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sabato 14 marzo 2020

Working from home in Coronavirus times: tips for foreign friends by an Italian veteran.


In Rome we have been in self-isolation for over two weeks. A few days ago I wrote a post for Italians that has had a great diffusion online. 
I have been working at home for over ten years. Before, I was a company manager, with a large office, a round meeting table and a nice picture behind me. I enjoyed breaks at the coffee machine and dozens of mostly nice colleagues.

Then I chose the freelance consultancy also to enjoy the children. So I chose it. 
Millions of people around the world discover it these days as a consequence of the coronavirus. It is not an easy situation, there is tension and concern.
I assure you that in the end it's not bad: with a few tricks your productivity and quality of life will skyrocket.

Since I have got a few years of advantage, I hope to do something useful in making suggestions on how to deal with this unusual situation:
  1. Never in pajamas. You are working and therefore use clothing to mentally separate the moment from the flannel and slipper activities. Dress comfortable and dignified. Also because you must always be ready for a videoconference that must see you prepared at least from the waist up.
  2. Physical movement. Before you start working, do some physical movement: you have spared the journey by car or public transport but something must tell your body that it must change gear. The walk with the dog is ok, shopping in the shops near the house also, excellent pilates in front of the brightest window.
  3. Use a work place. Decisive to have a dedicated space, a little thought you can create one. Your position can NEVER be the bed or sofa: the body goes haywire and does not understand what to do. There are those who can afford a room; I have a small table in the room; excellent also the living room. The important thing that you have a space of your own.
  4. Do not bring food to the desk. The house knows you and tempts you: food reserves abound, often better than in the company's canteen. Keep away, especially if you do not want repercussions on fat, blood sugar, cholesterol and stains on folders.
  5. The family. All those who live with you, family, roommates, pets, must stay clear when you are working. Say it without misunderstanding, maybe put a signpost outside the door. You are not there for them. Be categorical.
  6. Don't care about the house. There are those who do not start working before the bed is not made, the dishes washed, the plants watered. That's enough! You are there because you have commitments: set yourself a timetable and totally ignore the context that - I assure you - can do without you.
  7. Have breaks: Take at least a ten minute break every two hours. It serves to remain human. And then there is pee, coffee and snacks to pay homage to. And maybe a chat with the other bipedal or animal housemates. It is also useful to widen your gaze by focusing on something far away like clouds, passersby, the tree in front, the policeman who fines the car in double row.
  8. Use of social media: At home you have no filter or obstacle and therefore social media risk making you waste a lot of time in unbridled messing aroung. It is also clear that in this moment of emotional stress and organizational solitude you want to feel part of a community. Then use it sparingly by giving yourself rules.
  9. Isolation: you are isolated, you are not alone, always remember it. Take care of human relationships, call someone, write to each other.
  10. E-Commerce. Worse than social media because it empties your account. Keep away from Amazon and other compulsive buying platforms. Trust me: you don't need a drill or a moccasin. At least not during working hours.
  11. Technologies. For normal office activities, in addition to a PC and a reasonable bandwidth, an effective backup system (in the cloud or on an external hard disk),and a b/w laser printer are recommended. A pair of headsets is also useful to better manage video calls without echoes and distortions
  12. Video calls. If your company does not have its own platform, Skype, webex, Microsoft Team, Zoom or - on the ground - Whatsapp or Facetime can do the job.
  13. Mobile Phone. The mobile phone greatly distracts those who work. Use it as strictly as necessary. I advise not to keep it handy. And if it rings, getting up to respond is already physical movement. If you use a lot of whatsapp for work, install the pc version, otherwise forget it.


If you usually stay 7-8 hours in the office, you will soon discover that at home the same tasks are done in 4-5 hours. So all these tips become easier to manage. 
You then saved at least an hour of travel. It is important that part of the freed time is focused to learn, to discover the web, to use distance learning modules, to update you, to build communities. For the rest, many cuddles and kindnesses to those who share the apartment with you.

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If you think these tips can be useful to someone, share them on your channels.
If you have comments, points to add or your experiences to describe, leave me a comment below.

domenica 8 marzo 2020

Lavorare da casa: i consigli di un veterano.


