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martedì 18 agosto 2015

Quando la televisione è vuota.

La nomina di sette consiglieri over 60 nel CdA della RAI spinge a una riflessione sulla tv pubblica, sul suo senso e utilità.
Non c’è nulla in televisione” lo sento dire sempre più spesso. Dapprima viene da chi ha solo i programmi in chiaro. Ecco allora l’investimento nei canali a pagamento. “Non c’è nulla in televisione” sbuca dopo poco. Ecco allora l’aggiunta di qualche pay per view, la prossima sarà Netflix. Non ci sarà nulla da vedere neanche lì perché è chiaro come la tv da noi conosciuta negli ultimi 40 anni sia finita.
La sterminata ricchezza di contenuti di Internet è a disposizione di tutti e in particolare di una generazione che li sa trovare, selezionare e apprezzare, avesse anche i soldi per comprarsi la tv non sarebbe poi così interessata a farlo. Le vendite sono infatti in picchiata. Le Smart tv sono l’anteprima di quanto il mercato può offrire ma non bastano neppure a togliersi l’appetito. La loro usabilità è nulla. Il fascino del 50 pollici è però inimitabile e dunque non credo che verrà soppiantato dal computer o dallo smartphone. Piuttosto serve una tv che si comandi come un tablet, che faccia le stesse cose comandata a gesti e parole.
I palinsesti saranno di libera composizione da parte dell’utenza. Per godere appieno il mare magnum dei contenuti si affermeranno degli opinion leader che, come accade su Twitter, segnaleranno le cose che vale la pena vedere e perché. In fondo, già oggi questo avviene per decidere che serie scaricarsi o vedersi su qualche sito pirata. Vi saranno poi gli “eventi”, trasmissioni d’eccezione che varrà la pena vedere in modo sincrono, tutti assieme, attorno al focolare al plasma. Si tratta di Sport ma anche di concerti pop, festival, qualche reality, anteprime e rarità.
L’utenza si segmenterà sui filoni che corrispondono ai desideri,  alle necessità e agli istinti, tra loro anche in parte sovrapposti:
  • Chi vuole capire e informarsi, seguirà programmi e contenuti di approfondimento su un palinsesto infinito
  • Chi vuole divertirsi/svagarsi, avrà a disposizione format e servizi allo scopo, film, serie, …
  • Chi vuole imparare, potrà accedere a tutorial e contenuti di autoformazione, formazione collaborativa, elearning
  • Chi vuole scommettere, accederà a programmi e piattaforme interattive r potrà farlo anche sovrapponendosi ai format precedenti (scommettere in tempo reale sul vincitore del Festival, la squadra di calcio, etc…)
  • Chi vuole socializzare/rimorchiare, avrà ogni modo per farlo (inclusa la telecamera in dotazione a ogni apparecchio).
  • Chi vuole seguire un movimento/religione/partito avrà l’ambiente per farlo attivamente senza alzarsi dal divano  

Tutto questo avrà  senso se funziona, se affascina, se batte la concorrenza di altri device (quella con la realtà è battuta in partenza). La principale scommessa sarà quella sull’usabilità di questi servizi. È lì che bisogna sperimentare e investire qualche trilionata.
Piccoli esempi: guardando un programma sulle vie medievali di Dolceacqua in Liguria posso poter prenotare direttamente un hotel o un ristorante in loco senza interrompere la visione. Dall’ennesimo programma della Clerici in cui si cuociono asparagi alla birra potrò comprare vegetali o prenotarmi per un corso da mastro birraio. Con la stessa facilità si potranno immaginare contenuti su cui costruire sondaggi, sistemi di votazione, quiz, vendite, anche decidere le trame delle fiction a maggioranza.

Quanto ci vorrà? Non credo sia questione di tecnologia quanto piuttosto di cultura del pubblico. Se consideriamo nativo digitale chi è nato dal ’90 in poi, diciamo che la massa arriverà al potere di acquisto di una tv nei prossimi 5 anni. E se la tv non sarà così, le stesse cose si faranno sui pc, smartphone o – peggio ancora – le persone riprenderanno a uscire e a vedersi di persona, pratica, si sa, poco smart e scomoda in generale.

