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venerdì 23 gennaio 2015

Se mia figlia partisse per portare aiuto ai profughi di Kobane.

La vicenda delle due volontarie italiane rapite in Siria e poi rilasciate dopo mesi mi porta naturalmente a pensare cosa avrei fatto/ detto/ pensato nei panni dei genitori delle ragazze prima, durante e dopo la prigionia. La stessa riflessione la farei come ipotetico padre di chi a vent’anni parte per andare a aiutare la ricostruzione in Palestina, a assistere i malati in Guinea, a costruire socialità a Rosarno, a educare bambini in Pakistan.
Mi chiedo cosa farei come genitore messo di fronte a decisioni così importanti e radicali da parte di figli appena maggiorenni. Prevarrebbe in me il “Te lo proibisco!”, meccanismo di difesa della famiglia patriarcale? Oppure direi “Decidi tu, la vita ormai è tutta tua”? Tenterei il ricatto affettivo? Sfodererei la logica cinica del “E’ una cazzata, pensa al tuo futuro, non ne vale la pena”? O insinuerei l’opportunista “Li puoi aiutare di più stando a casa e impegnandoti nel tuo quotidiano a  migliorare il mondo”?

Quel giorno spero di poter avere davanti una persona capace di esercitare spirito critico e prendersi responsabilità. Sul resto non credo di aver diritti né poteri.
Questo mi deve bastare, a questo voglio lavorare finché lei è ancora piccola. 
Perché a vent’anni sono degli adulti, devono essere degli adulti, altrimenti saranno già fottuti dalla vita. Magari sono degli Adulti Inesperti, ma questo – vista la velocità del cambiamento - in qualche misura è vero per tutti sino alla fine della vita.
Perché poi alla domanda “Serve qualcuno che si impegni in Palestina, a Rosarno, nelle favelas?”, la mia risposta è sì. 
Impedire che ci vada una persona cara diventa allora solo ipocrisia. 
Io non ci andrò mai lo so bene; chi lo fa, lo fa anche in mio nome, anche quando sbaglia, perché io non lo saprei fare meglio. 
Allora il minimo che devo accettare, direi quasi pretendere, è che le tasse che pago contribuiscano ai loro progetti, di certo più sensati che quelli militareschi (e ingenui) della Guerra tra Civiltà  che serve a distrarci dalla Guerra tra Ricchi e Poveri che poi è l’unica davvero in atto. E – se mai davvero servisse – le mie tasse voglio che servano anche a pagare i loro riscatti per riportarli a casa.  

Per ragioni lavorative incontro molti giovani cittadini che non si pongono alcuna prospettiva che vada oltre alla sala Scommesse, allo shopping sul Corso, che protraggono la loro condizione di post adolescenti fino a età imbarazzanti, anche oltre i 30 anni. Stanno lì, già delusi dalla vita, demotivati, giustificati da alibi che la famiglia e i media forniscono a buon mercato, parcheggiati in un eterno presente dal quale pretendono benessere senza dare nulla, del quale si lamentano senza proporre alcunché. Poi ne incontro altri, più tormentati, consci della trappola in cui si sono cacciati, che si muovono in molte direzioni alla ricerca di quella linea d’ombra che li separa dall’età adulta e che nel ‘fare qualcosa per gli altri’ trovano le ragioni per cui occorre ripensare se stessi, studiare, sperimentare.