Lavoro a casa da oltre dieci anni. Prima ero un direttore d’azienda, con l’ampio ufficio, il tavolo riunioni tondo e un bel quadro dietro di me. Mi godevo le pause alla macchinetta del caffè e decine di colleghi in gran parte simpatici.

Poi ho scelto la libera professione anche per vivere la crescita dei figli. L’ho scelto dunque. Milioni di persone lo scoprono in questi giorni come conseguenza del coronavirus. Non è facile. È diverso. Vi assicuro che non è male e che con qualche accorgimento la vostra produttività e la qualità della vita scattano alle stelle.

Visto che ho qualche anno di vantaggio, spero di far cosa utile a qualcuno nel riportare suggerimenti su come affrontare questa situazione:
  1. Mai in pigiama. State lavorando e dunque usate l’abbigliamento per separare anche mentalmente il momento dalle attività in flanella e babbucce. Vestitevi comodi e dignitosi. Anche perché occorre sempre essere pronti a una videoconferenza che vi deve vedere preparati almeno dalla vita in su.
  2. Movimento fisico. Prima di iniziare fate del movimento fisico: avete risparmiato il viaggio in auto o con i mezzi pubblici ma qualcosa deve pur dire al vostro corpo che deve cambiare marcia. La passeggiata col cane è ok, la spesa anche, ottimo anche il pilates davanti alla finestra più luminosa.
  3. Spazio dedicato. Decisivo avere uno spazio dedicato, un po’ pensato. La vostra postazione non può MAI essere il letto o il sofà: il corpo va in tilt e non capisce cosa deve fare. C’è chi si può permettere una stanza; io ho un tavolino in camera; ottimo il soggiorno. L’importante che sia il vostro spazio.
  4. Non portate cibo o bevande alla scrivania. La casa vi conosce e vi tenta: le riserve di cibo abbondano, migliore e più buono che alle macchinette. Tenetevi lontani, specie se non volete contraccolpi su adipe, glicemia, colesterolo e macchie sui faldoni.
  5. La famiglia. Tutti quelli che vivono con voi, famiglia, coinquilini, animali di compagnia, devono aver ben chiaro quando state lavorando. Ditelo senza equivoci, magari mettete una targa fuori dalla porta. Voi per loro non ci siete. Siate categorici.
  6. Fregatevene della casa. C’è chi non inizia a lavorare se il letto non è fatto, i piatti lavati, le piante innaffiate. Basta! Siete lì perché avete degli impegni: imponetevi un orario e fregatevene totalmente del contesto che – vi assicuro- può fare a meno di voi.
  7. Pause: Fate almeno una pausa di dieci minuti ogni due ore. Serve a rimanere umani. Lo prescrive la legge. E poi c'è pipì, caffè e snack da ossequiare. E magari due chiacchiere con gli altri coinquilini bipedi o animali. Utile anche allargare lo sguardo mettendo a fuoco qualcosa lontano come nuvole, passanti, l'albero di fronte, il vigile che fa la multa all'auto in doppia fila. 
  8. Uso dei social: In casa non avete nessun filtro o ostacolo e dunque i social media rischiano di farvi perdere un mucchio di tempo nel cazzeggio sfrenato. È chiaro anche che in questo momento di stress emotivo e solitudine organizzativa vogliate sentirvi parte di una community. Allora usatelo con parsimonia dandovi delle regole.
  9. Isolamento. Siamo isolati, non soli: ricordatelo sempre. Curate le relazioni umane, chiamate le persone, scrivetevi. Fate domande. Chiedete aiuto se serve.
  10. E-Commerce. Peggio dei social perché ti svuota il conto. Tenetevi lontani da Amazon e altre piattaforme d’acquisto compulsivo. Fidatevi: non vi serve né il trapano né il mocassino. Almeno non in orario di lavoro. E la spesa fatela al mercato rionale: è tutta salute.
  11. Strumentazione. Per normali attività d’ufficio, oltre a un PC e una larghezza di banda ragionevole, sono consigliati un sistema di backup efficace (in cloud o su un hard disk esterno), una stampante laser b/n. E’ utile poi un paio di cuffiette per gestire al meglio, senza echi e distorsioni, le videochiamate
  12. Videochiamate. Se la vostra azienda non ha una sua piattaforma, vanno benissimo Skype, webex, Microsoft Team, Zoom o – terra terra – anche Whatsapp o Facetime possono fare il lavoro.
  13. Telefonino. Il telefono distrae parecchio chi lavora. Usatelo lo stretto necessario. Consiglio di non tenerlo a portata di mano. E se suona, alzarsi a rispondere è già movimento. Se usate tanto whatsapp per lavoro installate la versione pc, altrimenti lasciate perdere.