Ecco allora come la RAI e i sui ultrasessantenni al potere fanno quasi tenerezza: soprammobili fuori moda nella stanza di comando.
Se poi, addirittura, qualcuno si ricorda che parliamo di un servizio pubblico, ecco come questo agghiacciante post debba trovare nella società degli anticorpi  che ne sciolgano i poteri eversivi, blocchino i rischi di censura e monopolio delle idee, liberino lo spirito critico nella costruzione di opportunità. Forse allora chi volesse occuparsi di televisione e bene comune potrebbe ripartire dall’educazione alla curiosità, al rispetto per il diverso, all’insegnare a usare il mezzo per arrivare a un fine che si basi su contenuti fatti con/per e i parte da l’utenza e non dagli inserzionisti o dal governo. 

martedì 4 agosto 2015

Strade pulite, persone pulite.

A volte ospito post importanti, che mi paiono utili a molti, in grado di segnare una strada.
Ecco perchè questo ragionamento sul senso civico e sul futuro del Paese, pubblicato da Elena su FB, va amplificato, fatto girare, ripreso e condiviso. 
Elena è un'amica che ha deciso di fare piuttosto che stare a guardare. Da lei c'è davvero molto da imparare. 
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Mettiamo in chiaro qualche concetto, che mi pare ci sia una certa confusione.
Dico due parole ad una piccola assemblea pubblica, un amico mi dice di metterle nero su bianco, sulle prime esito poi capisco che è il momento giusto. Mi ci metto, i pensieri si allargano, i collegamenti si moltiplicano e quindi parto da lontano.
Chiacchieravo camminando con una mia insegnante, la classica ragazzona americana, allegra, che parla sempre tanto e a voce alta, un metro e ottantacinque di Heather Parisi. Incidentalmente, viene fuori che ho frequentato il liceo Cavour, vicino a Colle Oppio a Roma. Appena lo dico, si ferma, lei sa esattamente dove si trova la scuola, mi fissa con uno sguardo improvvisamente serio e mi dice, in italiano “quindi, tu hai visto il Colosseo tutti i giorni per cinque anni. Tu lo sai che significa questo, vero?” La risposta “yes, I know. It’s a great privilege” la sussurro, quasi mi sento in imbarazzo. Dentro di me l’ho sempre saputo, ma per la prima volta questa pensiero diventa materia, come se lo potessi toccare, della stessa materia del Colosseo.
Semisdraiata sul divano, in pieno zapping nevrotico, mi imbatto in un fotogramma di una corsa ciclistica. Meno di un secondo e passo oltre, giusto il tempo tecnico minimo per decodificare sederi-di-uomini-curvi-che-faticano-inutilmente-fasciati-da-ridicole-tutine-lucide (è la mia considerazione del ciclismo, lo ammetto). Altri due, tre canali e non so bene da dove, dal profondo del cervello, dell’anima, un altro pensiero inaspettato mi dice che sullo sfondo della corsa, quel profilo che separava il cielo dalle montagne sembra proprio quello che si vede dalla casa di nonna in Toscana. Torno indietro, anche se mi sembra impossibile averle riconosciute, sono un pezzo qualunque Appennino; mi costringo a seguire qualche minuto la gara e il telecronista, mi conferma, sembra parlare proprio con me, che sì, oggi il Giro d’Italia passa in Mugello. Resto di stucco, quello che ho riconosciuto in un attimo, senza nemmeno essere consapevole di cosa stessi guardando, è stata la linea d’orizzonte di quasi tutte le mie estati, la corona di monti che abbraccia questa valle, la mia Heimat.
Così ho capito perché mi piace tanto andare in giro per musei, mi piace tutto, ma chi mi incanta sono sempre i soliti Cimabue, Giotto, Andrea del Castagno, Beato Angelico: abbiamo visto la stessa linea d’orizzonte; non li conosco, li riconosco. E ho capito che siamo quello che mangiamo, ma siamo anche quello che vediamo, magari distrattamente, per il solo fatto che fa parte dell’ambiente, che sta all’orizzonte, che passa davanti ai nostri occhi, e giorno dopo giorno, queste visioni modellano il nostro cervello, i nostri sentimenti, i nostri valori, diventano norma, cioè ci suggeriscono cosa considerare normale, accettabile. E cosa no.
Il mio impegno nel movimento di ‪#‎RetakeRoma‬, trova fondamento in quello che ho visto. Ho fatto scorpacciate pantagrueliche di cose belle e adesso che so anche guardarle non posso sopportare che si sciupino solo per approssimazione, distrazione, lassismo. È il contrario del culto ossessivo dell’estetica consumistica.
Inizio quasi un anno fa, da sola e poi in compagnia, incontro persone interessanti, simpatiche, intelligenti, piano piano si impara a conoscersi, si parla sempre di più. All’inizio di acquaragia e strofinacci, poi di una visione della città, degli spazi per la socialità, di uso consapevole delle risorse e si condivide lo sgomento per il pantano corruttivo in cui la città sembra putrefarsi. Sulla strada, nei parchi, nelle scuole tocchiamo con mano le conseguenze di questa barbarie silente: erba che cresce ovunque, altalene sfasciate, cestini dei rifiuti svuotati solo dalle cornacchie, scuole rabberciate alla bell’e meglio devastate da scorribande impunite di vandali, marciapiedi impercorribili occupati da stracciaroli abusivi, monumenti imbrattati, sporcizia, sciatteria e inciviltà che dilagano di pari passo, istituzioni quasi sempre latitanti, forze dell’ordine in affanno. E appalti bloccati, da rifare per ovvi motivi. L’Europa è lontana.