Come padre credo che il mio mandato sia quello di fare sì che mia figlia a vent’anni non sia parcheggiata nel presente. Che prima di partire per qualsiasi avventura di vita sia preparata, motivata e vocata. Una volta attivata in lei questa forma di impegno e libertà toccherà sempre a lei decidere.
Io potrò dialogare con lei in modo credibile se io per primo sarò impegnato anche a 60 anni di incidere sulla realtà che mi circonda, altrimenti sarà meglio tacere e limitarsi a pagare le tasse.

giovedì 8 gennaio 2015

Il coraggio di riuscire a tenere la penna sempre carica

L’atroce attacco alla redazione di Charlie Hebdo contrapppone ancora una volta il potere del libero arbitrio, della libertà di coscienza e di parola nel mettere a nudo le ridicole inconsistenze dei governi e delle religioni con la forza delle armi e dell'intolleranza. 
L’informazione, la satira, la letteratura, l'educazione diventano così i nemici naturali di terroristi e tiranni perché pongono domande, aprono mondi possibili, rintuzzano la retorica dell’ufficialità, asfaltano le sceneggiate dei talk show, svelano i pulpiti di cartapesta.  


Ci siamo malamente assuefatti, considerandoli inevitabili, alle vite braccate di Roberto Saviano e Salman Rushdie e di molti giornalisti italiani che vivono sotto scorta. Facciamo finta di non cogliere come molti autori si autocensurino per vivacchiare come meglio possono (mi viene in mente Pamuk in Turchia).
La forza dell'informazione e della creazione artistica spaventa. È di qualche giorno fa l’attacco della Corea del Nord contro un filmetto fracassone prodotto dalla Sony che come effetto collaterale ha già portato alla cancellazione della produzione del film tratto dallo splendido fumetto “Pyongyang” di Guy Delisle. 
Al Cairo ci sono in questo periodo 3 giornalisti di Al Jazeera sotto processo per aver osato raccontare da un punto di vista non autorizzato i fatti della Primavera Araba. Nel loro caso, forse maggiore indignazione  e proteste da parte di tutti avrebbero davvero aiutato perché, lo sa bene Boffo che fu cacciato da Avvenire per aver messo in difficoltà il patto tra Vaticano e Berlusconi, l’onesta intellettuale esercitata verso la propria parte è tra le più difficili da sostenere.

Ancora oggi sento dentro di me il vuoto di opinioni e alla conoscenza che la mancata copertura mediatica alla guerra del Golfo e a quella in Afghanistan ha provocato in tutti noi grazie alla bella invenzione americana dei giornalisti embedded, pecorelle ammaestrate e nutrite a comunicati stampa del Pentagono. Una invenzione che quelli dell’ISIS hanno ripreso e migliorato con l’ostaggio-giornalista John Cantlie che per sopravvivere declama su Youtube la gloria e le ragioni deliranti dei fanatici combattenti.
Intimorendo la stampa, i terroristi (e i potenti) ci impoveriscono laddove sono le basi del nostro essere: nella capacità di discernimento e giudizio, e dunque nella nostra capacità di comprensione del mondo che ci circonda.

Mi irrita allora la vuotezza di quasi tutta la stampa televisiva autocensurata, afona di vere domande e contraddittori, avvezza all’inchino e alla confidenza verso chi dovrebbe invece tallonare, mettere in imbarazzo. 
Prima di arruffianarsi i lettori e gli spettatori con i loro "Je suis Charlie", le nostre testate dovrebbero ripetere che siamo 49vesimi nella classifica internazionale sulla libertà di stampa e sono pochi gli sforzi perché il 52% degli italiani che non legge neppure un libro all’anno esca dal girone degli ignavi. Faccio qui notare come l’ultimo oggetto editoriale paragonabile a Charlie Hebdo visto sul pianeta italico sia stato Cuore, chiuso nel 1996.
Per ogni Gabbanelli o Michele Albanese (giornalista sotto scorta de Il Quotidiano del Sud) ci sono intere redazioni che hanno come unica missione compiacere i potenti e intorbidire le acque.