Se in ufficio fate di solito 7-8 ore scoprirete presto che a casa le stesse cose si fanno in 4-5. Quindi tutti questi suggerimenti diventano più facili da gestire. Avete poi risparmiato almeno un’ora di spostamenti. È importante che parte del tempo liberato sia destinato a imparare, a scoprire il web, moduli di formazione a distanza, ad aggiornarvi, a fare community. Per il resto, tante coccole e gentilezze a chi divide l’appartamento con voi.

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Se pensate che queste riflessioni possano essere utili a qualcuno, condividetele.
Se avete commenti, punti da aggiungere o vostre esperienze da raccontare, lasciatemi un commento qualche riga sotto.

sabato 25 gennaio 2020

"La società signorile di massa", di Luca Ricolfi - recensione e qualche dubbio.


La società signorile di massa” di Luca Ricolfi è il libro del momento. Lo leggono è discutono amici e colleghi. Molti di loro me ne hanno parlato con punte inedite di ammirazione per le riflessioni che presenta sull’Italia. Per tutti, me compreso, si tratta di un punto di vista originale sull'economia e sui comportamenti che da essa discendono.
Tutto questo ha giustificato in me la scelta di investire i 18 euro del prezzo di copertina.
Letto e masticato per bene. Appunti, post-it, scritte a margine per fissare le idee.  

L’assunto del libro è che: siamo in una società dove la maggioranza non lavora; tra quelli che lavorano c’è una bella fetta di para-schiavi che consentono agli altri (la maggioranza) di fare i signori vivendo poco di lavoro e molto di rendita; l’accesso a consumi opulenti e non necessari è diventato di massa. E la cosa non può durare più di una generazione o due, poi ci sarà il tracollo.

I giovani fotografati da Ricolfi – spesso figli unici - sono destinatari del patrimonio delle famiglie e se scelgono di non fare niente di produttivo è perché si sono fatti bene i loro conti: "fino a trent'anni traccheggio e poi eredito il bottino."
L’alluvione di dati del libro si sposa spesso con opinioni personali da nonno davanti al caminetto. Che diventa autoindulgente verso la ‘vera’ elite, la società signorile e non di massa, che lui vede (senza portare dati) come quasi ascetica e fuori dal coro e non cafona e sbulaccona come appare davanti al mio caminetto.

Il fondamento che in Italia lavori meno del 50% delle persone abili è un po' buttato lì (e contraddice il 58% di molte statistiche, comunque basso) e dimentica la stima che il lavoro nero pesi tra i 2 e i 3 milioni di teste (tra 7 e 10 %).
L'analisi su come stiamo messi male di Ricolfi tralascia del tutto che la condizione italiana ci porta ad avere un livello di aspettativa di vita tra i più alti del mondo e un tasso di suicidi tra i più bassi; che tutti i reati solo in calo da molto tempo; sussurra solo che abbiamo una bilancia commerciale in forte attivo.

Ricolfi considera la velocità di cambiamento del contesto una questione accessoria, non una concausa. Molti altri ritengono sia una delle variabili che maggiormente condizionano la crisi della scuola, dell’università, del sindacato e del mondo del lavoro in genere.
Lui elude ogni considerazione sulle piattaforme digitali che hanno stravolto dinamiche di relazione, di reputazione, di partenariato, di organizzazione. 
Arriva fin a criticare duramente la scelta di alcuni farsi un ‘anno sabatico’ dopo le superiori per capire il mondo e scegliere con più criterio la propria via (consuetudine anglosassone che lui ignora pur esaltando le doti pragmatiche e protestanti).
  
