associata alla parola Giovane NEET suona come un ossimoro). Tutte  parole create nella forma e nella sostanza negli anni ’90, quando il ministro di riferimento era Treu, il tempo indeterminato era per molti ancora un obiettivo realistico  e Internet lo usava solo la NASA. In breve, un piano destinato al fallimento in culla e i suoi progettisti destinati al girone degli ignavi.
Inoltre, la Garanzia Giovani e il Job Act stesso si calano in un contesto in cui i Servizi per l’Impiego pubblici sono evirati di testa e braccia con l’abolizione delle Provincie e revisione della conseguente delega in materia, e la fantomatica costituzione di una Agenzia Nazionale per l’Impiego da edificare in 2-3 anni sulle carcasse di ISFOL, ItaliaLavoro e (buon senso direbbe) la parte di INPS che eroga gli ammortizzatori sociali.

In generale, credo che il mercato del lavoro possa vivere solo se è funzionale a una strategia di sviluppo e investimento sui settori economici ai quali l’Italia è vocata e, in parallelo, rendendo più facile la vita di chi tenta di creare lavoro in termini burocratici, di accesso al credito, di legalità, di giustizia fiscale.

Ho più volte scritto su questo blog come a mancare non siano i soldi ma le idee e il rimpallo tra le istituzioni e le parti sociali sia il segno della diffusa incapacità a confrontarsi col presente.
Per lavoro e come cittadino, assisto allo sviluppo di molti servizi per l’impiego che, nell’assenza istituzionale, portano risposte e efficacia. Vedo anche il pericoloso distacco crescente tra pubblico e privato e la progressiva inutilità del pubblico rispetto a un privato che si auto aiuta senza considerarlo e neppure chiedendogli più soldi.
Nei servizi attuali non si vedono azioni di senso in relazione alle nuove forme di lavoro, allo sviluppo delle competenze legate lavoro autonomo che riguarda almeno il 70% dei nuovi assunti. La cosa più innovativa è forse il Contratto di Collocazione in troppo timida sperimentazione, che riprende prassi che in UK hanno ormai 15 anni e che già vengono ripensate perché superate dai tempi.
Quello che invece vedo è:
  • il nascere di veri e propri pezzi di servizi attivi del lavoro fuori dal sistema, in luoghi come i fab lab, gli spazi di coworking, gli spazi per makers, non nella logica modaiola delle start up (chimere sopravvalutate per pochissimi) ma come luoghi dove avviene l’apprendistato alla libera professione, non sancito da alcuna legge ma destino che riguarda la stragrande maggioranza dei giovani.
  • la fine sul campo della retorica delle relazioni intergenerazionale di molti progetti-fuffa in cui “gli anziani passano competenze e relazioni ai giovani” o del "salviamo i mestieri che non ci sono più". Gli over 50 sono spesso espulsi perché a disagio nelle richieste del mercato del lavoro e sono loro le fasce deboli che i giovani possono sostenere e attualizzare. I mestieri non ci sono più quasi sempre perchè non hanno più senso. Gli stessi over 50 si sforzano di adattarsi a un mondo dove le relazioni (come tutte le informazioni) non sono potere se tenute strette ma solo se scambiate.
  • Grazie alle piattaforme online, è possibile la disintermediazione di ogni servizio e la nuova centralità di concetti come la reputation del candidato e il branding dell’azienda. Se parliamo di lavoro, è già la fine dei modelli on line dell’incrocio domanda offerta pubblici e privati (peraltro in Italia irrilevanti dal punto di vista statistico) per un modello su cui trionfano modelli di selezione in cui l’evidenza pubblica della vacancy c’è se genera anche branding all’azienda, altrimenti i canali di ricerca rimangono ‘informali’.
  • La necessità del bastone e della carota. Nessun servizio può essere standardizzato se non risponde alla regola per cui gli ammortizzatori sociali vengono erogati solo se il lavoratore si attiva davvero per cercare lavoro. La retorica del reddito di cittadinanza è dunque spazzata via dalla logica del reddito minimo garantito, garantito solo “se”. Oggi questo non succede, mai, neppure quando la legge in qualche modo lo imporrebbe come nella CIGS e nella Mobilità.  (Voi lo immaginate in Italia un impiegato del centro per l'impiego che ‘tiene famiglia’ e rifiuta l’assegno a un utente perché non si è attivato, magari lavorando in nero? Io no)
  • La lettura intelligente dei dati. La progettazione dei servizi è scalata di modello con l'uso dei dati. Anche in Italia sono in atto hackaton interessantissime sul come mettere in relazione la grande mole di dati sul tema per comprende il mercato del lavoro e sviluppare servizi che rispondano a esigenze reali e non alle lobby.  Non pensate perà di trovarvi funzionari o accademici, queste nuove piste di lavoro le sviluppano gruppi di cittadini che poi riporteranno alle comunità e ai territori la conoscenza messa a punto.
Lo avrete capito, quello che mi tormenta di più oggi è la mancanza di dialogo tra mondi che si sono voltati le spalle per comodità, autodifesa, paura, interesse e nell'allontanarsi uno dall'altro sfaldano il terreno su cui poter costruire un futuro solido per chi c'è e chi verrà. Bisogna lavorare per ricucire. 