D’altronde, anche per i migliori, è difficile appassionare, far indignare e riflettere dei lettori quando gli stessi non sono più geneticamente capaci di vergognarsi. 
L’unico vero successo raggiunto da Craxi e dal suo amico Berlusconi è stato quello di aver sdoganato, con la compiacenza della Chiesa, il “Se lo fanno tutti non è peccato” come primo comandamento tatuato nella coscienza collettiva.
Però se non mi vergogno non mi indigno. Se non mi indigno non mi interessa capire la realtà ma solo possedere opinioni semplici e categoriche, divertirmi e ‘vivere esperienze’. Se non mi interessa capire non mi riguarda la libertà di stampa e sono interessato solo alla parte gossippara del mondo che photoshoppa il reale per aumentarne la brillantezza e esclude le tristezze delle minoranze e degli esuli, gli interessi dei bambini e degli anziani, le guerre lontane, le epidemie, gli intrallazzi delle multinazionali e dei politici fuori controllo.


Ecco allora che l’empatia diffusa scatta verso l’evasore fiscale, il trombatore senile, il truffatore simpatico, il politico ladro dalla lacrima facile, soprattutto  verso chi ha un posto in prima serata e non se lo merita perchè così la mia empatia diventi presto invidia e possibile immedesimazione.
E se oggi sono Charlie, domani sarò facilmente Brad e dopodomani Matteo e non mi interesserà se qualche giornalista impugna la sua penna per difendere davvero la civiltà e la democrazia, e magari dimostra pure che il mio re è nudo, avvelenatore e armato… perché tanto - si sa - i giornali, sono tutti uguali, prezzolati e pieni di bugie.  

giovedì 1 gennaio 2015

Rispetto per le minoranze, considerandole un valore per tutti: secondo desiderio per il 2015

Lo ammetto, non mi sento parte di nessuna minoranza etnica, religiosa, sessuale o linguistica e dunque potrei fregarmene ma sento il mancato rispetto per una ‘categoria’ di persone come un’aggravante alla mancanza all’oltraggio fatto ai singoli. Poi, se le persone sono più felici, le cose funzionano meglio, tutti lavoriamo con maggiore passione, si produce qualità della vita e essere italiano diventa facilmente motivo di orgoglio e non l’anticamera per l’emigrazione.
Metto dunque il rispetto e la valorizzazione delle minoranze nei miei desideri per il 2015.

Nel concreto, alcuni esempi che non esauriscono di certo il tema:
  1. Una moschea in ogni provincia (almeno). Trovo incivile che in tutta Italia esistano solo 8 moschee (di cui 4 aperte nel 2013). È vero, esiste una sostanziale libertà di culto ma il culto senza i suoi luoghi è destinato alle rivendicazioni. I mussulmani sono circa 1,5 milioni e l’ingiustizia mi pare evidente. Per iniziare, credo che andrebbe reso obbligatorio alle Amministrazioni la costruzione di una moschea ogni provincia. I fondi possono venire dall’8 per mille, da oneri di urbanizzazione o anche dal bilancio.
  2. Una politica di buon senso con i rom. Sapete quanti sono i rom in Italia? Circa 150.000, diciamo lo 0,25% della popolazione. Tra questi, vive nei campi circa un quarto. Se sono percepiti come un ‘problema’ vuol dire che in molti desiderano che siano tali, che siano capri espiatori, che diventino fonte di lucro. Mi indigna non vedere una politica di lungo termine, definita con i rom, volta a aumentarne la qualità della vita con percorsi stabili di educazione alla cittadinanza, inclusione socio lavorativa, stabilizzazione dei giovani nei percorsi scolastici, valorizzazione del bilinguismo. E, in parallelo, percorsi di lotta al pregiudizio che coinvolgano anche me.
  3. Legittimazione dei matrimoni gay. Credo che il Paese sia pronto a riconoscere agli omosessuali un diritto che deve essere di tutti. Stiamo parlando di oltre 2 milioni di persone senza colpa né malattia che non possono essere se stesse. La mancanza dei matrimoni gay nel nostro ordinamento, oltre a rendere poco attraente l’Italia per il 5% circa della popolazione mondiale,  è una grande perdita per tutti perché la felicità dei singoli genera valore per la comunità.  
  4. Un futuro ai lavoratori precari. Nella discussione politica e sindacale, quella deiprecari è percepita come una minoranza: e di questo politica e sindacato pagheranno pegno.  È una minoranza mediatica che è maggioranza nel mercato del lavoro. Sono tanti singoli che non hanno tempo per lottare perché devono lavorare. Sono milioni di lavoratori che si arrabattano con una flessibilità circense e - anche quando riescono a pagare l’affitto - hanno la certezza di non poter arrivare a una pensione decorosa. Tengono in piedi il sistema pubblico, il welfare, molti servizi educativi, la produzione di cultura e i servizi alle persone. La prima cosa da fare sarebbe riequilibrare il divario di tutele e di ricchezza che hanno dai lavoratori garantiti, specialmente nel Pubblico Impiego. 
In questo mio desiderio non sono né particolarmente altruista, né troppo sognatore, vedo che c'è spazio per tutti, per le nostre diversità, per la ricchezza che ogni persona porta con sé, e odio l'idea che vada sprecata nella solitudine, nel rimpianto o nel rancore. 