Continuiamo, gli interventi si fanno sempre più complessi, costosi anche, ma il giro si allarga, persone veramente speciali infoltiscono le fila o semplicemente si affiancano, c’è chi ci grida “siete grandi!” dal finestrino della macchina. Ci mettiamo alla prova, organizziamo una mega colletta, un successo inimmaginato.
Arriva giugno, fine dell’anno scolastico e chiusura del nostro primo anno di attività. Ci vuole una pausa di riflessione, magari anche un po’ in solitudine per mettere a sistema tanto lavoro, tante conoscenze, tante emozioni.
La realtà chiama, però. Alcuni giorni fa, durante una riunione di Retake qualcuno racconta che un importante concessionario di pubblicità che lavora all’estero e in Italia, anche a Roma, vorrebbe investire di più ma “i problemi che abbiamo a Roma non li abbiamo da nessun’altra parte. Per questo non investiamo anche nel bike sharing, subiamo già troppi danni agli impianti”. Sono arrivati al punto di rinunciare a cospicui introiti pubblicitari per promuovere una campagna contro gli atti di vandalismo. Mi si gela il sangue: secondo questa impresa Roma non garantisce le condizioni ambientali minime per investimenti che fanno tranquillamente altrove. E parliamo di bike sharing, cioè la versione appena evoluta dell’affittasi biciclette, né vale la scusa della burocrazia assurda perché questi a Roma ci lavorano già, il loro problema è il vandalismo.
Contemporaneamente, l’ennesima emergenza. Migliaia di persone approdano straniere in questa città dopo viaggi irraccontabili, persone in fila per un bagno, del cibo, un paio di ciabatte, come in tempo di guerra. Montano orgoglio e sgomento: romani in fila per portare vestiti, cibo, medicine, offrire un po’ di tempo, sezioni di partito come centri di raccolta, finalmente servono a qualcosa, la rabbia al pensiero che con i soldi che ci siamo fatti rubare avremmo potuto accoglierli più dignitosamente. E ancora istituzioni disorientate, appalti bloccati, cittadini di buona volontà che si sostituiscono ai servizi pubblici. Mi presento ad un centro di accoglienza e piombo in un film del neorealismo: in un vicolo che è un manuale di abusivismo edilizio di necessità, con tetti in ondulato e ballatoi con cascate di petunie come neanche a Versailles, incontro facce consumate, occhi che hanno visto l’orrore, ragazzi stravolti che sembrano vecchi, bambini che giocano a spade con i palloncini e ridono scalzi.
A meno di due chilometri, un’armata brancaleone di bigotti fanatici e estremisti non trova niente di meglio da fare che scendere in piazza contro quelli diversi da loro. Vogliono difendere i lori figli e non si accorgono che li stanno consegnando a dei mostri.
L’Europa è sempre più lontana.
Sembrano solo coincidenze, ma il cerchio si chiude e fa impressione. La delinquenza di stampo mafioso ha inghiottito i servizi basilari di questa città, quello che serve per la vita delle persone comuni, i piccoli, gli indifesi, i bisognosi. Per pigrizia, per ignavia, per faciloneria, per distrazione, per non aver visto quanto tutto stesse diventando brutto e cacofonico, abbiamo rinunciato a strade praticabili, scuole sicure, trasporti pubblici efficienti, servizi sociali all'altezza di un paese civile, manutenzione del patrimonio artistico e culturale, piste ciclabili, riduzione dell’inquinamento, servizi turistici, meno soldi per carburante e più in libri, cinema, viaggi. Tutte cose che si traducono in posti di lavoro, in dignità, in opportunità di crescita culturale e spirituale per i ragazzi, per la società intera. Una gigantesca mancanza di visione.
Ma sottotraccia qualcosa si muove e testimonia l’esistenza di un enorme giacimento di attenzione, cura, competenze, serietà, tenacia, intelligenza, disponibilità, generosità ancora sottoutilizzato, di una domanda forte di partecipazione sociale inespressa che non si riconosce nelle forme tradizionali. Cominciano ad essere molti quelli che si ricordano di avere visto un orizzonte, l’avanguardia della società civile crea nuove comunità e organizza festival sul cambiamento e sull'innovazione, scova eccellenze, racconta storie esemplari, progetta il futuro: boccate d’aria fresca, non tutto è perduto, anche se molti restano ancora esclusi.
Con oltre il 40% di disoccupazione giovanile, con il più basso tasso di natalità mai registrato in Italia dai tempi della Grande Guerra, un Mezzogiorno appena certificato come "destinato al sottosviluppo strutturale", con un astensionismo elettorale impensabile solo dieci anni fa, ce lo possiamo ancora permettere? Secondo me, no.