lunedì 6 aprile 2015

Lo Yemen è in guerra. Ci sono stato e lo ricordo così...

Le prime pagine dei giornali, le aperture dei tg, vanno ovunque tranne che in Yemen. Da settimane lì è in atto una guerra sanguinaria e devastante in cui gli aerei dell’Arabia Saudita bombardano Sana’a, la capitale occupata da settembre da i sostenitori dell’ex presidente Saleh, sospettato di appoggiare i ribelli sciiti filoiraniani Houthi. Il Parlamento è stato sciolto e il paese è in preda alla totale anarchia per bande. Il presidente in carica è scappato a Ryad. Una situazione drammatica per gli abitanti e che interessa alla dilomazia internazionale meno della Siria. Ci sono pochi cristiani coinvolti e zero bianchi e dunque nessuna notizia da raccontare.
Ci sono stato in uno dei più bei viaggi della mia vita, sicuramente il più magico. Ero lì nella finestra temporale tra la guerra che unificò il nord al sud del paese e l’11 settembre 2001.
È (era?) un posto unico al mondo. Per molti aspetti andarci era anche un viaggio nel tempo. Un luogo dove la natura, gli uomini, le armi davano a me, bipede occidentale, la sensazione di un ‘altrove’ dominato dalla forza e votato al sacrificio.
In quel viaggio il Paese era in pace, una pace dura e spigolosa con pochi sorrisi e tensioni serpeggianti in ogni angolo. Per ricordarlo e accendere una piccola luce su quel posto, provo lasciare qui qualche briciola di quel viaggio:
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L’unicità di Sana’a è confrontabile solo con quella di Venezia. Pur non avendo avuto un Canaletto a raccontarne lo splendore, i palazzi altissimi ne hanno la bellezza e la raffinatezza. Solo che al posto dell’acqua le fondamenta sono piantate nella sabbia del deserti.
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Sono palazzi in argilla e mattoni, labirintici all’interno e costruiti per ingannare il caldo. Fuori si ergono superbi con le loro decorazioni bianche in calce che hanno la finezza e la bellezza dei ricami più preziosi
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Gli uomini indossano tutti l’abito tradizionale lungo e a nessuno che abbia più di 14 anni manca il coltello ricurvo, la jambia. La portano come noi faremmo con la cravatta. Molti non disdegnano anche girare con la pistola, il fucile, il kalashnikov.
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Durante un lungo trasferimento in pulmino dal nord al sud del paese, l’autista si fermò in mezzo al nulla, dispose delle bottiglie a trenta metri da noi e, per un dollaro a colpo, fece provare il mitra ai viaggiatori che lo desideravano
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Gli stessi kalashnikov venivano scaricati verso il cielo ogni sera allo scoccare dell’ora in cui si poteva rompere il digiuno legato al ramadan. Le prime sere trattenevo il respiro fino alla fine di quegli sbotti di gioia, poi mi limitai a rimanere al chiuso.
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Le donne, tutte imprigionate nei loro burka si muovevano silenziose nelle città e zappavano la terra nei campi. Nei mercati la biancheria intima coloratissima e traforata ammonticchiata nei banchetti, completava una sudditanza culturale che a noi turisti appariva parte di una tragica schiavitù.
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A parte pochi hotel a 5 stelle per ricchi americani, blindati e senza senso, nessuna infrastruttura turistica. Abbiamo dormito e mangiato nei funduk, luoghi di sosta carovanieri dove dividevamo cibo semplice sullo stesso pavimento coperto di tappeti dove avremmo poi dormito.
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Il ghat, una pianta alcaloide parente della coca, masticata da tutti, che inebetisce e rende automi e senza volontà, e che distrugge i denti e brucia quasi il 50% del PIL del paese.
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Le carcasse di carri armati di fabbricazione russa abbandonati lungo le strade e furi dalle città, coperti di sabbia o usati come parco giochi da mille bambini sorridenti.
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Le spiagge, magnifiche e deserte, sull’Oceano Indiano dove all’improvviso tre donne in chador con visi solari e modi gentili dispongono su foulard colorati decine di conchiglie, forse rare, di certo magnifiche. Ancora oggi, quandole rigiro tra le mani, sento il mare senza neppure il bisogno di portarle all’orecchio.
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Il cappotto di fustagno con bottoni dorati, residuo dell’alta uniforme di un ufficiale inglese delgi anni '30, che ho comprato al mercato dopo una interminabile contrattazione.
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Shihara, il paese a 3000 metri d’altitudine, palazzi di argilla, aquile, dove è anche l'abitazione di Franzisca, giovane yemenita innamorata in qualche modo ricambiata di un viaggiatore italiano arrivato lì un paio d’anni prima.