lunedì 22 dicembre 2014

Smettiamola di dare sempre la colpa all’arbitro: primo desiderio per il 2015

Per i pochi non interessati al calcio, come il sottoscritto, ogni settimana è diventato monotono osservare le contumelie da parte di mezzo web contro gli arbitri che avrebbero favorito la Juventus.
Se poi vivete a Roma come me fa specie vedere come di questo si lamentino con forza i romanisti, mentre tutti gli altri webnauti del resto d’Italia si lamentino di come gli arbitri favoriscano la Roma. Non parliamo di come i genoani vedano favorita la Sampdoria e i doriani il Genoa.
Se avete amici che fanno gli insegnanti, vi racconteranno di come oggi di qualsiasi responsabilità  imputabile a uno studente, incluso aver bruciato il banco o essersi rollato uno spinello nel bagno, diventi colpa degli insegnanti e del sistema scolastico con le famiglie schierate compatte a difendere lo sciamannato figlio proprio invece che dargli pene necessarie per la comprensione misfatto.
Sono inoltre un po’ scocciato dal constatare come in caso di catastrofi causate dall’incuria e avidità dell’uomo come le alluvioni, gli incendi, gli smottamenti, si pensi a attaccare solo le istituzioni (che non hanno fatto controlli e pulito dai frigoriferi abbandonati gli alvei dei fiumi) e mai censurae i propri comportamenti.
Il massimo avviene poi con l’Europa: diventa colpa dell’Europa se non siamo capaci a spendere i soldi europei, se da mezzo mondo ci rimproverano il nostro pressapochismo e inaffidabilità, se le banche non ci fanno prestito, se i giovani se ne vanno.

La colpa delle nostre inettitudini è sempre prima di tutto dell’arbitro, di chi chiede il rispetto delle regole, dello specchio che ci mostra incapaci ai nostri stessi occhi e dunque ci fa arrabbiare e negare l’esistenza del problema o sostenere che non sussiste perché ‘lo fanno tutti’.

Ecco, per il 2015 desidero che in questo Paese, a partire da me, ci si fermi a contare fino a 100 prima di dare la colpa della nostra immaturità a chi le regole deve farle rispettare .