Imbarazzante la sua leggerezza e lontananza dal reale quando afferma, chissà con quali dati che “Ieri si leggevano i libri, oggi si va alle fiere per veder parlare l’autore. Assai più gratificante che stare a casa da soli, a leggere”.  

Mi trova sul pezzo quando si incaponisce sulla follia che le spese in gioco d’azzardo valgano quanto la spesa sanitaria (circa 110 miliardi annui), è però un po' colpevole di leggerezza quando non dice che oltre 80 miliardi rientrano in vincite ai giocatori stessi. 

Forse il passaggio dove manifesta maggiore pigrizia intellettuale è dove arriva a criticare la recente propensione all’uso piuttosto che al possesso quasi essa sia un limite e non una risorsa, sia in termini di reddito che di relazione. Quasi non sia un modello di crescita culturale responsabile e auspicabile. La variabile ambientale la evita e canzona alquanto chi magari sceglie il bio, la riduzione del superfluo, la sostenibilità. 

Non sopporta proprio che molti italiani facciano movimento, vadano in palestra e simili, vedendo ciò solo come spesa superflua e non come un vantaggio per il corpo, per lo spirito e per le casse della sanità pubblica.

L’impressione generale è che il Ricolfi sia partito da una sua teoria sull’Italia e abbia scelto con cura dati e percorsi utili a dimostrarne la validità. Questa manipolazione è ben fatta e spesso contiene anche guizzi originali. Non ci sono tuttavia elementi sufficienti a confermare che quello che afferma sia vero, inquadri il reale, soprattutto vada in profondità nel cogliere i bisogni su cui progettare soluzioni.

Riprende molti dei concetti già trattati da Bauman con ben altro spessore, e riconduce la vita senza progetti, l’immediatezza del vivere a questo suo concetto di società signorile di massa, senza nulla concedere a temi più profondi come l’incertezza, la paura.
Tocca, ma sempre di striscio, quasi non voglia sporcarsi la penna, il tema del cattolicesimo come limite all’ambizione personale, alla meritocrazia, come la confessione e l’assoluzione siano una bella comodità in caso di evasione fiscale o altre cosette del genere.
Non si pone la questione di un paese per un terzo in mano alla criminalità e del suo impatto reale sul sistema complessivo e sulla politica. La sua analisi delle relazioni Nord – Sud del paese è ipersemplicistica e datata: sud fannullone e dove si regalano i voti a scuola, nord operoso. 'ndrangheta e mafie non pervenute.  

L’impressione forte è che i 70 anni dell’autore lo portino già in una dimensione nostalgica di chi guarda al passato autoassolvedo la propria  generazione. Un passato dove studiavano in pochissimi, si viveva meno e male, le donne e le minoranza stavano al palo della vita, l'elite passeggiava in alpeggio, la fame spigeva all'azione e il ricordo della guerra determinava le decisioni. Mi ricorda in molti passaggi l’abbaglio di un altro libro discutibile, “Gli sdraiati” di Michele Serra di qualche anno fa, che ufficialmente raccontava di un giovane  demotivato e quasi alieno, nel concreto, parlava di un padre che aveva fallito in pieno la sua missione genitoriale.

Insomma, Ricolfi dice che siamo una società signorile di massa e la prima cosa che mi viene in mente alla fine della lettura è : “Mbè? Dimmi qualcosa di utile o ridammi i miei 18 euro.”

martedì 24 dicembre 2019

Di povertà vorrei parlare…

Oltre venticinque anni fa ho iniziato ad occuparmi di progetti e strumenti per la lotta alla disoccupazione. Una dozzina di anni fa mi sono allargato al tema della creazione di lavoro e alle nuove professioni, al recupero spazi e alle nuove economie. Poi mi sono concentrato sul lavoro  le competenze in ambito culturale, anche con progetti specifici di sviluppo territoriale.
Poi nuovi percorsi, forse logici ma anche inaspettati, da quasi un anno  mi hanno portato ad un impegno professionale nel campo della lotta alla povertà.