sabato 25 luglio 2015

Beati coloro che ne capiscono sempre e comunque, perché di essi sarà il miglior posto nei talk show.

Il largo dibattito intorno al referendum in Grecia mi ha trovato silenzioso. 
Non stavo con il “sì”  e neppure con il “no”. Mi è parso ridicolo e furbesco lo stesso referendum che – come si è visto a posteriori – ha comunque portato a un drammatico e inevitabile accordo. La materia è estremamente complessa e io non ne so abbastanza. Se parliamo di servizi per l’impiego, di politiche dell’Unione Europea, animazione di comunità e territori, di cinema, cibo, figli, funghi e poche altre cose posso esprimermi per competenze e esperienze, e spesso lo faccio con foga, ma sulla Grecia, bho?
So che negli anni ho imparato a evitare i partner greci nei progetti in quanto totalmente inaffidabili nella forma e nella sostanza, ma questo vale anche per alcune regioni italiane. Non ho davvero idea di come possano fare a ripagare il debito (matematicamente impossibile in questo millennio) e mi pare legittima anche la posizione di chi ha dato alla Grecia più soldi che l’intero Piano Marshall e ora vuole garanzie. In generale credo che ci sia chi è pagato e ha pure la passione per immaginare soluzioni in materia, che ci mettano la testa, che lavorino sodo.

Un altro bel tema su cui me ne sto sempre zitto è la TAV. Leggo tutto, provo a capire. Non sono un geologo, né un esperto di trasporti. Mi piacciono le montagne e vorrei un’Europa connessa. Vedo alre decine di tunnel che si fanno allegramente e poi gli scontri in Val di Susa. Delego anche qui perché altrimenti sarei ridicolo. Direi solo sciocchezze degne di uno speciale di Studio Aperto.

Tacqui anche molto in relazione alla tragedia delle Torri Gemelle. Ricordo benissimo la mia prima timida impressione: “Gli americani se la sono cercata.” Dopo cinquant’anni di guerre fatte o fomentate qui e là, qualcuno li aveva presi in contropiede. Non capita di certo alla Svizzera o al Canada. Secondo la stessa legge del taglione che loro stessi hanno ingegnerizzato, quello che accadde era proporzionato a quello che loro facevano nel mondo. Ero schifato dal mio cinismo e volevo quasi che toccasse alla logica e non alla violenza rispondere. Poi c’era la posizione di chi riteneva la forza il vero strumento di pace, eccetera. Lì non mi sono mai avventurato nell’appello di chi fossero i buoni e i cattivi. (devo però aggiungere che l’accordo tra USA e Iran di questi giorni, se avrà futuro, è di gran lunga la cosa più interessante successa in geopolitica dalla caduta del muro di Berlino)  

In assoluto la prima volta in cui il mio ego, comunque tuttologo come quello di molti, si è arreso alla complessità è stato con la Guerra dei Balcani. Quella guerra la ricordo straziante per il coinvolgimento di popolazioni povere e innocenti e anche perché nonostante fosse a due passi da casa nostra non si capiva nulla, niente buoni e cattivi, solo un nodo intricato di interessi, sadismi, nazionalismi, mafie, poveracci, religioni. Tutto era così intricato che la mia speranza era solo che chi avesse più intelligenza e visione potesse definire obiettivi di pacificazione e raggiungerli.