mercoledì 17 dicembre 2014

Cosa vedo nascere in questo Natale

Mi piace il Natale con la sua atmosfera  allegra. Non mi interessa molto la sua dimensione religiosa, sono però toccato dalla celebrazione di una nascita. Come ogni nascita proietta la mia attenzione al futuro. Lo so, c’è tanta morte attorno, la vedo bene, però in queste settimane voglio provare a stupirmi di quanti fenomeni nascenti stiano modificando la mia vita, la società attorno a me, i mercati, le comunità. 
Provo a metterli in fila:
  • Sui muri delle città si diffonde una nuova forma di arte popolare: mi riferisco ai murales, forme di espressione artistica  e narrazione di grande forza, in grado di cambiare l’autopercezione delle periferie, di  attrarre nuovi turismi, di raccontare le storie di zone che hanno perso le radici col passato. Non sono nuovi ma è diverso il modo in cui vengono pensati, guardati, adottati dai quartieri come schegge di bellezza democratica. Se passate per Roma, potete capirmi se andate in giro per quelle gallerie diffuse che sono il Quadraro con le sue viuzze, Ostiense dove ammirare la forza di Blu e Co. e Rebibbia col nuovo elefante di Zerocalcare
  • Tra le persone si sviluppano nuove forme di fiducia: il patto millenario tra Stato e cittadini è in pezzi. Lo scambio che prevedeva la cessione di potere in cambio di sicurezza è collassato nell’impossibilità di garantire sicurezze fisiche, lavorative, alimentari, economiche. La fiducia nelle istituzioni è al minimo. Per reazione si sviluppano nuove dinamiche di fiducia tra persone che, con un approccio quasi tribale, si rappropriano di spazi e poteri prima delegati. Le dinamiche sono molto legate al territorio ma, giovando della potenza della rete, si alimentano tra loro a migliaia di chilometri di distanza confrontando domande e scambiando soluzioni. Nascono dunque anche forme di fiducia e collaborazione tra sconosciuti.
  • Ecco allora la nascita di una economia collaborativa che muta alla radice gli assunti di quella capitalistica tradizionale basata sulla creazione del bisogno. Si tratta di processi, prodotto e servizi in cui il ‘possesso’ è legato ai tempi e alle necessità dell’ ‘uso’. Che si tratti di tempo, soldi, case, auto, trapani, banda larga il valore viene percepito attraverso la relazione, la reputazione, il risparmio di risorse, l’efficientamento dei processi. È un mondo dove si intravede cosa stiamo diventando, dove crescono nuovi consumatori che vogliono mettere voce in capitolo nei prodotti e servizi di cui sono destinatari.
  • Da qui la nascita di nuove competenze e professioni che facciano della dimensione social e collaborativa uno strumento di sviluppo volto a creare mercati più efficienti e consapevoli, che della potenza del codesign e della partecipazione fanno i loro. Si tratta di competenze umanistiche purtroppo ancora aliene al nostro sistema formativo, acquisibili spesso solo ‘sul campo’ nei luoghi e contesti in cui l’innovazione sociale si sviluppa. Perché l’innovazione abbia ricadute reali si sviluppa anche una nuova governance dell’apprendimento dove gli scambi di competenze avvengano in team, tra peer, e la cui certificazione stessa sia fatta da pari.
  • Vedo poi l’emergere con forza di una generazione nomade che segue le occasioni che portano qualità della vita, reddito e soddisfazioni. E' figlia dell'Erasmus, bramosa di futuro, competente, vogliosa di partecipare al banchetto ovunque sia servito. L’accelerazione che ho visto in questi ultimi due anni nella mobilità di singoli, famiglie, start up mi stupisce ancora. Non sono fughe ma  eplorazioni, sono inseguimenti a quella linea d’ombra che separa l’età adulta dall'eterno presente.

Insomma, per qualche giorno mi balocco con l’immagine di un bicchiere che se non è mezzo pieno contiene almeno qualche goccia di spumante di qualità capace di dare al 2015 speranza di frizzantezza.

Buone Feste e Buon 2015 a tutti voi!

mercoledì 12 novembre 2014

Quando l’Economia Collaborativa non genera collaborazione.

L’Economia Collaborativa non è più terreno di collaborazione quando la corsa al posizionamento dei suoi attori istituzionali scatena gomitate nella competizione per l’accesso ai nuovi fondi disponibili.

Non mi stupisco, non mi scandalizzo, disperde energie ma lo trovo fisiologico ma non riesco a esimermi dal commentarlo.