martedì 31 marzo 2015

“Sharing is Tuning” – sensazioni da due corsi di Economia Collaborativa

Sì ma, nel concreto, cosa vuol dire fare Sharing Economy in Italia?
Non trovo molto appassionanti le discussioni sulla natura buona o cattiva dell’economia collaborativa. Cerco di immaginare uno sbocco pacifico agli scontri tra Uber e i tassisti, Airbnb e gli albergatori, attendendo quelli tra Gnammo e i ristoranti, tra servizi tipo-Taskrabbit e le Agenzie per il Lavoro. Guardo perplesso la quantità di tasse evase da migliaia di aziende e cittadini, in larga parte perché regole e normative sono in ritardo sul mondo reale e non è neppure chiaro come e se andrebbero pagate.
Vedo le cose accadere e, siccome mi è chiaro come molte siano giuste e inevitabili, in piccola parte partecipo al farle succedere.
Credo che la marea montante della Sharing Economy dimostri ancora una volta la validità delle teorie evoluzioniste basate sulla adattabilità delle specie. Sopravvive chi si adatta e oggi adattarsi vuol dire diminuire il consumo di risorse, facilitare l’accesso e le relazioni, rigenerare spazi e servizi di sussidiarietà da dove lo Stato si ritira, coinvolgere sulla base dell’esperienza e non del possesso, rinforzare la fiducia per rinforzare la resilienza (e vale per i condomini, le comunità, le community, le parti sociali, i paesi, i territori, ...).
Ho la fortuna e il piacere di aver pensato e preso parte negli ultimi mesi a due corsi sull’Economia Collaborativa per persone interessate a verificarne l’approccio nel concreto delle proprie attività, nel profit come nel sociale, nell’assistenza alle persone e nello sviluppo di sistemi informativi. L’ho fatto inventandomeli in gran parte, lo ammetto, pensandoli da zero, perché la richiesta era palpabile e non c’era nulla del genere sul mercato della formazione.