Non mi sono mai espresso anche sui temi sportivi ma lì, lo ammetto, all'incompetenza aggiungo l'incapacità di capire la ragione stessa dello sport agonistico.

Questo era il coming out di inizio estate.


Lo so, non è nulla di che, a me però è serve scrivermi (che è la ragione principale per cui questo blog è attivo)

mercoledì 8 luglio 2015

Come trovare il lavoro anche se si ha la laurea.

Nei giorni scorsi il Governo ha fatto timido passo nel codificare come non tutte le università siano uguali. 
La proposta, in sintesi, era che nei concorsi pubblici si assegnino più punti a chi ha fatto una facoltà meno di manica larga con i voti. Immediata è stata la reazione dei rettori e, tra tarallucci e limoncello, l'ipotesi si è sciolta nella calura.
Sebbene ciò riguardi solo l’ammissione a un piccolo gruppo in via di estinzione (i dipendenti pubblici assunti per concorso), secondo me l’argomento è tutt’altro che di importanza residuale per un paese. Si incunea con forza nei tentativi di valutare e essere valutati, di rendere conto del proprio lavoro o ritenersi sopra le leggi della logica e del mercato, di rispondere a chi con le tasse ti paga lo stipendio.
La proposta del Governo forse era zoppicante ma chi si è già premurato di affossarla non ha certo intenzione di presentarne una migliore.
Sì, perchè come ogni famiglia e azienda sanno per esperienza diretta, l'Università italiana è più che adeguata al XXI secolo trasmesso su Rai 1.
Però ci sono molti posti al mondo (es. Inghilterra) dove non vige il valore legale del titolo di studio.
È dunque utile fermarsi e inquadrare la questione.
Parlando poi di mondo reale, anche in Italia l valore legale del titolo riguarda ben pochi e il settore privato ha da decenni introdotto forme di ranking spietato (e non scritto) verso le università.

Nel mio piccolo ricordo bene quando, dopo il terzo candidato con 110 e lode che non sapeva leggere un istogramma, diedi indicazione di cestinare preventivamente tutti i curriculum provenienti dalla Lumsa di Roma, pur sapendo che così mi sarei forse perso qualche perla rara. Ho però valutato che il tempo della mia organizzazione valesse di più. Ci sono poi facoltà risapute come  ‘facili’, atenei ‘chiusi alle novità’ che ripropongono da decenni le stesse visioni del mondo, i diplomifici on line e off line costruiti per accedere ai concorsi pubblici o poter scrivere “Dott.” sul biglietto da visita e acquisire punti agli occhi della mamma o di un cliente sprovveduto.
   
In generale da un laureato ci si aspetta che sia sveglio, capace di dare letture trasversali, abbia delle passioni, una vita e non abbia solo studiato. Di certo deve saper scrivere e far di conto.
Spesso non ci si aspetta molto in termini di competenze specifiche, non perché i giovani non studino ma perché le università hanno poca chiarezza sul cosa serva insegnare loro.
Meglio se qualcosa di concreto abbia comunque imparato a farlo, magari nel tempo libero.

Sempre più spesso mi accorgo che i selezionatori desiderano sentirsi dire dai candidati cosa potrebbero fare nell’azienda. Non perché siano pigri o distratti ma perché per loro la selezione del personale diventa  un canale per portare in azienda innovazione: nuove persone sono nuove e inaspettate competenze per nuovi prodotti, processi, mercati, soluzioni…

Per capire il concetto, consiglio di leggere i requisiti di questa selezione lanciata da Casa Netural a Matera, uno dei santuari dell’innovazione sociale in Italia: “Non ci interessa ricevere curricula, i candidati devono possedere pochi requisiti: curiosità, voglia di lavorare in team, passione per il proprio lavoro e una voglia irrefrenabile di sperimentare nuove soluzioni!
Senza dubbio sono più molto interessanti i candidati che abbiano fatto l’Erasmus e ragionato su tesi con impatti sul mondo reale. Se hanno già lavorato, meglio; se non sanno solo l’inglese, meglio; se non si spaventano davanti alle responsabilità, più che meglio.