Chi sarebbero poi questi ‘Attori Istituzionali’ deputati a rappresentare la Sharing Economy? Qui viene il bello, pur non esistendo in natura nascono in questi giorni come funghi, uno dopo l’altro.

La filosofia alla base dell’innovazione sociale e dell’economia collaborativa porta soluzioni sostenibili a problemi concreti; soluzioni spesso diverse come sono diversi i territori e le comunità; esperienze dove il ‘fare’ vinca sempre sul ‘teorizzare’ e sul ‘mettere a sistema’.

Personalmente, nel 2011 ho cominciato a realizzare come la crisi stesse cambiando le persone e il loro ordine di valori e priorità e come l’unica via per uno sviluppo sostenibile sul lungo periodo fosse quella di perseguire strategie fondate sull’Innovazione Sociale in cui collaborazione e partecipazione creassero valore per i business come per i territori. Passavo ore nello studio dei casi, di riflessione sulle prime stentate applicazioni dell’idea. 
Poi alcuni amici mi hanno coinvolto nell’esperienza concreta dell'avvio di Impact Hub Roma che mi ha messo in contatto con nuovi modelli organizzativi, finanziari, produttivi sempre più aperti allo scambio e all’innovazione. 
Ho nel frattempo sperimentato la forza di logiche social e partecipative nelle mie attività quotidiane. Ho imparato sulla mia pelle che le ‘buone prassi’ non significano quasi nulla e che è importante invece coccolare e alimentare i ‘segnali deboli’ che arrivano.
L’impatto più forte che tutto ciò è stato sul mio lavoro, quello di sviluppo di progettazione di servizi per l’occupabilità e per lo sviluppo locale, ambiti che ho reindirizzato in una nuova prospettiva.

Ancora fino all’anno scorso ai rari eventi in materia di Economia Collaborativa, come la Smart City Exibition o la Oui Share Fest, cercavo segnali utili a ripensare il mio intervento e tra i pochi presenti con fatica si cercava di separare la lana dalla seta, la CSR dalla creazione di valore condiviso, il marketing dall’innovazione, costruendo anche una terminologia comune.
Da pochi mesi il fenomeno è esploso ed è un proliferare di eventi e convegni con panel professionali dove in migliaia vagano tra la ricerca dell’illuminazione e quella dell’informazione. 
Tutto è diventato Social Innovation e centinaia di persone e organizzazioni ti dicono che “loro la fanno da sempre” e che la loro è più “Innovation” di quella degli altri. Ci si accapiglia per decidere se quello che fanno gli altri è Sharing Economy o solo una furbata. 
C’è già chi è sul mercato per vendere a qualche migliaio di euro qualche “metodo” per fare innovazione sociale, chi promuove percorsi di cambiamento in 5 o 7 fasi che ricordano la fuffologia organizzata de La Profezia di Celestino. Dilagano i Summer Camp con le loro irritualità postideologiche organizzate che già sanno di nuovo conformismo.

I casi concreti, i successi e gli insuccessi reali latitano (o sono sempre gli stessi) e ho la sensazione che la loro iper esposizione mediatica rischi più che mai di soffocarli nella culla.
Ci sono poche idee in giro, poco coraggio e poca possibilità di pensare in grande. Nessuno misura impatti e sostenibilità delle azioni, nessuno protegge le creature neonate dalla furia dei monopolisti. 
I casi di vero successo non hanno forza per comunicarsi e chi ha denaro o contatti si accredita comunicando fumo al sapore di futuro. 
Per anni ho combattuto contro il “Modello danese” dei servizi per impiego ritenendolo impraticabile in Italia e già mi trovo a storcere il naso davanti a quello olandese sulla Sharing Economy (ma anche quello milanese o bolognese che perdono significato altrove).