Ne parlo poco, pochissimo. È la prima volta che lo faccio sul web e sui social media. Il Natale  e la voglia di condividere le opinioni con chi mi segue su questo blog, mi spinge a fare qualche considerazione.
Dopo un anno di lavoro, nella testa si mischiano visi, statistiche impietose, storie di vita, la disperazione delle famiglie, i raggi di speranza per alcuni, e lo scoramento di operatori bravissimi chiamati sempre a svuotare l’oceano con un cucchiaio.
Se contabilizzo con la mente i miliardi spesi per lo scopo e provo a coglierne gli impatti scarto la retorica, scelgo la pragmaticità. Perchè se ne parla e scrive troppo poco.

Il 2019 è stato l’anno del Reddito di Cittadinanza, l’affermazione di un nuovo diritto e del concetto che in una comunità la fratellanza è pilastro di democrazia e include il sostegno  nelle situazioni più disperate. La svolta legislativa è stata epocale

Sì, il sistema era impreparato a uno strumento così ampio e complesso: servizi non all’altezza, software inesistenti, procedure da progettare, leggi e decreti da scrivere, scollamento tra le amministrazioni, operatori travolti dall’incertezza e dall’utenza. Una politica più saggia avrebbe dovuto immaginare 12-18 mesi per organizzarsi. La situazione è in evoluzione, tanto è stato costruito e tanto si sta facendo. Occorre guardare al futuro e apprezzare una base giuridica che non c’era e le opportunità che stanno sviluppandosi. Eccoci allora qua, impegnati a trasformare un magma di casi ed eccezioni in un sistema di supporto ai cittadini, dando del nostro meglio. Tra un anno, ci rivedremo qui per i primi veri bilanci.

Alcune cose le ho imparate velocemente.

Lavorando sulla povertà e sull’esclusione sociale ho compreso come la povertà educativa sia la radice da estirpare. Ragazzi e ragazze che non studiano non hanno chance contro l’esclusione. Quando incontro ventenni inchiodati al dialetto e a solo duemila parole in italiano vedo i loro percorsi in caduta libera. Comprendi subito come la licenza superiore sia il minimo per galleggiare, e a essa andrebbe accompagnata da forme di educazione non formale che passino attraverso lo sport, i gruppi giovanili, la possibilità di viaggiare e magari padroneggiare un’altra lingua.  Miliardi di euro e nuovi approcci vanno calati sul sistema scolastico e sui servizi di supporto alle famiglie.

La seconda componente maligna della povertà è la solitudine. La povertà relazionale è estremizzata nei cittadini senza dimora ma è trasversale a tante categorie, accentuata dopo i 50 anni. È la dimensione in cui ci si arrende, non si ha nessuno per cui impegnarsi, con cui condividere sforzi, sconfitte e successi, e allora, tanto vale, lasciarsi andare.  Lo so, non puoi obbligare a nessuno di socializzare, a curarsi, però puoi agevolarlo. Possono farlo architetti e urbanisti a cui si dia tale mandato nei loro progetti per città, quartieri e aree interne, possono aiutare animatori e artisti sociali. Anche la banda larga e l’educazione digitale sono utili allo scopo.

Il fantasma che ogni tanto intravedo è quello della povertà provocata e dunque evitabile. La percepisci nelle regioni in mano alla criminalità, dove il povero è utile, è manovalanza, è docile, è la piattaforma su cui accumulare ricchezza. Dove le componenti di ignoranza, lavoro nero e solitudine sono al servizio di un disegno più grande che giustifica a ricchezza di pochi sulle spalle dei molti.  

In quest’anno ho imparato che la povertà è un fattore complesso (‘multidimensionale’ dicono i tecnici) e la lotta al fenomeno soffre di semplificazione. È pilatesco affermare ‘basta dare un lavoro’, così come è una semplificazione l’idea che esistano soluzioni valide per tutti. I percorsi hanno senso quando sono individuali, sono lunghi, passano per il recupero della legalità, della speranza, dei fondamentali del vivere civile.

giovedì 1 agosto 2019

Formarsi per trasformarsi. Riflessioni di un docente alla vigilia delle ferie.