Con buona pace della Conferenza dei Rettori, nel mondo reale il valore legale del titolo di studio è ormai nei fatti prossimo argomento per tesi di Storia del Diritto. 

martedì 30 giugno 2015

La tirannia del weekend sempre impegnato

Permettetemi uno sfogo: è un numero imprecisato di weekend che lavoro.
È vero, non sputare mai nel piatto in cui mangi e ringrazia, però non posso esimermi dal notare come da tempo molte delle cose più interessanti avvengano nel  fine settimana.

Possono essere festival, docenze a master, workshop sull’innovazione, sessioni di coprogettazione, o altre diavolerie interessantissime che ti spingono ogni volta pensare “Voglio esserci, per imparare, per scambiare, per partecipare, per dare maggiore spessore ai miei progetti, per ascoltare X che da tempo vorrei incontrare di persona”. 
A volte mi pagano per partecipare, per tenere una relazione o animare un incontro; a volte è pari e patta con una branda e una cena; altre volte pago e sono pure contento di farlo.
E i weekend passano così… come se fosse sano, normale, così da sempre. Non è vero, una volta c'erano le grigliate, l'abbronzante, la gitarella senza post-it né visual map. 
È un segno dei tempi? Devo forse imparare a staccare da tutto il martedì mattina per spiaggiarmi a Capocotta senza sensi di colpa? Le risposte arrivano lente, intanto io arranco per sfiancarmi nei brainstorm del weekend dopo una settimana già a testa bassa.

E poi le Summer School, dove le mettiamo? Una organizzazione che si rispetti deve sempre avere la sua Summer School per non sembrare un dopolavoro o un cenacolo di allegri burloni. Sono tante, attraenti e pure tutte interessanti. Però la School  sta alla violazione delle vacanze estive proprio come i finesettimana sempre pieni lo sono per il riposo.  

Allora ti assale il dubbio…
Che dietro il design thinking ci sia soprattutto voglia di contarsi, riconoscersi, misurare la quantità di speranza che possiamo permetterci di nutrire.
Che le alchimie della misteriosa blockchain non vadano davvero capite ma servano a dirsi: per guadagnarci la birretta al tramonto proviamo a sudare assieme riflettendo sul futuro. Che la Social Innovation sia un'assunzione di responsabilità a tempo pieno e - detto ciò - se ti perdi un TED per svaccarti in agriturismo ci guadagni sia in salute che in conoscenza. 
Che in fondo tutto questo incontrarsi e per affrontare i problemi sia uno speed date della conoscenza, una specie di piattaforma antiedonistica e laica che trasforma il capitale intellettuale in strumento di seduzione e sedizione.

Ora che l'ho scritta non è che la cosa mi spiaccia, mi sono un po' pacificato.
Però per chi ha famiglia e pupi, come il sottoscritto, rimane sempre acrobatico spiegare come l’ennesimo weekend a zonzo sia proprio necessario e importante (perché nessuno ti chiede mai di giustificare l'urgenza e l'importanza di cosa fai il martedì mattina.)

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Dedicato con affetto a tutti gli amichetti che si sbattono per organizzare tutto questo ben di dio. Incluso me stesso e coloro con cui sto progettando con entusiasmo 2 Summer School, domeniche di docenza già in agenda, attività di co-living e varie e eventuali che danno gusto e senso anche a quello che faccio in settimana.


sabato 20 giugno 2015

Family Day 2015: c'ero e ve lo racconto.

Torno ora da Piazza San Giovanni dove si è tenuta la manifestazione Family Day 2015, contro le unioni civili, le adozioni gay, e tutto quello non sancito nell’Antico Testamento.
Ho visto abbastanza concerti del Primo Maggio per stimare i partecipanti al massimo 100.000; la questura dice 400.000 e glielo ricorderemo alle prossime manifestazioni. Nello specifico: la piazza era piena, nessuno però nei vialoni adiacenti.

La prima cosa che colpiva erano i bambini: tantissimi, ovunque, sfatti, stravolti dai lunghi viaggi, dal rimbombo di parole incomprensibili, dall’assenza di spazi per il gioco, dal disinteresse e nervosismo da parte degli adulti tutti impegnati a seguire i relatori. Molti neonati e pupetti ancora in carrozzina. Perché erano lì? Per far numero? Per punizione? L’impressione era che fossero strumentalizzati come feticci da mostrare ai media, da difendere dal mostro del GENDER (ne parliamo dopo).