Nessuno è però impazzito, il fenomeno è noto: è semplicemente nato un mercato.
Detto fuori metafora: ci sarà un botto di soldi su questi temi, soprattutto denari pubblici. 
I nuovi Fondi Strutturali presto a disposizione dei territori contengono una litania di termini come ‘Spazi di coworking’, ‘Innovazione sociale per i territori’, ‘Tecnologie abilitanti’, ‘Co design dei servizi’ messi lì da consulenti e pochi funzionari illuminati per dare sapore ai Programmi Operativi ma col rischio di rimanere etichette senza conseguenze reali.  Non mi stupirei se da domani il prefisso ‘Smart’ venisse associato anche alle slot machine e ai corsi di tango. 

Si tratta centinaia di milioni di Euro per i prossimi anni, su tutto il territorio e dunque il mercato spinge chi fino a ieri ha fatto corsi per estetiste o web designer a virare su qualcosa tipo ‘Social Innovation Empowerment and Strategic Thinking’ di fantozziana memoria. Le società di consulenza turbocapitaliste riscopriranno il valore della famiglia o dell'usignolo palustre. Chi ha fatto cucine le farà ‘Smart’, chi ha gestito balere per anziani le renderà ‘attività resilienti’, le Pro Loco si chiameranno ‘Living Lab’, ignari NEET si baloccheranno col mito delle Start Up fino a finire tra le grinfie degli strozzini e nel frattempo tre quarti della saggistica si contenderà nel titolo la parola ‘comunità’ o ‘collaborazione’ per descrivere un mondo piccolo e troppo autoreferente.

Paradossalmente una destinazione del denaro fortemente etichettata nel senso della Sharing Economy o della Social Innovation diventa facilmente fattore di rallentamento del processo di cambiamento e porta alla creazione di ‘riserve di caccia’ che già si stanno ben delineando.

Sento parlare già di professioni della Sharing Economy come se questa dovesse per forza crearne (perlopiù le distrugge perché diminuire il consumo di risorse farà scendere il lavoro ben retribuito. Tuttavia si crea altro: valore sociale, relazioni, nuovi rapporti tra generazioni). 
Mi pare che le uniche professioni nuove che si vedono in giro sono quelle degli ‘Evangelizzatori dell’Economia Collaborativa’.

Questa spinta all’istituzionalizzazione mal si adatta alla natura poliforme di un approccio al mondo fatto di collaborazione tra pari. 
È pericoloso etichettare o etichettarsi come “Quelli che…” fanno Innovazione Sociale o Economia Collaborativa ma manterrei le vecchie categorie di Artigiani, Produttori, Amministrazioni Pubbliche, Clienti, Contadini, Politici, Educatori, etc… piuttosto c’è da ragionare sul nostro modo di interpretare la relazione col mercato e con le risorse, il nostro senso di responsabilità, la nostra attitudine alla sperimentazione e alla collaborazione.
Per hanno in Europa hanno provato a sviluppare l'Industria Creativa e Cuturale e ora stanno facendo una virata totale e parlano di spillover, di contaminazione verso gli altri settori e non di un settore a parte. La vedo come unica via efficace anche per l'Economia Collaborativa.

C’è dunque molto da fare e ben vengano i soldi ma che vadano a sviluppare processi e dinamiche di rinnovamento soprattutto interni ai settori pubblici e privati esistenti. Che si sviluppino occasioni e luoghi per il dialogo, sintesi e proposta tecnica e politica tra gli operatori, senza creare nuove e fittizie tecnostrutture fatte solo di parole e portafogli.

venerdì 7 novembre 2014

Hackerar m'è dolce in questo male...

Da un po' di tempo sono alla ricerca di nuovi mezzi espressivi. Vorrei disegnare, ma non sono capace (o meglio, non sono ancora capace). Allora ho preso in prestito il talento da chi è più bravo e ci ho ricamato sopra. Questa serie di vignette mono-grafiche di Schulz con Lucy e Charlie Brown sono parte dell'impresa.

1) Sarà falso o sarà vero?

2) L'invidia è gratis

3) Non c'è tempo per noi

4) Riforme e risostanze