Nell’ultimo anno ho fatto almeno 80 giornate di formazione (sono un’enormità e prometto a me stesso che non lo farò mai più). La bellezza della formazione è che consente di entrare in relazione con le persone in un momento cruciale della vita: quello dello sviluppo professionale.
Sono tutti corsi per adulti. Possono essere partecipanti a master, occupati e disoccupati di ogni età in corsi finanziati dalla UE, manager privati, direttori di musei o biblioteche.

Quello che accomuna gran parte di loro è il disorientamento. Come se la velocità a cui si muove il contesto paralizzi la capacità di muoversi senza punti di riferimento; l’assenza di certezze impedisca di tracciare rotte; l’ansia che vedono negli occhi dei genitori o dei partner diventi il fantasma che li impantana se stanno per accelerare.

Incontro spesso talenti formidabili che non hanno mai potuto verificare nel concreto l’utilità di ciò che saprebbero fare. Da parte dei più giovani osservo una profonda critica ai programmi universitari ritenuti obsoleti se non proprio campati in aria.
Io non sono un accademico. Adoro l’aula ma ho bisogno di ‘fare cose’, impastarmi col reale, confrontarle con l’ottimo e i mediocre, elaborarne l’efficacia. Poi, se ho imparato qualcosa, trasformo tutto ciò in un’attività d’aula. Mi appassiona e diverte anche e spero che ciò mi renda un apprezzabile formatore.

Ogni tanto ecco quello/quella (più spesso è donna) che si incaponisce su un’idea e vuole fortemente realizzarla. Spunta il ‘progettino’ che sgomita per prendere forma e perdere il diminutivo. Quando ci riesce, lo sguardo di chi immagina il futuro è diverso: chiede e libera energie. Ci sono casi in cui questo miracolo avviene addirittura durante il corso e allora nasce una contaminazione positiva con gli altri partecipanti, i talentuosi e indecisi che scoprono come si possa osare. Il progetto allora diventa più di uno, alcuni si fondono, si scontrano, si arricchiscono a vicenda. Tutti imparano e si trasformano.

Sullo sfondo, gli enti di formazione: tolte brllanti eccezioni, soffrono la pesantezza burocratica, la difficoltà a interpretare il contesto, faticano a dare senso ai loro corsi, anche perchè quasi mai conoscono davvero i corsisti, raramente interagiscono con i docenti, tantomeno li coordinano. Fanno un lavoro per cui occorre una vocazione ma raramente riescono a vedersi come tali. Anche se formare gli enti formatori è un po' come spingere gli spingitori di guzzantiana memoria, dovrebbe essere fatto.

So che molti dei partecipanti alle mie aule leggeranno questo post e non mi spiacerebbe confrontarmi ancora con loro su questi temi.