La seconda cosa che ho notato è stata la falange di Forza Nuova
con le sue magliette stirate, i manifesti ordinati su più file, il brivido di poter stare in Piazza San Giovanni così vicina a Piazza Venezia, che già si pregusta nell’eco di quei discorsi sulla famiglia ‘tradizionale’, sui valori del passato, sull’insegnamento dei nonni e genitori. Poco più in là c’era il neonato Fronte Nazionale,  lepeniano, con tricolori e facce ugualmente littorie.

La terza cosa era vedere come tutti tirassero per la giacchetta Papa Francesco, tutti a dire e urlare “Il Papa è con noi”, impegnati a cogliere in qualche oscura parola dei suoi discorsi una benedizione alla crociata contro il GENDER e a smentire le smentite del Vaticano in materia. Nessun citava il cristallino e famoso “Chi sono io per giudicare i gay”.
Era evidente l’imbarazzo davanti a un Papa che non se li fila proprio, che legge la complessità senza paura, .

E poi il clou: tante famiglie. Moltissimi giovani, anche nell’età della ragione. Parecchi preti e suore.  Tanti registravano coi i telefonini gli interventi. Una folla attenta e desiderosa di riconoscersi. Ben organizzata da parrocchie, circoli e associazioni. Nessuna curiosità o libertà, piuttosto un esercito silenzioso che si vive lo scontro come inevitabile, anche perché neppure conosce il nemico. Ne ho apprezzato la compostezza, pacatezza quasi. Mi hanno colpito davvero.
I manifesti erano concordati, tutti uguali, privi di fantasia nelle parole. Tutti a indicare il GENDER, questa fantomatica filosofia, come nemico canceroso per la società, che le darà morte se non fermato e estirpato quanti prima. Qua e là, gentili signore volantinavano preghiere contenenti maledizioni a Hollande e rimandi francescani, altre diffondevano un indirizzo mail a cui denunciare i progetti GENDER nella tua scuola.

Gli interventi erano tra il bizzarro e il fondamentalista. La maggioranza senza coerenza tra premesse, svolgimento e conclusioni. Spesso sigillati da opportuni passi delle scritture che da soli dovevano spiegare tautologicamente tutto.
Spiccavano l’intervento del padre della famiglia con 11 figli che accusava il sistema scolastico di non meglio precisati condizionamenti ideologici che io avrei definito “presentazione di punti di vista diversi da quello di tuo padre che ha schiavizzato l''utero di tua madre". Notevole l’intervento di repertorio standard dell’ex PD Adinolfi, professionista del poker, acidamente invidioso di Scalfarotto e sconclusionato opinionista del quotidiano La Croce, che ha raccontato di come Elton John ha affittato un utero e fatto soffrire le madri a cui così ha sottratto i figli. Poi è venuto un altro professore convinto che il matrimonio omosessuale avrebbe svuotato asili e parchi giochi. Tutti lì a pompare sui pedali per un posto in parlamento appena si rivoterà.

Il fondo lo ha toccato “Colui che tutti attendete!”, tale Kiko Arguello, spagnolo iniziatore del cammino neocatecumenale che ha catechizzato a lungo la piazza con brani dell’Apocalisse, musicati da lui stesso.
Ha esordito chiedendo “Cosa significa essere cristiani adulti?” Bella domanda. Ha risposto che vuol dire “Amare il prossimo anche se è un nemico”, bell’inizio di risposta. Ha poi aggiunto solo “La moglie è un nemico, il figlio è un nemico e bisogna amarli” e ha chiuso con una canzonetta che mettesse una pezza al vuoto sul perché solo gli etero abbiano diritto a una unione benedetta da Dio. Poi ha aggiunto che l’educazione al rispetto tra i generi non serve a diminuire i femminicidi; “Perché?”, si è chiesto il mio povero neurone. Kiko per spiegarlo in modo semplice ha citato salmi e antico testamento, tarallucci e vino, ha urlato che Cristo è morto per noi e che la Madonna è piena di Luce, e trallalero trallalà come spiegazione sui femminicidi.

Insomma, un sano fact checking proprio del XXI secolo avrebbe sbugiardato due terzi delle tesi presentate inclusa la credibilità dei relatori. Le cose più serie erano quelle fondate sull’Apocalisse, la Genesi, san Paolo che – si sa – sono fonti attendibili e riconosciute anche dal CERN.

E il GENDER? Bho? Volevo capire qualcosa in materia ma niente. Tutti a impregnarsi le fauci in un
diffuso “E' ‘na brutta cosa che rovina la famiglia”. Molti travolti da catene di messaggi su Whatsup che asseriscono come in Germania e Francia alle elementari venga insegnata la masturbazione e alle medie la copulazione in luogo pubbligo.