Il primo realizzato tra ottobre 2014 e gennaio 2015 per Fusolab a Roma, una realtà superdinamica che sviluppa corsi di qualità a basso costo per un pubblico vasto e appassionato. 16 ore in 8 incontri. C’erano 8 iscritti, età media 35 anni, tutti con idee interessanti da realizzare.

Il secondo tra marzo e aprile 2015 per Innovazione Sostenibile, associazione attenta a ogni nuova necessità, finanziato da Regione Lazio su fondi FSE per liberi professionisti e titolari di impresa. 25 ore in 6 incontri che si sommano a un percorso di sviluppo professionale che arriva in totale a 80 ore. Ci sono 13 iscritti, età media sui 50, storie di vita ricche e importanti.

Qualche nota sui partecipanti:
  • Curiosità e Fiducia sono le parole - chiave che dispongono i partecipanti.
  • l’età media piuttosto alta rivela a mia avviso come il capire ‘come cambia il mondo’ per agire da agente del cambiamento sia la chance specifica per chi ha già molte esperienze di vita.
  • la stessa età elevata, e le sicurezze che porta con sé, diventa la linea d'ombra da superare per affrontare un contesto iper dinamico. 
  • Molti ‘fanno’ economia collaborativa: tanti hanno rinunciato l’auto, affittano e scambiano case, ospitano stranieri a cena grazie a piattaforme. Insomma sono attivi prima di essere generativi, e questo è il primo passo.
  • Tutti sono interessati a capire i ‘perché’ prima di affrontare i ‘come’. Così quelle alla base della Sharing Economy diventano logiche adattative, sempre diverse a seconda dei contesti
  • Pochi si fanno intimorire dall’incertezza normativa e fiscale. Adottano il "Metodo ‘Sti Cazzi" che prevede come essere primi sia più importante che essere perfetti, e che prima o poi il contesto si adatterà alla realtà
  • Vogliono casi concreti, cogliere la novità e vestirne i loro business presenti o futuri. Molti sono consulenti e possono fare la differenza rispetto alle scelte delle aziende e delle pubbliche amministrazioni oggi incapaci di intergrare conoscenze, nuovi linguaggi, necessità. 

Hanno nella testa business e interessi magnifici, peraltro. Globali e iperlocali. Spesso con ottimi presupposti di sostenibilità e scalabilità. Ne cito alcuni per dare significato alla concretezza:
  • Lo sviluppo di azioni di crowdfunding per consentire agli anziani abbandonati negli ospizi di passare delle giornate al mare, a teatro o dove gli piace
  • Irrobustire il nascente movimento diffuso dei ‘pulitori’ nelle città per sviluppare nuove forme di cittadinanza,
  • Ragionare sui big data della telefonia per cogliere da sms e whatsup tendenze suicide o depressive degli adolescenti
  • Immaginare comunità di professionisti felici di dare 2-3 ore al mese del loro tempo all’orientamento di giovani disoccupati
  • Ripensare i servizi di catering come congiunzione tra la produzione di qualità, la ristorazione e la socialità
  • Georeferenziare e condividere i luoghi del silenzio nelle grandi città.
  • evolvere le social street in nuovi ambienti per l'apprendimento
  • e tanti altri ...

Il saggio psicologo che tiene dei moduli nello stesso corso mi stimola a proposito osservando “In fondo si tratta di capire se questa dello sharing è una cosa così, una moda che si somma al resto, o possa davvero cambiare l’economia nel suo complesso…”


L’economia è già cambiata, si sintonizza sulle necessità delle persone e delle aziende, che spesso non coincidono però. Si tratta di capire se vogliamo essere cambiati da nuovi monopoli o essere noi gli agenti del cambiamento.

lunedì 16 marzo 2015

Buona Scuola per tutti.