mercoledì 15 maggio 2019

Il Salone del Libro di Torino per chi non c’era: dalla A alla Z


  •  A – Alberto Angela, presidente del consiglio dei saggi per acclamazione, atteso da una fila immensa. Evocato già dai perquisitori (quelli che all’ingresso ti tolgono le bottiglie d’acqua perché tu possa comprare l’acqua nei bar interni). Sbrilluccicante negli occhi glitterati delle signore phonate. Santo subito.
  • B – Bella Ciao, password popolare che apriva l’accesso alle teste altrimenti rinchiuse nella paura di un forte fascismo percepito. Era scritta sulle spilline indossate dagli editori, appesa agli stand, fischiettata nei bagni e nei corridoi. Mi son svegliato.
  • C – Code, una costante nel paesaggio. Migliaia di bipedi disposti a aspettare per ore in coda la presentazione di Salinger Jr., la dichiarazione di Saviano, la battuta di Pannofino. Code per mangiare, pisciare, pagare. Code.
  • D – Disegnetto, è il miglior modo di vendere libri se fai l’illustratore. Vati del gesto creativo seriale sono Zerocalcare, per avere il di cui disegno su un di cui libro occorreva prendere il numero e attendere qualche ora peggio che allo sportello Equitalia, e Leo Ortolani che invece amava veder la fila davanti a sé; fila così lunga da favorire la nascita di amicizie e amori.  
  • E – Ebook, scomparsi dai radar, schifati dal mercato, hackerati come avenger, sopportati da pochi editori, espulsi da altri. Nessuna traccia, nessuna convenienza. Fino ad alcune case editrici serie che, se proprio lo scrittore vuole, gli fanno l’ebook se se lo paga lui.
  • F – Fascismo, respinto, rimbalzato, esorcizzato, schiacciato da pile di libri e da suole inarrestabili, soprattutto da idee e buon senso che nel salone esondavano fluenti. Chi aveva pubblicato anche solo la biografia del nonno nato in quel periodo la esponeva come feticcio e parafulmine. La forza delle idee vs. la forza  contro le idee.
  • G – Giovani. Tanti, ovunque, in parte scarrozzati da professori, in parte impegnati in progetti di alternanza scuola/lavoro centrati sull’intervistare, scrivere, creare, gestire. Tanta curiosità esibita. Alla ricerca di voci sintonizzate sulle loro orecchie, e di orecchie sintonizzate sulle loro voci, che sono poche.
  • H – Haiaiai a chi pensava di trovare un posto comodo e democratico dove ricaricare il telefonino…
  • I – Ipocrisia. Un mare di editori a pagamento che nel Salone esibiscono verginità e serietà a danno degli allocchi. Stand enormi di sigle neppure distribuite in libreria. Robe così.
  • L – Libraccio. Un enorme stand del Libraccio che stravende testi scontati di un po’ tutti, di molti marchi presenti. Code alle casse. Migliaia in cerca dello sconto con gli editori lì accanto che fanno la fame con gli stessi volumi a prezzo pieno. Toglietelo di mezzo! È concorrenza scorretta, non vi pare? E abbassa di molto la percezione del valore dei testi. Un brutto spettacolo.    
  • M – Mangiare, code infinite e qualità da luna park di provincia. Hot dog, hamburger, pizza molliccia. Al Salone è meglio nutrire l’anima.
  • N – Novità, tante e varie.
  • O – Ohhh, facevano tutti davanti all’enorme cilindro di libri altro oltre 10 metri
  • P – Podcast, diversi gli stand interessanti che cercano di trovare la via italiana al podcast. Da Amazon a Storielibere.fm, in diversi fanno capolino in un mercato che trova molte delle sue ragioni nell’invecchiamento della popolazione, nella pigrizia dei lettori, nella diffusione dell’uso degli auricolari, nella qualità dei nuovi prodotti, nei nuovi home assistant (“Alexa leggimi 50 Sfumature di”). Da tenere sott’occhio.  
  • Q – Quando non ne potevo più di stare in piedi mi sono infilato in uno stuzzicante confronto sul western italiano da Tex a Red Redemption 2, da trame elementari a narrative non lineari. Per nerd della scrittura.
  • R – Regioni, hanno fatto i loro stand, molti grandi e grossi, e costosi. Luoghi senz’anima con l’attrattività di una bancarella bulgara di merce contraffatta nella periferia di Stoccarda. Puglia, Marche, Calabria, Sardegna, con libri dal valore dubbio  e la qualità risibile appoggiati su banconi, oscuri funzionari leggenti al massimo gruppi su whatsapp. Da evitare.
  • S – Spritz. Lo stand dello spritz molto pop e gettonato a tutte le ore. 5 euro per gradire. Intellettuali alticci, inebriati dall’arancione. Poco ‘Hare Krishna’, molto ‘... e dove ceniamo stasera?’
  • T – Torino, splendente ed efficiente, che ci ha stupito con la nuova passerella che collega Stazione Lingotto direttamente col Salone. Così si fa.
  • U – Undici i libri che mi sono comprato con la complicità del POS presente in ogni stand, tra cui: “Viviamo in acqua” di J. Walter e “Doppler – la vita con l’alce” di E. Loe di cui non sapevo nulla e contino a non sapere nulla, acquistati solo perché passavo di lì e gli editori sono stati convincenti
  • V – Visitatori. Tanti tantissimi, eterogenei, hipster e nonne, sognatori e fan, aspiranti qualsiasicosa, lettori incalliti e perdigiorno. Continuiamo così, facciamoci del bene.
  • Y – Youtuber, editori di grandi dimensioni che raddrizzano i bilanci con improbabili biografie di sedicenni spettinati che raccontano l’ombelico a una generazione che non ha occhi per vedere la luna. Giovani creature figlie di un’altra generazione che li ha convinti che mai andranno sulla luna, perché neppure esiste ed è stata messa lassù da Photoshop.
  • Z – Zero scuse: leggere fa bene a tutto.