Quello che ho visto a San Giovanni, e mi preoccupa, è cristallina paura per i propri figli, preoccupazione per l'incapacità di capire il mondo e dunque educare alle sfide, tanto bisogno di risposte semplici e diffusa solitudine. Poi ho visto schiere i falchi in tonaca e in politica che di tutto questo si faranno un bel boccone.

Sono contento di esserci andato. Volevo uscire dalle battute su Facebook e dai talk show sul tema.
Si tratta di temi che mi riguardano personalmente perché oggi tocca ai gay, domani a chi legge Pasolini, dopodomani a chi pubblica Baumann o Harry Potter, e poi chi non vuole mettere la divisa, chi la domenica non va in chiesa, chi usa il preservativo, chi non saluta la bandiera, poi a me.

lunedì 11 maggio 2015

Dalla musica al tumore di Gianmaria Testa

Ho scoperto la magia di Gianmaria Testa da un trafiletto che segnalava come questo ferroviere italiano semisconosciuto avesse fatto 3 serate di tutto esaurito all’Olympia di Parigi. Sarà stato il 1996. Per fortuna dovevo andare a Parigi di lì a poco e mi accaparrai il suo primo disco Montgolfieres e anche un raro demo non destinato al commercio.
Fu amore a primo ascolto per quell’uomo schivo che echeggia da lontano le atmosfere di Conte e Fossati ma percorre un nitido percorso tutto suo.
Nel suo caso, più che di un percorso si può parlare di viaggio. Già, Testa è il cantore del Viaggio in tutte le sue varianti, mezzi, direzioni. Treni, auto e aeroplani muovono i sentimenti dei suoi personaggi, sostenuti da un intreccio jazz che con gli anni si è dilatato verso contaminazioni sognanti.

L’anno dopo la felice scoperta parigina, leggo che è previsto il suo primo concerto importante in Italia proprio al Teatro Carlo Felice di Genova, dove vivevo. Compro una spettacolare prima fila e attendo. Presentandomi la sera fissata vengo dirottato nella sala prove del teatro perché i biglietti venduti sono talmente pochi che nella sala principale da 2000 posti saremmo state una quarantina di tristi mosche sparse sui velluti. Quaranta mosche presto trasformate nei vagoni del treno tirato dalla musica via da lì  

Escono altri bei dischi, tra cui Lampo.
All'epoca, sul web i suoi accordi non si trovano ancora e, col mio stile stentato, tiro già direttamente dall’ascolto quei 4 giri di chitarra che mi consentono di cantare e strimpellare Un Aeroplano a Vela.

Nel 2000 sono al Teatro Valle di Roma, parte di un tutto esaurito che lo conferma un grande anche in Italia. Stupefatto, dal palco ci confidò: “Dal mio piccolo paese del Piemonte, Madonna del Pilone, si veniva a Roma solo in viaggio di nozze o a vedere il Papa. Io suono per voi, non ci avrei mai creduto se me lo avessero detto pochi anni fa”.
Un altro concerto unico ed esclusivo fu quello per poco più di 100 persone, sul tetto del Palazzo delle Esposizioni, in una afosa estate romana, dove si presentò solo con la sua chitarra, un bandoleon e un contrabasso e provò musiche diverse che legavano mediterraneo e pampas.
In quel periodo comincio a ninnare i miei figli con la soave Biancaluna che arrivai a cantare a Ada per tranquillizzarla in una sala di Pronto Soccorso, facendo anche tacere i medici che la stavano curando, tutti presi ad ascoltare.

E poi, viene l’incredibile performance sperimentale all’Auditorium pochi  anni fa, come colonna sonora vivente a Giuseppe Battiston e al suo potente spettacolo teatrale “18.000 giorni – Il Pitone” sullo spettro della disoccupazione a 50 anni.

Oggi, sul giornale, leggo la sua lunga intervista a Michele Serra, della lotta contro un tumore inoperabile, della potenza della musica, di come a 57 anni fino a poco tempo fa ci si potesse dire già vecchi, di come si alzi a suonare e cantare la notte, di come non sia la paura a segnare i suoi giorni ma la sua voglia di lottare e battere la malattia.

Leggo e, senza altre parole, con totale inutilità, lo ringrazio e mi metto già in fila per il suo prossimo concerto.