I commenti alla proposta della Riforma denominata “La Buona Scuola” sono stati pochi e raramente nel merito. 
Nelle città maggiori si è visto qualche corteo svogliato di studenti più portati alla giornata di vacanza che a confrontarsi nel merito del tema. Perfino i talk show televisivi l’hanno dribblata, a mio avviso perché non riassumibile in un tweet o in una battuta di Salvini.
A differenza di altre recenti iniziative del Governo, confuse negli obiettivi, nel percorso realizzativo e scombinate nella struttura,  come l’abolizione delle Province e la Garanzia Giovani, trovo nella riforma della Scuola un senso complessivo, spunti interessanti, alcuni difetti, un discreto sguardo verso il futuro.

A voler fare dietrologia, forse non è irrilevante come la moglie di Renzi sia insegnante essa stessa, così come molti dei ministri abbiano figli in età scolare (e non frequentino le studentesse solo in cene eleganti, come i governi precedenti).
Non deve qui sfuggire come la proposta sia frutto della più ampia consultazione pubblica mai realizzata per lo sviluppo di una politica pubblica, con migliaia di incontri in tutta Italia, centinaia di migliaia di contatti. La trovo organica e frutto di un’intelligenza diffusa. Spero che prassi del genere diventino diffuse, anche a livello locale.
Dalla proposta si percepisce attenzione, capacità di sintesi, cura per la Scuola, indirizzo politico.

Il recupero delle materie di insegnamento artistiche e economiche, il rafforzamento delle competenze dei presidi, un barlume di valutazione degli insegnanti, il bonus di 500 euro per gli acquisti culturali dei docenti, un po’ di soldi in più a chi se li merita, la stabilizzazione della maggioranza dei precari sono alcuni dei buoni inizi e molto di più di quello che ogni Governo abbia finora proposto.
Anche a me il bonus fiscale di 400 euro per chi manda i figli alle paritarie fa alzare il sopracciglio, e lo vedo a rischio incostituzionalità, ma è sempre meglio che dare il bonus alle scuole stesse come è stato fatto finora. In parte può essere anche una via per combattere l’evasione fiscale.
Trovo invece del tutto campato in aria, per quanto d’effetto nell’enunciazione, il raddoppio delle ore di alternanza scuola-lavoro proposto per molti Istituti. Si tratta di una fascinazione irrealizzabile per il modello tedesco basato su imprese molto più grandi delle nostre. Già ora, con solo 200 ore, l’alternanza riguarda non più del 10% degli studenti. Portando a 400 ore non si andrà da nessuna parte e si eroderà terreno ai tirocini in azienda che già non funzionano.

La consultazione ha fatto anche vittime, ha dato un duro colpo agli organismi intermedi (leggi sindacati) la cui irrilevanza nei processi sta diventando patologica e la pochezza di visione ne sta determinando l’autodissoluzione. In particolare sulla Scuola, impegnati a tutto tondo nel brandire il feticcio antistorico de “Le scuole e i docenti non si valutano”, hanno perso di vista tutto il resto.

Il paradosso finale è che un governo abituato a procedere con decretazione d’urgenza e eccesso di uso della fiducia, ha invece lasciato la Buona Scuola ai lavori delle Camere. Non riesco a capire se questo:
  • serve a impantanare la Riforma dimostrando l’inadeguatezza dei parlamentari
  • serve a massacrare la riforma consentendo al Governo furbacchione di dire “La proposta era buona e questo risultato è colpa vostra”
  • serve a mettere ciascuno di fronte a responsabilità precise scardinando gli alibi, anche dell’opposizione.


E ora? Potessimo passare attraverso un bel dibattito parlamentare migliorativo e poi alla fase operativa, tutti ne guadagneremmo. E' chiedere troppo?

domenica 8 marzo 2015

Quali negozi aprono, quali chiudono e quali ammiccano a un futuro sconosciuto.