mercoledì 1 maggio 2019

Il Lavoro e il Non Lavoro.


La prendo da lontano… non mi faccio mai consegnare cibo a casa quindi mi sfilo dal dibattito sulle mance ai fattorini di pizze-sushi-hamburger e simili. Non lo faccio perché quei ragazzi mi fanno pena quando li vedo pedalare, e perché in casa amo cucinare. Fanno un lavoro che non può essere sostenibile, gli toglie energia e svuota di senso il lavoro stesso: il valore della merce in ogni viaggio è troppo basso per giustificare il valore aggiunto dal costo della consegna. È una presa in giro, come i tirocini infiniti, i periodi di prova senza termine, il ricatto del ‘fai un lavoro che ti piace… vuoi pure essere pagato il giusto?’  

Conosco abbastanza quei ragazzi, il labirinto in cui si trovano, la disillusione e la rabbia di alcuni. Li incontro  in molti corsi dove insegno. Tra loro non mancano i talenti, parlano tre o più lingue, sono persone quadrate e motivate a cui non viene data la fiducia, l’occasione, la possibilità di sbagliare. In tanti, tantissimi, lavoricchiano spesso in nero, mixano passioni e necessità nel disorientamento complessivo. Molti rischiano di arrendersi ad un eterna attesa coltivata nel rancore, di macerarsi nell’irrilevanza, di rassegnarsi a pedalare come criceti nella ruota, a non strutturare le loro conoscenze in competenze reali e spendibili sul mercato.

Io vivo del mio lavoro – sempre da immaginare, trovare, svolgere, mese dopo mese, nell’incertezza del presente e nella visione di futuri utili e probabili – e gran parte del mio è sviluppare lavoro e opportunità per altri.
Nei miei progetti col pubblico e il privato vedo le potenzialità dei singoli e la disorganizzazione del sistema complessivo che non crea occasioni, benessere e occupabilità.

Mancano servizi adeguati, banche dati di riferimento, marketing territoriale, conoscenza dei bisogni e  visone generale. Mancano perchè non interessano. Nessuno è pagato e motivato a raggiungere obiettivi reali. I tempi degli interventi rispondono a tempi anni ’80 in cui il contesto consentiva piani quinquennali, incongrui con la velocità dell’oggi.  

Manca il coraggio di sperimentare soluzioni, valutare gli impatti delle politiche, misurare l’efficacia della Pubblica Amministrazione. 
Si crede che il lavoro nero sia inevitabile, che l’illegalità sia congenita e necessaria, che in fondo aiuti gli ultimi a metterci una pezza, quando invece non fa altro che irrobustire la gabbia in cui sono rinchiusi e annullare in partenza il percorso degli imprenditori che vorrebbero operare in regola, creare valore collettivo, assumere e formare.

Credo che l’Europa, come luogo politico e geografico, ci possa aiutare molto nel cammino necessario per dare forma e efficacia al nostro mercato del lavoro. Non parlo di Fondi, quelli già presenti abbondanti e spesso spesi male in molte regioni, ma nella forma mentis, nella creazione di opportunità, nel lavoro per obiettivi, nella dotazione tecnologica, nella riduzione del digital gap e dell'analfabetismo funzionale che sta rallentando ogni reale ipotesi di sviluppo. Anche questa è una ragione profonda per andare a votare a fine mese.