Adoro le dinamiche di apparizione e chiusura dei negozi nel quartiere. Seguono leggi di mercato, sogni di improvvisati negozianti, la disperazione di altri. 
Come in uno zoo metropolitano, le vetrine diventano aperture sulle vite e metafora di cosa succede nella società.
Guardo, annoto, mi stupisco. Voglio socializzarlo perchè dalle vostre parti succedono di certo cose simili (o completamente diverse), in ogni caso fatemi sapere.

Questa è una panoramica delle apparizioni negli ultimi 6 mesi, dalle mie parti, in un quartiere come tanti di Roma:
  • Sale scommesse: 6 aperture nel raggio di un chilometro. Ambienti di impostazione ambulatoriale frequentati da musi lunghi, facce tese, frasi smozzicate, voci basse, da una popolazione di ansiosi che si aggira per queste sale dispensatrici di illusioni. Sono tutte arredate in modo essenziale, vere sale d’attesa che qualcosa accada mentre la vita si prosciuga.
  • Mescita di vino: 3 aperture nel raggio di un chilometro. Direttamente da cilindri d’acciaio in bottiglie di plastica riciclate, ogni tipo di vitigno si concede ai bicchieri del quartiere. Se ti metti in ascolto, senti franare sulle ginocchia le poche enoteche di zona che provavano a fare cultura alcolica e oggi si trovano a combattere contro la Falanghina a 1,90, l’Aglianico a 2,20 il Prosecco a 3 Euro il litro. Prosit e Amen.
  • Forniture all’ingrosso per estetisti e parrucchieri: 2 aperture. La sensazione è che gran parte della parruccheria avvenga ormai nelle case, con tecniche fai-da-te, in saloni occulti evadi-le-tasse. Belli e possibili.
  • Fruttivendolo Alimentari Bangladesh: 2 aperture. Gentili e ordinati, gli unici a ricordare il nome dei miei figli, con un bell’italiano cantilenante. Hanno skype acceso in un pc sul retro del negozio, puntato su qualche villaggio a seimila chilometri posto a pochi centimetri sopra il livello degli acquitrini. Frutta e ventura.
  • Bar tavola calda Siciliana: 2 aperture. Quello della ristorazione regionale sta diventando un fenomeno interessante e di grande piacere per la gola. La Sicilia in questo stravince, anche per la ricchezza oggettiva della propria offerta;    
  • Auto lavaggio a mano: 2 aperture. Basta un ex negozio in disuso e un rubinetto per lanciarsi in questa attività che per 10 euro ti lustra l’auto. La sensazione è che siano basi per lo spaccio di qualcosa…
  • Gelaterie: 2 aperture. Entrambe ‘diverse’ dal solito. Una strabio, con gusti di tendenza come la ‘mela annurca con miele di gelsomino e cannella delle Egadi”, fighetta e nel complesso ingannevole. L’altra del tutto senza personale, con macchine che erogano in automatico gusti plastificati, topping colorati e cancerogeni. A entrambe diamo al massimo un anno di vita.
  • Pellicceria: 1 apertura. Fantascienza pura. Direttamente dagli anni ’80 ha aperto una pellicceria. Non so se sia uno scherzo, una copertura della Digos, la tana di un nostalgico dello zibellino annoiato. Operazione talmente bizzarra che credo sia già nei tabelloni di scommesse delle Sale di cui sopra.  
  • Alimentari Italiano: 1 apertura. È uno spazietto che ricorda un negozio cuneese anni ’70 con l’omone in grembiule bianco, la pasta sugli scaffali e gli affettati sono il grande vetro del bancone. Se taci, senti già le asfaltatrici dei supermercati attorno caricare i serbatoi per annientarlo in allegria.
  • Scuola di cucina, piano strada: modaiola e colorata, con l’aula cucina che si vede dalla strada. È per lo più vuota, ed è presto per dire se possa funzionare. Ci sono corsi base di questo e di quello, anche per bambini con le mani in pasta. La sensazione è che le persone guardino in tv i Masterchef perchè il tempo del pornosoft è finito e, così come Gloria Guida era un'icona irraggiungibile, anche le ricette acrobatiche di questi cinghialoni vestiti da chef rimangono un esercizio teorico. Scuola di cucina, piano strada, anche per te la vita sarà dura.


mercoledì 4 marzo 2015

Perché dovrei andare a Expo 2015 di Milano? (ritorno sul tema)

Quasi un anno fa ho scritto questo post in cui cercavo di capire perché sarei dovuto andare a Expo 2015 di Milano. Per molti mesi ha avuto lettori distratti e occasionali. Da alcune settimane è fagocitato dalla curiosità di decine di lettori al giorno che, usando i motori di ricerca, si chiedono “Perché dovrei andare a Expo 2015?”
L’interesse mi ha stupito solo in parte anche perché la domanda ricorre nei bar, sugli interregionali, nelle sale di attesa dei fisioterapisti e per molti è una variabile legata alla programmazione delle prossime vacanze estive.

Frequento centinaia di persone per lavoro, diletto, obbligo sociale, e spesso se ne parla. Finora solo una mi ha esternato che andrà all’Expo; “perché le architetture saranno molto interessanti” ha detto, che non è forse il massimo dello slancio. C’è anche quello che dice “la mia azienda ha decine di biglietti omaggio” e aggiunge, “Lo prendo e poi deciderò se andare…”
Alcuni ci saranno per lavoro ma in quanto prezzolati non contano.
Certo, esistono le opzioni che in molti andranno con una decisione last minute o che per loro ragioni lo facciano senza dirlo in giro, però le trovo entrambe poco convincenti. È inutile che ribadisca come nessuno dei miei contatti all’estero abbia la minima percezione di cosa succederà là sulla pianura.

Siamo di certo un popolo strano, diffidenti per natura e i proclami entusiasti delle istituzioni e del governo ci lasciano più perplessi che convinti. Allora rieccomi lì col pallottoliere a cercare di capire quanto potrei spendere, quanti giorni ha senso starci, se posso dormire gratis dal cugino Filippo che abita a Rho e ho sempre preso in giro quando diceva invece di essere di Milano.

Stai sul tema, ripeti a te stesso, lascia perdere il pallottoliere e pensa quanto ne vale la pena: Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita.
È un titolo bellissimo per il seguito di Avatar, forse anche per una Esposizione che guardi ai valori della Vita e del Territorio. 
Tutto però dalle parti di Rho scivola nella confusione, la stessa comunicazione dell'evento la percepisco come imballata in un mix di ristoranti, innovazione, concerto pop, campi di grano, cotillon, mangiatori di fuoco, che mi chiedo quante settimane servano per capirci qualcosa senza ansie.
È poi di oggi la notizia che McDonald sarà parte integrante del discorso di Nutrire il Pianeta, e che la Coca Cola rappresenterà Energia (e Caffeina) per le Vite delle migliaia di visitatori previsti.
Comprendi allora come Slow Food, piano piano, si defili e prenda le distanze. E io lo faccio pure.

Ho capito però cosa mi manca e perché mi viene istintivo scansare quel luna park: sono banalmente italiano e dunque espressione di una cultura che considera il cibo sacro, la gastronomia un pilastro identitario del terriotrio, l’agricoltura e la pesca professioni nobili, i prodotti alla stregua di miracoli, la socialità il collante di tutto questo.
Nulla di questa sacralità traspare da questo salone.
Allora il grano vado a vederlo sui pendii della Basilicata e i concerti allo stadio. Chi lo ha pensato, si è scordato che qui non mangiamo per vivere ma viviamo per mangiare. E per questo siamo riconosciuti nel mondo e per questo non riesco a riconoscermi nelle bausciate delle archistar.

Non sono un puro, figuriamoci, sono seducibile come tutti.
E dunque attenderò i racconti dei primi tra di voi che vi andranno. Fatemi sapere, di molti mi fido.
Forse quello che cerco sorgerà imperioso e imprevisto da quei cantieri mastodontici e cambierò la mia idea ma, per ora, attendo.